16 agosto 2024

ULTIMI RICORDI

 


Prima che non rimanga neanche io

Quando tre giorni fa ho riaperto gli occhi mi hanno chiesto il nome, il mio nome. Non so chi sia stato perché i miei occhi erano ancora impastati di buio e catrame e qualche ora dopo, credo, solo di luce e disinfettante per ferite. Non ho un nome, per quello che ricordi. Mi hanno chiesto il nome, una seconda volta, e poi una terza e una quarta; una giovane donna con le mani tremanti mi toccava il viso e la mano e piangeva. Poi è arrivato un signore coi baffi e un camice bianco, un dottore, con pochi capelli se non sulle tempie, il volto scavato e due occhi neri lunghissimi. Mi ha dato un buffetto in viso prima di chiedermi anche lui il nome. Il mio.

“Lei che ne dice?” risposi, prima di un lungo e imbarazzante silenzio rotto solo da rumori di apparecchi elettronici e il battito sintetico del mio cuore.

“Ti chiami Anita, io sono Enrico Curti, sono un medico. Sei in ospedale, ricordi?”. No, non ricordo, sono tre giorni che non ricordo. Oggi non me l’hanno neanche chiesto se ricordassi qualcosa ma non mi ricordo e, a dirla tutta, se potessi muovermi da questo letto andrei in giro a chiedere di sapere qualcosa di più di me e di quello che mi è successo. Ma non posso muovermi e questo signore, Enrico, che fa il medico, e tutta una schiera di giovani e gentilissime infermiere con la coda alta e la pelle perfetta, mi hanno chiesto di non provarci nemmeno. Lo ha chiesto anche la giovane donna che viene qui ogni giorno e non mi parla e non mi spiega, ma mi accarezza e mi guarda e piange.

Sono qui e non so perché, non so cosa mi è successo, mi chiedono se sto bene, tra un sonno e l’altro. Dormo tanto e mi sveglio con precisione alla stessa ora, cosa che ho scoperto grazie al grande orologio grigio che campeggia sulla parete davanti a me. Mi sveglio fissando sempre lo stesso punto su un soffitto di una stanza interamente bianca. Un soffitto fatto da dieci spazi uguali, ognuno dei quali contiene dieci file da dieci piccoli puntini grigi. Li ho contati tutti più di una volta, tra una domanda e l’altra, tra un sonno e l’altro, tra un’iniezione e l’altra. Ma non ho risposte, è evidente, e loro non hanno più domande da farmi, probabilmente. O si sono stancati di aspettare le mie risposte e le cercano altrove, dato che non mi parlano più. Mi chiamano Anita, mi accarezzano il viso e piangono. Ogni tanto viene qualcuno a portarmi dell’acqua con cui bagnare la bocca, il sapore di tubi e reflusso di sangue che ho da quando sono qui non sembra andarsene mai. Le mie mani invece hanno fame di andar via, di scrivere qualcosa su un foglio bianco, qualcosa che ora non ricordo ma sono certa arriverà alle mie dita. I piedi invece riesco a percepirli senza precisione, mi sembrano lontanissimi dal resto del corpo, prolungamenti inutili e freddi.

Vorrei mi chiedessero qual è l’ultima cosa che ricordo, mi sono sforzata di centrarla in maniera dettagliata da quando ho ammesso a me stessa l’impossibilità di pretendere dalla mia memoria le stesse risposte che tutti cercano da me. Ricordo una giornata di luglio, anzi una mattina, il sole forte e deciso, il mio corpo ancora privo di abbronzatura davanti ad una bacheca, i voti dell’esame di maturità, la città, spenta e puzzolente, la mano del mio ragazzo, Paolo Battichiodi, due anni più grande di me, i capelli castani e gli occhi verdi più buoni del mondo, carino ed elegante, sempre sorridente ed educato, perfetto per me e perfetto anche per far schiattare d’invidia quelle idiote dello scientifico. Perfetto eppure già ingombrante nei calcoli della mia vita. Durerà ancora poco, penso, andrò a Roma, a studiare, a provare un respiro diverso. Almeno a tentare, di fare qualcosa di bello. Li c’è il mondo, spazi aperti da esplorare e una vita che non puzza di umido e spazzatura mai recuperata. C’è l’estate per parlare con Paolo, per tenergli la mano ancora un po’, sopra gli scogli, e poi insegnarci a stare bene anche senza la mano dell’altro. So che già che cancellerò Paolo e il suo amore per la matematica e i Lakers, e quel taglio farà male ma sarà necessario per diventare un po’ più me. Quanti tu, e quanti voi ho già eliminato dalla rubrica dei mie giorni e quanti me si sono trasformati in altro? Quanti pronomi ancora si possono cancellare dalla propria vita, prima che non rimanga neanche io?

Oltre al voto della maturità, ai sorrisi e a Paolo ricordo anche un’altra cosa, una cosa stupida fatta di parole depositate in uno spazio lontanissimo molti anni prima che io nascessi, prima che imparassi a camminare, prima che imparassi a parlare. Siamo a lezione con Ronzatti, è primavera, le finestre della classe sono già aperte e la noia dell’ultima ora sembra aver rasato al suolo anche il chiacchiericcio da film americano dell’ultima fila. Pure Ottavio Burri detto La Teppa se ne sta zitto zitto, intontito tanto dal primo caldo di maggio quanto dalla tempesta ormonale che lo ha colpito con due anni di ritardo. Ronzatti si lancia in una spiegazione dettagliata di Vento a Tindari di Quasimodo, nessuno ascolta più da tempo. Io non ascolto Ronzatti da mesi, da quando ci siamo presi a male parole per una diversa interpretazione delle parole di Leopardi. “Irriverente, sei irriverente, ne parlerò con la preside”, mi aveva detto fissandomi con due occhi tondi e piccoli, coi capillari dilatati e una costante dose di muco nel condotto lacrimale. Di fronte al suo sfogo teatrale rimasi in silenzio senza controbattere ma concentrai per almeno tre minuti il mio sguardo dentro al suo, specchio di un ometto pavido e insicuro. La classe attorno in silenzio, si sentiva soltanto il rumore bianco della valvola di sfiato dei radianti a parete. Ronzatti non parlò mai con la preside, consapevole che molto probabilmente la sua protesta non avrebbe mai indebolito la mia ottima reputazione di studentessa e io smisi di ascoltare le sue lezioni, impiegando quelle ore per gettarmi allo scoperta di una programma parallelo, solo mio, che dava voce agli Scapigliati e alle lettere di Pavese ma soprattutto ai maestosi e inarrivabili russi.

Mi ero innamorata della voce di Čhecov dopo le prime dieci righe de La morte dell’impiegato e da lì non avevo mai smesso di inseguire la drammaticità grottesca e quotidiana dei suoi racconti, in cui spesso gli eventi arrivano all’improvviso, perché la vita è così, banalmente piena di cose inaspettate. Čhecov mi ricordava (e nel farlo sembrava ammonirmi) quanto l’impossibilità di stabilire un rapporto riparatore potesse annientare definitivamente l’umanità già schiacciata dei suoi protagonisti. Si amava sempre a metà nelle sue storie, riconoscendosi sconfitti ancora prima della battaglia finale. Dai racconti brevi passai ai testi teatrali e lì conobbi alcuni dei miei migliori amici. Ecco, sarebbe bello vederli entrare adesso in questa stanza, portarmi i loro saluti, ritrovare i loro tic, le loro manie. Ho in testa le parole di Čhecov che lessi durante l’ora in cui Ronzatti spiegava tronfio Città vecchia di Saba alla classe dormiente. Nel secondo atto de Le tre sorelle, a un certo punto Maša, rivolgendosi a Veršinin, dice così: “Non tra due o trecento anni, ma fra un milione di anni la vita resterà tale e quale; la vita non cambia, rimane eterna, seguendo le proprie leggi, contro le quali voi nulla potrete, o per lo meno che mai arriverete a conoscere. Gli uccelli migratori, le gru, per esempio, volano e volano, e indipendentemente da quali pensieri, sublimi o meschini, attraversino le loro menti, continueranno a volare senza sapere perché e dove. Volano e voleranno, per quanti filosofi si possano trovare fra di loro; e che filosofeggino pure, come vogliono, purché continuino a volare…”. Non riuscivo a raccontare il buco che mi avevano scavato in petto quelle parole, una vertigine profonda che in quel mattino di inizio maggio, così lucente e morbido, era rimasta con me.

Mi chiedo dove sarà adesso Maša, penso che potrebbe aiutarmi a capire, a ricordare di più, a ricordare meglio. Vorrei interrogarmi e chiedermi cosa è successo e cosa mi manca per uscire da questo stagno tutto bianco e igienizzato ma sento la risposta tardare a venirmi alle labbra. Mi blocco di nuovo nel pensare a come trascrivere un giorno questo silenzio di lenzuola e tubi, di bip e fasciature che, come un coprifuoco, si sparge appena fuori dal mio baricentro. Ma finisce irrimediabilmente tutto lì, con Maša e i cartelloni della maturità, e prima e dopo niente, non ricordo niente di definito. I contorni di tutte le persone che sono arrivate dopo appaiono slabbrati. Ci sono dei signori che mi accolgono in una grande casa al mare, poi una tavola imbandita, i bicchieri di vetro colorati, una torta di compleanno di qualcuno, forse mia forse no, poi la spiaggia di notte, una coppia di ragazzi che spinge in mare una barchetta bianca e il grande molo di legno. Ricordo la luna, grezza e opaca, come diventano i miei capelli dopo tre passaggi di lacca Elidor tenuta forte. Poi iniziano le pareti bianche e il soffitto geometrico dell’ospedale. E ci sono io, che ora sono stanca, non riesco a tenere a lungo gli occhi aperti, ma non dormo e non sogno. Mi dicono di non sforzarmi, di non muovermi, di cercare di riposare. Nessuno si preoccupa più della mia testa, devo difenderla e proteggere il mio presente da sola ora che non ho passato. Non ricordo e non so, avverto un vuoto straziante dentro la pancia, un foglio bianco la mia anima per cui so solo che mi chiamano Anita e ho molta sete.

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Immagine di copertina © George Wesley Bellows, Forty-Two Kids (1907)

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