04 dicembre 2014

LA CATTIVA REPUTAZIONE DI GUY DEBORD


Nel 1993 usciva da Gallimard “Cette mauvaise réputation...” di Guy Debord. Una lucida riflessione su di sé e su di mondo barbarico da cui non esiste evasione possibile. Un testamento, probabilmente. Noi, almeno, lo leggemmo così. Poco dopo, malato e stanco, Guy si ucciderà con un colpo di fucile. Questo piccolissimo libro, bilancio di una vita, appare ora in traduzione italiana. Da leggere.

Mattia Cinquegrani

Il duello di Guy Debord con i professionisti della società dello spettacolo

Sono le imma­gini pati­nate di uno spot pub­bli­ci­ta­rio del tutto simile – nel sapore e per lo stile – alle com­me­die musi­cali di Busby Ber­ke­ley ad accom­pa­gnare la voce asciutta e caden­zata di Guy Debord: «l’organizzazione spet­ta­co­lare di que­sta società di classe com­porta due con­se­guenze che sono ovun­que rico­no­sci­bili: da una parte, la fal­si­fi­ca­zione gene­ra­liz­zata dei pro­dotti così come dei ragio­na­menti; dall’altra l’obbligo, per tutti coloro che pre­ten­dono di tro­varvi ogni loro bene, di tenersi sem­pre a gran distanza da ciò che osten­tano di amare, poi­ché non hanno mai i mezzi, intel­let­tuali o di altro genere, per rag­giun­gere una cono­scenza diretta o appro­fon­dita, una pra­tica com­pleta e un gusto auten­tico».

Così ha ini­zio Réfu­ta­tion de tous le juge­ments, tant élo­gieux qu’hostiles, qui ont été jusqu’ici por­tés sur le film “La société du spec­ta­cle”, quinto e penul­timo lavoro cine­ma­to­gra­fico dell’autore parigino.

Troppo one­sto agli occhi del potere, troppo coe­rente nel mondo intel­let­tuale, troppo ela­bo­rato per il grande pub­blico. Per non finire costretto, egli stesso, in quel sistema che aveva instan­ca­bil­mente con­te­stato, per tutta la pro­pria vita Debord ha dovuto – e senza dub­bio anche voluto – rispon­dere tanto alle accuse sde­gnanti mosse con­tro la sua opera (e, a ben vedere, con­tro la sua per­sona) quanto a quelle lodi piene di esal­tata appro­va­zione e, pro­prio per que­sto, prive di valore.

È certo dif­fi­cile scri­vere di un uomo che disprez­zava, aper­ta­mente e senza remore, la stampa «per quello che dice e per quello che è», ma l’uscita della tra­du­zione ita­liana – la pub­bli­ca­zione fran­cese risale a ven­tun anni fa, per Gal­li­mard – di Que­sta cat­tiva repu­ta­zione… (Post­me­dia, pp. 78, euro 9,90) è una buona ragione per pro­vare a farlo. Ultima opera di Debord, que­sto libello (pres­sap­poco come avve­niva in Réfu­ta­tion) pone sotto esame le aspre cri­ti­che for­mu­late dai media­tici – durante i cin­que anni pre­ce­denti alla prima pub­bli­ca­zione dell’opera – nei con­fronti delle teo­riz­za­zioni e della vita stessa dello scrittore.



Ben lon­tano, tanto nella sua arti­co­la­zione quanto nella com­po­si­zione, da unaexcu­sa­tio non petita, dall’auto-assoluzione di un uomo ora­mai scon­fitto, que­sto volu­metto (scritto con una iro­nia forse ina­spet­tata) dice ancora molto riguardo alla società dello spet­ta­colo. L’autore rie­sce a tra­sfor­mare con suc­cesso la pro­pria posi­zione da quella di «oggetto da inda­gare» in quella di «mate­ria spec­chiante», sulla quale pro­iet­tare i mec­ca­ni­smi e le insa­na­bili con­trad­di­zioni della società. «In que­sta sede, – afferma nella con­clu­sione del libro – mi è pia­ciuto citarmi in più occa­sioni. Non ignoro che molti tro­ve­ranno que­sto fatto scioc­cante. Però nes­suno sarebbe tur­bato – e non sarebbe nean­che stato utile farmi que­sta cat­tiva repu­ta­zione – se mi fossi tro­vato, come gli altri, nell’impossibilità di citare ancora oggi quello che avevo pen­sato in precedenza».

Le molte cri­ti­che mosse a Debord e qui ripor­tate «con pre­ci­sione (…) e in ordine cro­no­lo­gico, che è la cosa più impar­ziale», sono sem­pre ana­lisi inten­zio­nate: a coglierlo in fallo, a met­terne in discus­sione la mora­lità, a inven­tarne la con­trad­dit­to­rietà del pen­siero, a pro­durne la cor­ru­zione intel­let­tuale. A un uomo che, prima di tutto, si è sem­pre impe­gnato «sem­pli­ce­mente (a) fare quello che (amava) di piú» viene pro­gres­si­va­mente (ma con vio­lenza) sosti­tuita l’immagine di un bieco appro­fit­ta­tore, di un indi­vi­duo che ha sem­pre ope­rato cal­co­lando il pro­prio bene­fi­cio. D’altro canto, non vi è nulla che fac­cia più paura di una intel­li­genza impla­ca­bil­mente coe­rente con se stessa e poco affa­sci­nata dalle sirene del potere e della fama, nulla appare più sov­ver­sivo dell’integrità di chi sce­glie di vivere e di agire, sem­pli­ce­mente, «essendo quello che è».


il manifesto - 25 Novembre 2014  

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