L’URGENZA DELLA RICERCA
di Manuel Anselmi
In un articolo del 2001 dal titolo “Sociologia e teoria critica della società”, apparso su Questioni di Sociologia, Luciano Gallino tracciava un bilancio della ricezione della Scuola di Francoforte nell’ambito delle scienze sociali italiane, lamentandone un progressivo abbandono dopo un periodo entusiastico durato fino alla fine degli anni Settanta. Gallino, che era stato il traduttore italiano dell’Uomo a una dimensione di Marcuse, in quell’occasione denunciava una generale deriva specialistica concentrata sul ‘particulare’ empirico e un atteggiamento sempre più passivo delle scienze sociali italiche nei confronti di una realtà sociale che, negli anni ’80 e ’90, si era andata ristrutturando secondo le logiche del neoliberismo. A giudizio del sociologo torinese i suoi colleghi italiani, dimenticando, o sarebbe meglio dire tradendo, le indicazioni dei francofortesi, avevano progressivamente rinunciato a uno sguardo sulla totalità e ad ogni pretesa di sua trasformazione in favore di un più facile neopositivistico neutralismo ideologico. Le parole di Gallino apparvero allora eccessive e persino nostalgiche, anche perché non tenevano conto di quella parte della sociologia italiana che, in controtendenza rispetto al conformismo del reflusso proprio in quegli anni, aveva trovato una qual certa opzione critica alternativa nella tradizione francese di Foucault e di Bourdieu.
Oggi però leggendo le quasi quattrocento documentatissime pagine del volume di Giorgio Fazio Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica, appena pubblicato da Castelvecchi, il bilancio negativo di Gallino trova delle conferme. Fazio mostra chiaramente quanto la Scuola di Francoforte negli ultimi decenni si sia rinnovata e sia cresciuta propagandosi in differenti contesti internazionali. Mentre nel nostro paese – fatta eccezione di alcune encomiabili realtà come la Società Italiana di Teoria Critica, dalle cui fila prende le mosse il lavoro di Fazio – in modo del tutto semplificato e pregiudiziale, e anche ideologicamente sospetto, si è imposta una certa narrazione manualistica che ha liquidato l’intera vicenda come gloriosa ma connotata da una certa obsolescenza teorica.
Ritorno a Francoforte è quindi innanzitutto uno strumento utilissimo per avere uno sguardo d’insieme su una complessa vicenda intellettuale iniziata nel 1930 con l’assunzione di Max Horkheimer al ruolo di direttore dell’Institut für Sozialforschung di Francoforte, fondato nel 1923. L’impianto storiografico scelto mostra quanto anche l’evoluzione di questo movimento culturale abbia seguito una dialettica scandita dal rapporto tra critica e tradizione. In questo senso Fazio utilizza i commenti degli esponenti dell’ultima generazione per commentare i passaggi chiave della prima. La complessa traiettoria di ricerca di Habermas, che una certa vulgata ha spesso presentato come una figura epigonica, viene invece rivalutata soprattutto per la sua funzione di cerniera tra i fondatori e i più giovani interpreti.
L’ultima parte del libro è forse quella più innovativa poiché fornisce un quadro molto esaustivo del dibattito contemporaneo, caratterizzato da un’apertura verso l’esterno e una varietà di approcci di sicuro maggiore della fase iniziale. L’autore si sofferma giustamente sulla svolta hegeliana di Axel Honneth la cui teoria del riconoscimento ha dato un significativo impulso per un ritorno all’analisi diretta della società, abbandonando una certa subalternità alle istanze di fondazione discorsiva della normatività di pretto conio habermasiano. Honneth prepara così il terreno agli studi sulle forme di vita del capitalismo di Rahel Jaeggi o ai lavori sull’accelerazione sociale di Hartmut Rosa. Ma anche di autori meno conosciuti. È il caso, per esempio, di Emmanuel Renault che è riuscito a combinare con successo la svolta della teoria del riconoscimento di Honneth con un ritorno a Marx, nel quadro di una ricerca empirica diretta a esplorare i territori della «sofferenza sociale» e dell’«esperienza dell’ingiustizia», in particolare nelle odierne forme del lavoro precario e deregolamentato del capitalismo neoliberista, dimostrando in questo modo l’utilità di una prospettiva critica epistemologicamente plurale.
Ritorno a Francoforte riesce ad offrire una varietà di temi di grandissima utilità non solo al lettore interessato ad avere un quadro puntuale del dibattito della filosofia sociale contemporanea, ma anche per lo scienziato sociale che necessita di strumenti ermeneutici per una comprensione più amplia della dimensione empirica. Particolarmente degno di nota è il capitolo che l’autore dedica alla questione europea, sottolineando quanto – anche questo merito habermasiano – sia uno dei temi centrali della recente riflessione francofortese, animata oltre che dall’autore di Teoria dell’agire comunicativo anche da Wolfgang Streeck e da altri studiosi come Hauke Brunkhorst o lo stesso Honneth.
Davanti a un tale sforzo di sintesi, che anche per lo stile chiaro vuole essere molto di più che un compendio di storia del pensiero ma piuttosto uno strumento di approfondimento per studiosi di differenti discipline, viene però da chiedersi se la proposta di Fazio rischi di cadere nel vuoto oppure abbia la possibilità di incontrare un interesse nella comunità scientifica italiana. Durante la lettura le suggestioni in tal senso possono essere tante. Dall’uso della riflessione dei già menzionati studi sull’accelerazione e la temporalità sociale di Rosa per ricostruire la dimensione sociale reale di nuove forme di soggettività sociale dei precari e dei lavoratori para-subordinati; alla possibilità, sul piano strettamente politico, di esplorare nel profondo le nuove tendenze sociali globali neo-autoritarie che la scienza politica e il diritto incasellano in etichette del tipo: softauthoritarianism, illiberal democracy, hybrid regime .
Se si guarda alle possibilità concrete di un ritorno alla teoria critica da parte della comunità scientifica italiana però il discorso potrebbe farsi più pessimistico, visto che molti settori sociologici sono ormai dominati da approcci quantitativi acritici e da una eccessiva standardizzazione della ricerca. Ciononostante bisogna segnalare alcuni significativi segnali. La recente nascita del Network di Sociologia di Posizione[1], a cui hanno aderito decine di sociologhe e sociologi italiani, perlopiù trenta-quarantenni, finalizzato a recuperare un ruolo attivo e trasformativo delle proprie discipline rispetto alla crisi sociale in atto, sembra proprio muoversi in questa direzione.
Di sicuro dalla lettura del volume di Fazio emerge chiaramente quanto ancora la Scuola di Francoforte possa offrire in termini di strumenti e concetti per ripensare la complessità del proprio tempo e guadagnare qualche chance in più per uscire dalla subalternità rispetto allo stato di cose imposto dal sistema socio-economico egemone.
[1] https://jacobinitalia.it/per-una-sociologia-trasformativa-e-di-posizione/
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