La tematica gramsciana di Americanismo e fordismo è stata per
una lunga fase proposta come un’analisi «classica» delle novità del capitalismo
di fronte alla crisi mondiale. Dilatata spesso oltre i suoi limiti storici, ha
poi subito qualche comprensibile reazione di rigetto. È possibile darne oggi
una lettura corretta, che ne riveli i punti di efficacia attuale? A chi
percorre i nodi di queste pagine, risulterà evidente il punto di partenza della
riflessione di Gramsci: la modernizzazione e lo sviluppo delle forze produttive
sono una esigenza imprescindibile di quella fase storica. In linea di tendenza,
la soluzione del problema può venire solo dall’avvento della classe operaia
alla direzione della produzione, della società e dello Stato. È questa una
idea-forza presente già nell’elaborazione «consiliare» del Gramsci dell’«Ordine
Nuovo». Ma gli sviluppi della crisi mondiale dimostrano che, accanto
all’ipotesi socialista, esiste anche una risposta capitalistica al problema
della modernizzazione: essa si manifesta non soltanto sul terreno
dell’organizzazione della produzione, ma anche su quello della società e dello
Stato. L’americanismo esprime appunto per Gramsci la forma più avanzata della
sfida capitalistica, capace di integrare innovazione e restaurazione, economia
«programmatica» e libertà dei capitalisti, in un processo di «rivoluzione
passiva» che rischia di mettere sotto scacco le forze rivoluzionarie. Il ricco
apparato di note chiarisce e storicizza questa impostazione gramsciana,
situandola all’incrocio di alcune fondamentali tematiche della cultura degli
anni ’30: dalla riflessione interna al gruppo dirigente dell’Internazionale,
alle discussioni sull’«economia nuova» di Rathenau, ai dibattiti su una
ipotetica svolta modernizzatrice dei fascismi europei.
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Michela Nacci ha scritto molti anni fa un bel libro sull'antiamericanismo in Italia al tempo del fascismo. Stephen Gundle si è occupato dei comunisti italiani tra Hollywood e Mosca. Qualcuno un giorno ragionerà sul modo in cui dopo la seconda guerra mondiale è stata metabolizzata l'influenza americana. In molti casi c'è stata una assimilazione creativa, spesso ironica e scherzosa. Si pensi alla canzone Tu vuò fa l'americano, o al film Un americano a Roma. Anche Giorgio Gaber ha dato un suo contributo in materia, in particolare con la ballata del Cerutti Gino. La ballata è una forma molto antica di poesia, nasce come lauda religiosa con Guittone d'Arezzo e Jacopone da Todi. Si ritrova come componimento di ispirazione amorosa in Cavalcanti e Petrarca. Giorgio Gaber e Umberto Simonetta nel 1960 producono a loro volta una ballata, ma a quel punto si tratta di una canzone in musica e gli antecedenti significativi non risalgono ai secoli Due e Trecento. Pochi anni prima, tra il 1955 e il 1958, erano uscite in America due canzoni che recavano il nome di ballate, dedicate una a Davy Crockett e l'altra a Tom Dooley, personaggi famosi di rilievo nazionale. Gaber e Simonetta si rifacevano in modo esplicito a questi precedenti, senza però offrire una replica pedestre. Quello che in origine era il frammento solenne di una epopea nazionale diventava la rimembranza umile e preziosa di una epopea domestica. Senza dubbio il Cerutti Gino è anche lui, a suo modo, un personaggio memorabile, ma lo è solo per un ristretto giro di amici. Il personaggio celebrato da Gaber e Simonetta è tutto sommato uno come tanti, un giovane di vent'anni, scansafatiche e squattrinato, che frequenta il bar del Giambellino, il quartiere della periferia milanese dove lui vive. Questo marginale, non riuscendo a rubare una Lambretta lasciata in una strada buia, si fa arrestare, si becca una condanna a tre mesi di galera e viene liberato in anticipo con il condono dopo una lunga ramanzina del giudice. Tornato al bar, scopre di avere acquistato per il tempo che verrà la reputazione del duro.
Musica di Giorgio Gaber, parole di Umberto Simonetta
Io ho sentito molte ballate: quella di Tom Dooley, quella di Davy Crockett e sarebbe piaciuto anche a me scriverne una così. E invece, invece niente: ho fatto una ballata per uno che sta a Milano, al Giambellino: il Cerutti, Cerutti Gino.
Il suo nome era Cerutti Gino
ma lo chiamavan drago
gli amici al bar del Giambellino
dicevan che era un mago.
coro: era un mago
Vent'anni biondo mai una lira
per non passare guai
fiutava intorno che aria tira
e non sgobbava mai.
Il suo nome era Cerutti Gino
ma lo chiamavan drago
gli amici al bar del Giambellino
dicevan che era un mago.
coro: era un mago
Una sera in una strada scura
occhio c'è una lambretta
fingendo di non aver paura
il Cerutti monta in fretta.
Ma che rogna nera quella sera
qualcuno vede e chiama
veloce arriva la pantera
e lo vede la madama.
Il suo nome era Cerutti Gino
ma lo chiamavan drago
gli amici al bar del Giambellino
dicevan che era un mago.
coro: era un mago
Ora è triste e un poco manomesso
si trova al terzo raggio
è lí che attende il suo processo
forse vien fuori a maggio.
S'è beccato un bel tre mesi il Gino
ma il giudice è stato buono
gli ha fatto un lungo verborino
è uscito col condono.
Il suo nome era Cerutti Gino
ma lo chiamavan drago
gli amici al bar del Giambellino
dicevan che era un mago.
coro: era un mago
E' tornato al bar Cerutti Gino
e gli amici nel futuro
quando parleran del Gino
diran che è un tipo duro.
Pezzo ripreso da https://machiave.blogspot.com/2024/10/la-ballata-del-cerutti.html
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