Bianciardi e l’arte di non leggere
Per far carriera nel mondo culturale, inutile perdere tempo. I libri è meglio farseli raccontare. Non serve formarsi, ma informarsi. Un profetico “manuale” del lontano ‘66 scritto dall’autore di La vita agra
Ne aveva parlato, con la sua solita arguzia, già Umberto Eco in una Bustina di Minerva del 1997, che si intitolava Quanti libri non abbiamo mai letto? Per rispondere, con un calcolo approssimativo ma credibile, prendeva in esame il Dizionario Bompiani delle Opere, che contava 5.450 pagine e riportava in media, nell’edizione di allora (non sappiamo se sia cambiata nel frattempo, anche la nostra, preziosissima, è un po’ datata) tre titoli per ogni pagina: dunque sedicimila libri da considerare classici, o quasi, e quindi imprescindibili. Per leggerli tutti, - uno ogni quattro giorni, considerato i tempi di un lettore medio – sarebbero però necessari circa 180 anni.
Lo ricordava Guido Vitiello in un suo libro dell’anno scorso (Il lettore sul lettino, Einaudi: che abbiamo, in questo caso, letto con attenzione e sottile piacere; e per intero, come spesso non accade), ma il tema è sufficientemente antico e con Internet, ha assunto proporzioni gigantesche, o forse è semplicemente venuto pienamente alla luce. Ne parlò ad esempio, col suo abituale sarcasmo, Luciano Bianciardi in un’opera tarda della sua vita così “agra”, come dal titolo del romanzo autobiografico che gli ha dato celebrità e ne ha fatto un classico più o meno segreto. Ora è uscito per Neri Pozza una sorta di vademecum ad uso dei mediocri che intendono far carriera nell’ambito della cultura. Si intitola, non poteva essere diversamente, Non leggete i libri, fateveli raccontare. Uscì in sei puntata nel 1966, come spiega Pino Corrias nell’introduzione, sul settimanale ABC, «rotocalco da battaglia» di intonazione radical-socialista, provocatorio e anticonformista.
Ci sono, nelle sei lezioni, situazioni e personaggi vagamente riconoscibili, come ad esempio il “padrone” dell’azienda culturale in cui dovrà farsi largo il futuro Bel Ami – e molto assomiglia a Giangiacomo Feltrinelli, odiato-amato dall’autore grossetano - ma soprattutto c’è un ritratto del mondo culturale d’allora; che è da un lato impagabile, dall’altro non privo di costanti ormai storiche. Il tema essenziale, la regola per far carriera, spiega Bianciardi, è di non perdere tempo in cose inutili, come studiare o anche pensare. Occorreva (occorre?) darsi un’aria abbastanza seria da apparire pensosa, sgomitare, conquistare i padroni senza tradire il solito panico da impiegato, rendersi necessari e possibilmente invisibili, per scalare davvero il potere culturale. Leggere i libri, poi, è assolutamente da evitare. Basta farseli raccontare, partecipano alla vita sociale dei salotti e parlando il meno possibile (ma un po’ sì, pur restando sulle generali).
Grande Bianciardi, nella sua disperazione. A parte l’invisibilità, che oggi non funziona se non in casi rarissimi, descrive una dinamica che non si è mai interrotta, e nell’epoca di Wikipedia, poi, trionfa con astuti copia e incolla. Inglesi e americani, che coprono la maggiore fetta di mercato culturale, hanno prodotto al proposito, negli anni, indagini e testimonianze molto divertenti: dall’elenco dei libri che tutti gli addetti ai lavori, docenti universitari, critici, opinionisti, giornalisti, fingono di aver letto, alle piccole menzogne un po’ vergognose dei normali lettori, che non avrebbero problemi, in fondo, a dire la verità.
Circola da anni una top ten, fornita dal “Guardian”, che vede in cima a questa stralunata classifica 1984 di George Orwell (proprio quello più citato in questi tempi di guerra), seguito dal Tolstoj di Guerra e Pace e dal Dickens di Grandi speranze. Quarto Il giovane Holden, e questo divertirebbe forse J.D Salinger, suo reclusivo autore. Ma ce n’è anche per Dostoevskij (Delitto e castigo) e addirittura, nonostante il culto da cui è circondata, per Jane Austen (Orgoglio e pregiudizio). Possibile? Questo tipo di inchieste non è mai del tutto controllabile, né magari affidabilissimo, ma è un quadro, se pur inevitabilmente un po’ sfocato, certo non poco realistico. Come già sapeva Bianciardi, che fotografa bene una situazione precisa, l’imminente società dell’informazione: quella in cui «nessuna persona seria e pratica vuole oggi formarsi: basta informarsi». Scritto nel ’66, mica nel 2022.
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