28 aprile 2025

DALLA PSICOANALISI ALLA LETTERATURA: OLGA TOKARCZUK

i Pietro Pascarelli [Questo articolo è stato originariamente pubblicato nel 2019 su «European Journal of Psychoanalysis», dove si trova oggi solo la versione inglese: Pascarelli, P. (2020). From Psychoanalysis to Literature: Olga Tokarczuk. European Journal of Psychoanalysis, Vol. 7, No. 1]. «Al subcosciente piace fare scherzi». Con queste parole, nel romanzo Casa di Giorno, Casa di Notte, un personaggio dal nome solenne di Ergo Sum commenta i suoi dubbi su una frase di Platone nell’ottavo libro della Repubblica: «Colui che ha gustato visceri umani, si trasforma inevitabilmente in lupo». Una frase cruciale per la sua esistenza alla quale non aveva mai fatto caso, di cui cerca febbrilmente conferma in diverse edizioni dei testi del filosofo. Ci si può domandare se nell’opera di Olga Tokarczuk vi sia traccia dei suoi studi e della sua precedente professione di psicoanalista, se cioè psicologia e psicoanalisi abbiano contribuito alla sua realizzazione letteraria. La domanda in qualche modo inverte i termini di una proposizione da sempre nota agli psicoanalisti a partire da Freud e Jung: gli scrittori, gli artisti, sanno scrutare i segreti del mondo meglio di tutti, e sulla mente ne sanno più degli psicoanalisti. A Freud piaceva ricordare spesso una frase tratta dall’Amleto di Shakespeare che esprime per converso tutti i suoi dubbi sulle possibilità della sola scienza: «There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt of in your philosophy» («Ci sono più cose fra cielo e terra, Orazio, di quante possa sognarne la tua filosofia)». La forza dell’inconscio, accettato come finestra sapienziale sulla vita, e l’intelligenza poetica; il pensiero creativo e la psicoanalisi come sguardo antropologico rivolto ai mondi culturali e alla nostra quotidianità sullo sfondo del cosmo, dell’intimità del sé e del tempo immemoriale, percorrono in tutte le direzioni possibili l’opera di Olga Tokarczuk. Ho preso in esame, per cercare di dare una risposta, vari scritti e dichiarazioni, racconti e romanzi. Fra essi soprattutto l’impervio e misterioso Casa di giorno, Casa di notte, che considero campione per eccellenza di per sé sufficiente ai fini della mia riflessione. Esso mostra una mescolanza di arcano e solare, mistero e conoscenza, incantesimo e spiritualità che lo pervade e prescinde da ogni logica ordinaria. Possiamo vederlo svilupparsi per frammenti, o scorgere nessi in ciò che appariva sola contiguità, o scoprire che bisogna procedere con la lettura e poi riguardare indietro per cogliere una qualche connessione, un filo che lega i fatti. Altre volte i temi riaffiorano in modo carsico, ma sono strutture portanti dell’opera, come la storia edificante della santa Kummernis, al secolo Wilga, da Schonau, colei che costrinse il diavolo a confessarsi fra le sue braccia.La giovane si era dovuta rifugiare in un convento per sfuggire a un matrimonio combinato dal barone suo padre. Nelle icone sacre sarà ritratta a seni nudi e dotata di barba, perché in realtà Gesù Cristo le ha fatto dono della propria testa per riscattare il suo corpo dalla condizione terrena e dalla soggezione al padre. Questi, di fronte a tale trasformazione, vista sfumare ogni possibilità di ridurre la giovane, che era stata di bellezza senza uguali, al suo volere, accecato dalla rabbia finirà per pugnalarla a morte e crocifiggerla alle travi della prigione in cui l’aveva murata. Il fatto dell’immagine crocifissa della santa coi seni nudi e il volto ornato di barba, insieme a sue inaudite proposizioni mistiche, e dialoghi estasiati col Signore, solleverà non poche questioni nella Chiesa. La storia mi pare in realtà eversiva perché pone al centro la questione di una mancata neutralizzazione del potere tellurico di un femminile che rifiuta di farsi rimuovere dalla storia e dalla religiosità, e di farsi ridurre a mera naturalità erotica e procreativa irrelata. Grattando la patina scontata dell’apparenza, il viso perduto di Kummernis, esito di un’operazione che impedisce per un verso di ridurla al rango della femmina sapiente, pensante e ribelle − la strega di Jules Michelet − è per l’altro verso metafora della potenza creatrice senza nome dell’inconscio, della sua capacità di cambiare il mondo articolandosi con esso, addirittura rifondandolo, in modo immediato e libero, e trovando facilmente alleati. Cosa che il potere vigente, simbolizzato dal padre, non può assolutamente accettare. Si potrebbe perfino dire che Kummernis rappresenta il perturbante, e alla fine la stessa psicoanalisi, e la sua funzione etica e sociale. Il suo biografo è un monaco giovanissimo e di umili origini di nome Paschalis, il cui massimo desiderio è quello di diventare donna. Paschalis, investito dalla badessa di tale ruolo agiografico, è ospitato in una dépendence di un convento di monache benedettine immerso nei boschi dei Sudeti, oltre il muro del quale ode lo scalpiccio e altri rumori segreti della vita delle suore. Oppresso dalla solitudine della sua cella e inebetito dal demone di mezzogiorno, dunque dal contatto con la propria intimità soggettiva e l’inconscio, il ragazzo confessa un giorno alla badessa che vorrebbe essere riconosciuto dal Papa come donna per stare in mezzo alle monache ed essere ammesso alla loro mensa da pari. Ma la badessa gli rivela che lo scopo ultimo delle sue scritture e della sua permanenza in quel luogo è solo quello di perorare a Roma, con le sue scritture, la canonizzazione come santa di Kummernis, già beata o comunque venerata. Paschalis viaggerà successivamente fino alla città di Glatz, sede vescovile, per esporre all’autorità ecclesiastica il suo racconto, scritto con gran tormento di anima e corpo, e farlo arrivare al Papa. La storia della santa ha il valore simbolico di una rivoluzione. Non sembra esservi una ragione delle sue riemersioni periodiche nel romanzo invece di una trattazione unitaria, non si vede una spiegazione di questo suo modo di apparire, che sia diversa da una reiterazione rituale, sottesa a una sconosciuta sequenza di azioni psichiche fra loro collegate, e all’emergere di altri elementi della narrazione, quasi a rischiararli, a inondare il mondo della luce di una ribellione che è ammantata prudentemente di santità ma è in realtà istanza di liberazione e gesto creativo dirompente. Alla fine si ha un’idea meno inquietante del modo di procedere del pensiero che annoda le cose importanti, ma si resta secondo me, con questa scrittura che qualcuno definisce “a mosaico”, in presenza di qualcosa che vuol proprio rappresentare l’impossibilità di un compimento e di una soluzione di conciliazione armoniosa, di qualcosa che è metafora del disordine e della complessità del mondo, di segrete interconnessioni. Il senso delle cose va cercato andando avanti e indietro nel ripercorrerle, e aspettandolo poi pazientemente, come nella sua scrittura pensosa ed esitante fa Paschalis, interrogandosi sulle parole per scrivere la vita di Kummernis. La prospettiva di Tokarczuk è onirica: Nella mia scrittura la vita si trasformava in storie incomplete, in narrazioni simili a sogni, si mostrava in lontananza in strani panorami delocalizzati, o in sezioni trasversali − e perciò era quasi impossibile raggiungere una qualunque conclusione rispetto al tutto”. [Dal racconto “Your head in the world”, tratto da Flights, tr. it. I vagabondi, di Olga Tokarczuk). La voce di Olga Tokarczuk, se immaginiamo di udirla risuonare nell’aria in un momento magico di corrispondenza vocale con la scrittura, è fin dall’inizio inconfondibile in ogni sua pagina, anche in un sussurro è sempre lei. Ha precise tonalità, si contorna di una materia luminosa che non si scolla e la mantiene nitida. Produce un senso di raccoglimento imparziale e di sintonia col mondo fantastico in cui attrae. Ci si chiede cosa ne determini il timbro così particolare che lega felicemente le immagini acustiche, cioè le parole. A pensarci, potrebbero essere date tante spiegazioni diverse, ma a me sembra che sia priva di eco, o meglio come se avesse riassorbito in statu nascendi ogni possibile eco. Non incontra il mondo, ma lo crea come soffio vitale. Non le devono ritornare segnali sonori d’esistenza, essa c’è in tutte le cose, dorme fiabescamente da sempre nelle stesse pagine dei suoi libri, in tutti i mondi che crea o forse risveglia con le sue parole, con la sua lingua polacca così speciale, e come lei dice marginale, parlata da una minoranza di persone al mondo, plastica e accogliente rispetto alle lingue straniere. Una lingua – peccato poterne leggere solo le traduzioni – pronta a coniare termini nuovi, e incline ai diminuitivi, che rende il mondo più caldo e rassicurante, più familiare. Nei bar della Polonia si beve il lattuccio (mleczko), e sul tram vi possono festosamente chiedere di mostrare il vostro bigliettuccio (“Bileciki do kontroli!”). Si tratta di una soavità che non ha niente di lezioso, è una Weltanschauung, che per giunta, attraverso il dono di un qualcosa che ha del confortevole, nutre soavemente il narcisismo secondario di ciascuno. La sua lingua è anche paradossalmente un ascolto in forma di parola, e scintilla di forza poetica, vita. Una lingua, come ancora la stessa Tokarczuk afferma, è tutto per uno scrittore, ma sbaglierebbe chi la intendesse come un brodo primordiale in cui ogni cosa prende forma. Ci si trova in realtà, ella dice, scaraventati nella lingua come qualcosa che preesiste a noi. A essa ci adattiamo, vi troviamo uno spazio grazie al quale accediamo a noi stessi, e al nostro mondo. «Potremmo dire che la nostra lingua è il nostro destino letterario. È anche ovvio che nella nostra lingua possiamo essere noi stessi solo fino a un certo punto (ed essere se stessi sembra un imperativo fondamentale della nostra cultura), poiché siamo tutti soggetti anche a qualcosa di più grande e più forte di noi, che non controlliamo». Così la scrittrice scriveva nel 2011 sulla rivista online «Eurozine», in un testo dal titolo Un dito che indica la luna ripreso poi dalla rivista «Internazionale» nel numero 1072 del 10 ottobre 2014, da cui derivano anche le informazioni sulla lingua polacca sopra riferite. Vi è qui, parlando di lingua, una prima allusione alla psicoanalisi, a Freud e Lacan, percepibile però solo da addetti ai lavori, e lei lo è stata per quel che si sa, avendo ricevuto una formazione psicologica e psicoanalitica, che portò a una sua predilezione per Jung. Sul Guardian del 24 agosto 2018 Tokarczuk faceva invece un riferimento esplicito alla psicoanalisi, e direttamente a Freud, e al suo testo Al di là del principio del piacere: Ho letto per la prima volta Al di là del principio del piacere di Sigmund Freud da ragazza, e quest’opera mi ha aiutato a capire che c’erano migliaia di modi possibili per interpretare la nostra esperienza, che ogni cosa aveva un significato, e che l’interpretazione è la chiave della realtà. Fu questo il primo passo per diventare una scrittrice. (Mia traduzione dall’inglese.) I riferimenti sono precisi, e possono sembrare schematici. Tutti però possono percepire l’apertura sconfinata del discorso su scenari impensati, quelli disegnati dalla continua e traumatica spinta pulsionale (sotto le apparenze, nei personaggi delle sue narrazioni, di insoddisfazione, spirito d’avventura, bizzarrie di abitudini e condotta, fedeltà senza limiti a un ideale che chiama ad andare lontano, oltre se stessi perfino). Tale spinta scompiglia ogni certezza confrontando il mondo razionale degli umani con il mondo naturale e forze arcaiche e non umane, col tempo. Essa è percepibile, entro la prospettiva psicoanalitica, nel sogno e nel trauma del reale che si presentano imprevedibilmente, nell’estenuazione della ricerca di un assoluto originario, nella speranza di ritrovare la percezione di una perduta felicità in verità mai avuta e irraggiungibile: siamo nel campo, si potrebbe dire, di ciò che Freud chiama das Ding, e Jacques Lacan la Chose: la Cosa. Nella malinconia sognante di tante pagine di Tokarczuk c’è l’abbandono a questa nostalgia tutta umana che rimane misteriosa, la percezione di una mancanza che spinge a cercare sempre, attraverso l’azione dei personaggi della fiction letteraria, di colmarla. Si spiegano così attese instancabili e senza tempo sorrette dal desiderio dell’amore. Vi sono etnie e generazioni che non sanno di cercarlo, come i Bieguni [1] vagabondi del romanzo omonimo sempre erranti, o come i bizzarri e impensabili von Goetzen di Casa di giorno, Casa di notte che spendono la vita nel ritiro narcisistico in privatissime dimore chiuse al mondo, assorti in attività stravaganti ed egocentriche, nell’abbandono quasi a stati di pre-estasi che coincidono con la mancanza di maggiori definizioni, partecipazioni, coinvolgimenti nella vita del mondo. E che anche nella morte sono singolari: [… ] la morte dei von Goetzen era sempre bella e dolce. Li raggiungeva come una nebbia, come un’improvvisa interruzione nel rifornimento di corrente: i loro occhi si spegnevano, il loro respiro rallentava e infine cessava. Chi stava accanto al loro letto di morte non doveva fare altro che abbassargli le palpebre e andarsene per i fatti propri. Immergersi nell’aria riscaldata delle verande e delle serre, nel fresco dei corridoi del pianterreno, nel fruscio dei fogli dei libri illustrati di giardinaggio e di arte […]. Di colui che se n’era andato rimanevano fotografie, aiuole fiorite, diari uguali agli altri, un armadio pieno di vestiti sciupati, qualche briciola nel letto, ma la sua stanza veniva subito occupata da qualcun altro. Perciò era come se non morissero mai. Inoltre, in conseguenza dei matrimoni in famiglia, si assomigliavano tutti, perciò non si sentiva la mancanza di una persona in particolare. E vi sono invece cuori sensibilissimi avvezzi all’amore e che lo cercano con decisione senza perderne le tracce pur nella mancanza, che si dispongono a qualunque viaggio interiore o nel tumulto e nell’ignoto della realtà ordinaria pur di incontrarlo in un altro essere ancora sconosciuto. Perfino gli esseri del mondo vegetale, oltre che dell’animale, vogliono incontrarci e parlarci in uno spirito in un certo senso amoroso. Quel qualcosa che non controlliamo è poi anche un cosmo totale che abbraccia l’umano e il non umano, è brivido, estasi, orrore. È il sistema linguistico, l’universo simbolico che ci attende e che troviamo venendo al mondo, ed è anche qualcosa che c’è in noi e torna, ciò che è stato rimosso nell’inconscio. Di ciò una parte non si potrà mai conoscere in alcun modo perché soggetta alla rimozione originaria. Ma c’è pure, e ciò corrisponde per un’altra parte all’apertura sulla scena inedita di cui dicevo, ciò che del passato non è stato oltrepassato. Il ritorno del rimosso e del passato non superato, quindi superstizioni, demoni, mostri, angosce primordiali, sono la fonte dei sentimenti unheimlich, descritti da Freud nel suo famoso saggio del 1919 Das Unheimliche (Il perturbante), e che irrompono nelle arti e nella letteratura, mostrando che nulla si può dare per scontato, che ciò che abbiamo sempre considerato fidato e familiare è solo consueto e casualmente tranquillo, ma può di colpo trasformarsi in qualcosa di inaspettato e animato di minaccia e pericolo, o che sovverte l’ordine delle cose, facendo, per così dire, vacillare i pilastri del tempio. Anche nelle pagine di Olga Tokarczuk compaiono animali dal comportamento strano, lupi mannari, il diavolo, entità misteriose e invisibili, personaggi inquietanti. Ma se essi sono spettrali e sinistri non è solo per effetto di questa loro origine e per la patina weird che si portano addosso come innato tratto distintivo, ma anche perché la realtà, pur col mutare delle culture, continua a riservare loro un posto siffatto. Si tratta di un’ambiguità irriducibile che la psicoanalisi ci indica e che la sua arte ci mostra in filigrana. C’è una linea sottile e talora evanescente fra la vita e un mondo sotterraneo che trova in superficie espressioni inapparenti ma che possono ben rivelarsi. Isaac Basevic Singer, il grande narratore polacco che si spegne nel 1991, quasi passando il testimone all’esordiente Tokarczuk che inizia la carriera nel 1989 con un libro di poesie intitolato Miasto w lustrach (La città negli specchi), ricorda che il padre parlava sempre di spiriti dei defunti che possedevano i viventi, di reincarnazioni e prodigi, di sinistre presenze, e che lo faceva come monito per i bambini così curiosi e imprudenti, che tutto vogliono scoprire e vedere, per «ricordar loro, di tanto in tanto, che al mondo ci sono ancora forze misteriose all’opera». Se Olga Tokarczuk scrive di creature infernali e sortilegi, non è per un artificio tecnico o per un deflusso quasi meccanico dei contenuti della fantasia etnica, ma perché il suo sguardo/ascolto pesca nel microcosmo dell’origine che si porta dentro, nelle voci di un mondo in contatto permanente con lei, che segue con l’attenzione fluttuante di una psicoanalista abituata ad accettare il reale, anche ciò che non ha un senso, prestando orecchio (naturalmente il terzo, su cui ha scritto Theodor Reik) a quel che esse dicono per dare loro ancora una chance, nel senso e anche al di fuori di esso, una possibilità di rivivere trasfigurate nella sua scrittura. Parlo di fantasia etnica perché in qualche modo Olga Tokarczuk crea letterariamente un mondo, ma per farlo pesca nel sottosuolo della sua cultura popolare, cui dà voce e forma artistica, coi suoi miti e la sua storia, fatta per lo più di scorrerie violente in una terra contesa fra occidente (Roma e il Cristianesimo la marcano con la religiosità e l’alfabeto latino, la Germania la invade) e oriente (la Russia, il mondo slavo). L’ethnos e i miti, la fiaba sullo sfondo di geografia e storia politica e quotidiana dei luoghi, pur nella loro particolarità, la ricollegano alla storia e all’ethos universale dell’umanità. E il perturbante che troviamo nelle sue pagine non è solo il passato che torna o il rimosso che irrompe, ma anche una scossa al torpore dei luoghi comuni e a un sentire irrigidito dalla paura, dalla routine e dall’egoismo, un’intelligenza nuova delle cose. Esso assume la forma di una chiamata alla contemplazione del nuovo e del nulla, di un risveglio, di un momento di comparsa e di libera circolazione dell’energia nei mondi psichici e naturali. Oppure di manifestazione di eventi che mettono in crisi la presenza umana sulla terra, che rinnovano la sfida al soggetto a mantenere la sua coesione trovando nuovi equilibri, accettando nuovi confini di sé. Quel che è vicino alla psicoanalisi forse non è soltanto Olga Tokarczuk, col suo sguardo e il suo narrare, ma il substrato umano, tellurico e astrale, sedimentato durante stagioni incalcolabili, della sua fantasia. Esso è il terreno stesso e l’oggetto dell’osservazione antropologica e psicoanalitica: un mondo fisico e politico, religioso, simbolico, che assume per i suoi abitanti e poi per tutti i lettori una centralità assoluta, e rivive nella dimensione mitologica e mitopoietica che alimenta. Voce che anima le pagine della scrittrice, ma come espressione scritta emergente di un racconto orale collettivo o di una sua memoria. In questo condiviso afflato non vedo emergere archetipi, nonostante la vicinanza a Jung attribuita alla scrittrice o dichiarata da lei stessa, ma una rielaborazione letteraria originale che può sempre essere riletta come nuova. In essa sono piuttosto storie minute e quotidiane, o l’araldica immaginaria di generazioni di personaggi che abitano senza un tempo che non sia mitico i luoghi del sogno, l’epopea di una città e di una nazione intera, o più spesso di uomini e donne semplici, senza alcuna pretesa, che pure assurgono per via letteraria alla dimensione dell’universalità. Entro l’orizzonte visibile di questa scena sono nevi, boschi, distese d’erba o vie infangate, orti gelati, montagne, case abitate dalla miseria e dall’abbandono, ricche case borghesi come piccole regge con ogni dovizia di beni e arredi à la page, territori e linee di confine in cui l’unica consolazione è la vodka o il vino di bacche, fino a che non arriva la morte. O viceversa cucine calde, terrazze estive assolate, fiori e insetti. In questo mondo sono figure femminili dolci e sognanti, sempre misteriose ed estranee a se stesse. Come se nella narrazione apprendessero per la prima volta i segreti che hanno scoperto attraversando imperterrite gli anni e la storia, carestie e guerre, avvinghiate come forti arbusti alla vita senza timore nella vicinanza della morte, custodi di case, abitudini, pentole e mobili, parrucche, ricordi, sogni, avventure giovanili, pleniluni estivi e canti di rane. Custodi e interpreti anche di una memoria diffusa negli oggetti e negli interstizi, nelle tane e nei dirupi, nell’esistenza delle persone e di ogni altro essere animato e cosa inanimata. Vi sono sogni densi di significato e intenzioni di cui si può cercare e junghianamente decifrare un significato secondo leggi generali di interpretazione non troppo dissimili dalla divinazione, e anche perché per Tokarczuk, che in ciò riecheggia il Foucault di Le parole e le cose, Iddio ha creato il mondo disseminandovi segnali che ci possono guidare. E le stelle ci guardano dal cielo, sapendo di noi molto di più di ciò che possiamo immaginare, anch’esse per indicarci una strada (“considerare”, etimologicamente, è un po’ un parlare con le stelle). E vi sono uomini condannati a esistenze impossibili, come il sig. Sum, battezzato col nome di Ergo per un capriccio del padre, che si ritrova, a un certo punto della sua vita, cannibale per inedia straziante assediato da lupi (lupi e psicoanalisi vanno a braccetto dopo il saggio L’uomo dei lupi di Freud) altrettanto famelici insieme ai compagni di sventura in un inferno di ghiaccio e desolazione, e poi egli stesso lupo, lupo mannaro, figlio della luna, un sopravvissuto costretto da angoscia abissale, per respingere le orrende metamorfosi e il loro ricordo e terrore, ad abbandonare il rango sociale di signor professore e gli studi filosofici per annichilirsi in una vita bestiale, diremmo postumana, da bovaro e uomo di fatica. Da Platone, che durante una delle sue solite letture gli aveva poi un giorno rivelato che chi si è cibato di carne umana diverrà lupo, fino a noi, a Nietzsche, al libro rosso di Jung, al Perturbante di Freud e al reale di Lacan, a Guernica di Picasso e allo Studio dal ritratto di Innocenzo X di Francis Bacon, rimbalza lungo la spirale del pensiero e dell’arte la domanda cosa sia l’umano, cosa sia il vero e il falso, cosa sia fantasia o realtà, cosa sia libertà, vita o morte, cosa sia abisso o mondo. Tokarczuk intercetta i mondi che parlano riplasmandoli nella sua fantasia vulcanica e nella sua lingua poetica. Con quella femminilità materica dei suoi personaggi, insieme dolce e cruda, di corpi dal sapore pungente e soave tuttavia, che ricordano le fulminanti descrizioni di donne di un poeta delle lontananze e dello splendore dell’essere come Saint-John Perse. E con una sensibilità psicoanaliticamente raffinata pronta a cogliere la funzione psichica di ogni dettaglio, a cogliere l’eternità di ogni istante, in una narrazione che ha così sempre più punti in comune col particolarissimo modo di essere di spazio e tempo nella psicoanalisi, lungo il confine fra il cosiddetto setting e tutto il resto. Modo che è specchio di inafferrabilità e insensatezza anche nel quotidiano, di quanto di queste dimensioni ci sfugge e che esse invece rivelano se cade la rete familiarizzante ingannevole distesa su di loro dal lavoro della cultura, che era stata stesa per spegnere ogni inquietudine. È allo sguardo che stacca le cose dal mondo degli oggetti e le vede come segno entro una visione straordinaria del tutto che deborda da ogni dove, che va assegnata la massima importanza, sottolinea in un’intervista la scrittrice: Ci sono due modi di guardare. Con uno vedi semplicemente gli oggetti, cose utili all’uomo, oneste e concrete, si sa subito come si usano, a cosa servono. E poi c’è una visione panoramica, più generale, grazie alla quale si vedono i legami tra gli oggetti, le loro reti di rimbalzo. Le cose smettono di essere cose, il fatto che vengono usate è una questione di secondo piano, è solo apparenza. Ora sono segni, indicano qualcosa che nelle fotografie non c’è, che sta oltre i bordi delle immagini. Bisogna concentrarsi per poter mantenere quello sguardo che è essenzialmente un dono, una vera e propria grazia. Sono mondi paralleli o su piani diversi rispetto alla realtà ordinaria e al mondo umano, delle cui voci Olga Tokarczuk si pone in ascolto.«In letteratura è vero tutto ciò che sarebbe potuto succedere», questa è la sua idea. E perciò anche interroga, cercandovi, e torniamo alla percezione psicoanalitica per la costruzione della sua impresa letteraria, da un lato le piccole cose e i minimi dettagli, un odore o il volteggio di una foglia per aria, dall’altro quel che non c’è o non si vede, ma è atteso o immaginato in una logica differente da quella corrente, ispirata, si direbbe, al chimico Mendelejev oltre che a Freud. Ecco come affrontava il suo compito agiografico Paschalis: Gli sembrava che fosse importante non solo registrare cos’era successo [ ]. Che altrettanto importante, e forse anche di più, fosse lasciare luoghi e spazi per ciò che non c’era stato, che non era mai accaduto e che sarebbe potuto accadere — bastava immaginarlo. […] Perciò avrebbe voluto perfino lasciare degli spazi vuoti sulla carta [… ]. Lui voleva lasciare uno spazio vuoto al di là degli eventi descritti della vita di Kummernis — vaste distese di possibilità di ogni tipo, le conseguenze delle azioni che si sviluppavano sullo sfondo dell’intera scena. Ma Paschalis/Tokarczuk fa ancora di più. Si interroga esplicitamente secondo linee di riflessione che mi appaiono palesemente psicoanalitiche. Senza con ciò poter dire tuttavia una parola indubbia su chi, fra Tokarczuk con la sua arte e la psicoanalisi, sia debitrice dell’altra, cioè se sia l’arte ad arricchire e illuminare la psicoanalisi, o invece sia piuttosto quest’ultima a permetterci di comprendere l’arte. Gli capitava sempre più spesso, finendo di scrivere una frase di Kummernis, di comprenderne il senso più recondito in un’improvvisa illuminazione. Lo turbava profondamente e insieme lo stupiva che si potesse leggere e interpretare in tanti modi le stesse parole.O che si potesse afferrare il senso di una frase senza sperimentarlo in prima persona. Che si potesse sapere ciò che era scritto, ma senza capirlo. In questa logica sono previsti, sebbene non tutti lo sappiano, nuovi arrivi sulla scena, che siano persone o eserciti, api o cannoni, o mobili e suppellettili, tesori restituiti dall’interno di case svuotate dalla guerra: foto e quadretti kitsch, tazze da tè, ninnoli vari, biancheria da letto, lettere, tavoli e credenze, vasetti di marmellata, di passati, di sidro, biglietti della lavanderia o denti di latte, sentimenti e passioni. Relitti di naufragi e forze tempestose che non hanno dato scampo se non ad alcune cose e ai ricordi con esse intessuti, cose il cui senso potrà sempre però essere recuperato, mentre le persone sono perite o disperse o si interrogano, uscite dai percorsi delle solitudini stanziali immerse nella fantasia o del vagare e del nomadismo carico d’avventura. Quello del viaggio, e dello spazio, è un altro tema centrale nella poetica della scrittrice. I suoi viaggi sono gorghi d’energia che attraggono irresistibilmente, spinte cosmiche che si ripercuotono sugli umani. Una donna, la sorella di Chopin, di nome Ludwika, in I vagabondi, viaggia per riportare da Parigi a Varsavia il cuore del fratello; il monaco Paschalis dalla sua cella nei pressi di un convento nel bosco viaggia fino nella città di Glatz portando il suo destabilizzante panegirico di santa Kummernis perché a sua volta giunga infine a Roma. Una donna si spinge da una cittadina a una città più grande alla ricerca di un amore che le sussurrava le sue parole struggenti nel sogno, e la sua audacia fantasiosa viene premiata dalla sorte. Anche nella nostra esperienza ritroviamo il modo in cui si presentano le cose nei romanzi di Tokarczuk: tornano a comparire, senza temere di disturbare, fatti e personaggi che erano rimasti vivi e facevano cose anche mentre ci occupavamo e parlavamo d’altro. Cose per solito ignorate od oggetto di noncuranza, presenze invisibili come il pubblico della radio in attesa di essere attivato e protagonista secondo gli auspici di Walter Benjamin, o degli altri media o di internet, oggetti dimenticati, sognatori che narrano i loro sogni sui giornali di provincia o nella rete, vogliono parlarci e attraverso queste narrazioni possono farlo. I sogni si raccolgono in gruppi con qualcosa in comune, che colorano di sé le notti. Ci sono notti di fughe, notti di guerra, notti di bambini appena nati, notti di amori torbidi. Notti di vagabondaggi in labirinti – in alberghi, piazze, case dello studente o nelle proprie abitazioni. O notti in cui si aprono porte, scatole, valigie, armadi. O ancora notti di viaggi, quando chi sogna cerca di raggiungere stazioni, aeroporti, treni, autostrade, motel lungo il percorso, perde le valigie, aspetta i biglietti, si preoccupa di non riuscire a prendere la coincidenza. […] Se qualcuno fosse in grado di analizzare quanto mi limito a osservare, se quantificasse i personaggi, le immagini, le emozioni dei sogni, ne rielaborasse i motivi, [… ] collegando tra loro cose apparentemente impossibili da collegare, forse vi troverebbe […] una mappa di esili collegamenti o di rigidi orari. Di imprevedibili presentimenti e di algoritmi accurati. Tokarczuk osserva inoltre: Su tutta la terra, ovunque dormano delle persone, esplodono nelle loro teste piccoli mondi intricati che ricoprono la realtà come un tessuto cicatrizzato. Chissà, forse ci sono degli specialisti che conoscono il significato di ciascun sogno preso separatamente, ma nessuno che ne conosca il significato complessivo. Ma chi sogna e parla siamo in realtà noi stessi, o anche noi stessi, che ci scopriamo come mai prima sull’onda letteraria. In un gioco neoplatonico di alternanza del microcosmo e del macrocosmo, la voce universale dell’umanità diviene di colpo la nostra, e viceversa. Ci accorgiamo che ci stiamo ascoltando, conoscendo cose e dimensioni prima nascoste in noi, che trascendiamo noi stessi. Non è un caso che una delle componenti essenziali della riflessione e della fascinazione di Tokarczuk siano i confini. Confini di stato, con tanto di guardie confinarie e il fantasma dei contrabbandieri, confini fra fantasia e realtà, fra noi e gli altri, fra conscio e inconscio, fra vecchio e nuovo, fra jamais vu, jamais entendu, e le cose note e familiari. Fino a che non ci sorprendono diventando d’un tratto nuove e inquietanti. Tokarczuk abbatte inoltre la barriera fra mondo umano, vegetale e animale. Gli animali e anche le piante comunicano con gli uomini che vogliano ascoltare. Tra questi mondi i viventi appartengono come a una medesima sfera vitale, condividono una medesima sostanza. Guida il tuo carro sulle ossa dei morti è il titolo di un suo libro, che introduce il tema del mondo animale e del suo intimo rapporto con l’umanità. Ancora una volta una linea di confine che non è netta né invalicabile, una deriva della vita (o della non-vita) di cui non si vede il termine, una linea che si nega polverizzandosi per lunghi tratti, che diventa in altre pagine il rapporto uomo/natura. Una natura mitica naturalmente, come il dipanarsi della vita dei protagonisti, scrittrice inclusa. La frontiera fra umano e divino, fra terreno e ultramondano, come ogni altra del resto, è linea di attrazione verso mondi nascosti o lontani. Agognati o temuti, essi rispondono a bisogni profondi dell’umanità, al rinvenimento di paradisi o di nuovi oggetti da investire con le pulsioni sempre in cerca di nuove articolazioni, come ci insegnano la fantascienza e la letteratura fantastica col desiderio di nuove patrie e di nuove possibilità di realizzazione, pagando tuttavia il prezzo dell’ansia del nuovo e sconosciuto, e l’estraniante tensione dell’ignoto e del soprannaturale. Scoperte e conoscenza, gesti intrepidi e vibranti di epopee, che possono assumere i toni della tragedia, ma donano la scoperta del segreto della vita. Il tema del viaggio rivelatore è antico e compare in una storia del rabbino Eisik di Cracovia ripresa dai Chassidische Bücher di Martin Buber, studiata da Mircea Eliade. Ce ne riferisce Ernesto de Martino in La fine del mondo. Eliade riporta il commento dell’indianista Heinrich Zimmer (1890-1943) rispetto a «”fatto strano e costante” che soltanto dopo un pio viaggio in una regione lontana, in un paese straniero, in una terra nuova, si rivela a noi il significato esatto di quella vicinissima realtà umana che portiamo dentro di noi, nel profondo del nostro essere». La frontiera del sogno è percorsa e attraversata più volte nelle narrazioni di Tokarczuk. L’amore perfino va avanti e indietro lungo il suo confine e lo attraversa spesso, cercando un’immagine, una relazione, il sapore di qualcosa, il ricordo di una parola, di una situazione, una figura in cui si rispecchi e possa materializzarsi come nei racconti di doganieri in fuga dalla solitudine e dalle durezze di un ruolo astratto e spesso crudele, o di donne fantasiose, come quelle di Che Guevara e altri racconti di Tokarczuk, o simili a Ella Marchmill, la protagonista del racconto An imaginative woman di Thomas Hardy, chiuse in remote province o città che inseguono il mondo e in esso l’amore perfino per esseri umani sconosciuti ma idealizzati, col supporto del sogno e dei media. Lascia stupefatto il lettore più smaliziato il racconto, cui prima accennavo, di un’impiegata della banca di una piccola città che ode in sogno parole d’amore sublimi e irresistibili, sotto forma di vere e proprie allucinazioni uditive, diremmo se non si trattasse di prodigi poetici, completamente fuori del suo controllo. Estasiata, Krysia cercherà e finirà per trovare, dopo una ricerca febbrile su elenchi telefonici di varie città, l’indirizzo dell’amante del sogno, Amos, partendo dal suo solo nome. Amos (o A. Mos come recita la targa sulla sua porta in un gioco di allitterazione psicoanaliticamente delizioso) è un poeta che l’accoglie in casa, a Częstochowa, alla vigilia della sua fuga verso l’Occidente. L’incontro è l’occasione di un incontro erotico carnale cui Krysia non si sottrae considerandolo come prezzo del sogno, di cui esso è solo una pallida appendice. Ben più importante è aver letto sul foglio della macchina da scrivere di Amos il titolo della sua ultima poesia, composto dalle stesse parole che le erano comparse in sogno: Notte a Mariand. Lungo il confine fra la notte e l’alba, rimasto disperatamente solo senza cibo e soprattutto senz’alcool in una casa gelida, nell’ultimo episodio di un’altra narrazione carsica di Casa di Giorno, Casa di Notte, muore Marek Marek, che era stato un bambino bellissimo, dai «capelli quasi bianchi e un viso d’angelo», quasi ogni notte picchiato dal padre ubriaco. E muore impiccato, già stremato dalla disperazione, dalla stanchezza, dall’inedia e da un vuoto furore contro di sé, solo dopo vari tentativi maldestri, quasi per un errore nel calcolo della corda e dell’altezza della sospensione, forse senza averlo davvero voluto. Varca così il confine estremo ed entra nel regno dei morti. E allo stesso modo morirà Paschalis, che verrà ritrovato cadavere nella sua cella. Rimane incerta la linea di confine fra tutte le cose, e non c’è, come dicevo all’inizio, l’aspirazione a una sintesi universale o finale, ma piuttosto la deriva contemporanea di infinite storie. Tokarczuk sembra preferire la miriade di confini incerti e di cose diverse che si susseguono, che continuamente iniziano a sedurre, abbagliare, palpitare, e chissà se alla fine esse comporranno un mondo solo o tanti mondi. Un’epopea di tutti i mondi possibili e sognati in contaminazione continua fra sonno e veglia, una complessità e una disarmonia di fondo che la psicoanalisi postula e contempla come forse nessun’altra teoria della mente. Fra le cose riguardanti le linee di confine che vengono spesso trascurate c’è l’importanza del pieno e del vuoto che demarcano. La linea del profilo della brocca su cui ragiona Heidegger nel saggio Das Ding, che genera il fuori e un dentro vuoto, condizione indispensabile per avere un pieno. In un racconto si parla dell’uomo detto Tal dei Tali, colui che scopre il cadavere dell’impiccato Marek Marek, suo vicino di casa, ma è incredulo, nega ciò che ha visto, sicché poi il ricordo non può darsi, e gli si presenta invece uno spirito, un’apparizione che lo perseguita in casa propria. Sullo sfondo qui e anche nella vicenda di Ergo Sum “il licantropo”, si intravvede il concetto di Verneinung (diniego) in evoluzione fino a quello di Verwerfung (la forclusion di Lacan, ovvero una particolare forma di esclusione, letteralmente “pignoramento”), l’idea di qualcosa che per Freud sfugge alla raffigurabilità. Chi vede gli spiriti, spiega Marta, l’amica misteriosa della voce narrante, “è vuoto dentro”. E Tal dei Tali è così: È una di quelle persone che si immaginano Dio da una parte, e loro dall’altra. Tal dei Tali vede tutto al di fuori di sé, vede al di fuori di sé perfino se stesso, si guarda come guarderebbe una fotografia. Frequenta se stesso solo negli specchi. […] Solo quando si veste per il suo pellegrinaggio quotidiano a Nowa Ruda per comprare un pacchetto di sigarette […], quando si vede ormai pronto allo specchio, pensa a se stesso come a “lui”. Mai come a “io”. Si vede solo con gli occhi degli altri, perciò diventa così importante l’aspetto, la giacca nuova di tessuto sintetico, la camicia color crema il cui colletto chiaro fa risaltare il viso abbronzato. Perciò Tal dei Tali è fuori anche per se stesso. Dentro di lui non c’è niente che guardi dall’interno, dunque non ci sono riflessi. È in queste condizioni che si vedono gli spiriti. Ci sono regole apparentemente assurde e incomprensibili che regolano il flusso dei segnali nella realtà vera, e la fantasia sa abbracciare anche quel che non si vede o non tutti vedono e vi comprende gli spettri, o spiriti. La prontezza e dimestichezza nel commercio con l’irrazionale e il soprannaturale sono ancora indizi di competenza psicoanalitica. Sua prerogativa è la capacità di collocarsi in una disposizione di ascolto incondizionato, libera, capace di accogliere la sorpresa dell’inconscio e il perturbante incarnato nel rimosso, nel non oltrepassato, nel morto che non muore davvero senza il rito necessario, nell’invisibile, nel fantastico, senza paura di fronte all’ignoto, a eventi della vita e alla morte. Sembra, nel caso di certe narrazioni di Tokarczuk, di risentire le parole dei versi di Virgilio che Freud mette in esergo all’Interpretazione dei sogni: Flectere si nequeo superos, acheronta movebo. O le parole dell’antichità romana: mundus patet. Sono cioè aperte, in certe ricorrenze dell’anno, quelle in cui si celebra il rito del Mundus, le porte dell’Ade, ed entrano in contatto il sulfureo mondo sotterraneo e quello solare e mercuriale, cangiante, dei viventi. In quei giorni tutte le normali attività vengono interrotte, tutto resta sospeso. Nella scrittura di Tokarczuk queste porte sono aperte tutto l’anno. La scrittrice si avventura come in trance, in certe pagine, nella terra di nessuno fra veglia e sogno, fra vita e morte, immersa in un mondo magico in cui ciò che accade non corrisponde necessariamente a quanto ordinato nelle conoscenze della razionalità umana, della scienza, del senso comune. Una mano dei convenuti in una calda terrazza toccava le pesche, tutte le mani in un istante impercettibile toccavano le pesche; una foglia sfiorava cadendo una susina, e compariva nella conversazione la parola “sfiorare”, senza che nessuno ci facesse caso. Allora mi veniva in mente che in qualche modo mi stavo avvicinando alla fine. Che era scoccata non so quale dodicesima ora […]. Che avevo già cominciato a morire, e prima che ciò si compisse avrei visto tutto in quel modo sbalorditivo da sotto, dalla parte della geometria degli avvenimenti […]. Non mi sarebbe rimasto altro che stupirmi di non aver scorto fino ad allora un ordine così evidente, un ordine che per giunta non era dove credevo − nei pensieri, nelle idee, negli schemi matematici, nel calcolo delle probabilità – ma negli avvenimenti stessi. L’asse del mondo è fatto di configurazioni iterative di istanti, movimenti e gesti. Non accade nulla di nuovo. (Da Casa di Giorno, Casa di Notte). Il protagonista di un episodio di Casa di giorno, Casa di notte, di nome Pieter Dieter, va a morire dopo una faticosa arrampicata in montagna giusto sulla linea di confine fra Polonia e Repubblica Ceca. Le guardie confinarie di una delle due parti lo tireranno dall’altra parte dove sarò trovato dai gendarmi in perlustrazione. Ma chi sono in realtà le guardie confinarie? La scena che calchiamo è un mondo di contrasti, di indecidibilità, in cui ancora una volta riecheggia la parola di Freud. Un mondo di incertezza e conflitto che non è solo esterno ma investe il soggetto nella sua massima intimità, nel gioco di specchi che si instaura con figure di identificazione e proiezione speciali come il personaggio di Marta, l’amica misteriosa. Un confine che è solo virtuale ed è sempre attraversato da immagini, ricordi, esperienze psichiche di vario tipo che convocano l’impensato. Le cose più strane. Olga Tokarczuk, come dicevo, parla spesso di sogni. Addirittura racconta di averne cercato di sempre nuovi attraverso rubriche dedicate sui giornali di provincia e su internet. Una Traumdeutung mediatica si afferma nelle sue pagine come disposizione della mente, riflessa e rifratta nel prisma delle schiere di sognatrici e sognatori che pubblicano i loro sogni. Per quanto pronta ad accogliere frantumi sparsi di parole e pensieri, Olga Tokarczuk narra storie che si articolano fra loro secondo una causalità infine decifrabile in ipotesi almeno, per cui si ricostruisce un senso simbolico. La struttura del romanzo è per frammenti che sembrano nascere da associazioni libere. Solo una psicoanalista/scrittrice può accogliere e accostare con tanta naturalezza segnali vaghi, impulsi, ricordi e sogni, frammenti di storie, storie non correlate da un senso percepibile, ricorrenze di temi apparentemente esauriti che continuano a ritornare con nuovi particolari, all’interno di un’architettura letteraria sempre provvisoria. La quale forse in un futuro asintotico, per dirla parafrasando Freud, troverà un suo compimento unitario nella ricomposizione della pluralità delle sue parti, integrando cose secondo criteri inaspettati o non immaginabili comunemente, perché rispondono a una logica speciale. Parlando della “divinazione attraverso il cielo”, di come si possano leggere le nuvole, e altri segni che su quello schermo si formano in “disegni diafani”, un personaggio del romanzo, R., immagina di poter riprendere dei fotogrammi del cielo per intere stagioni servendosi di uno stativo, partendo dalla primavera. «Punterà l’obiettivo verso il cielo, al di sopra delle cime dei due abeti gemelli, e lo lascerà così fino all’autunno. Ogni giorno farà una fotografia […]. Si potranno ricomporre tutte le fotografie come in un puzzle. Oppure sovrapporle grazie al computer. Oppure» − sono queste le ultime parole del romanzo Casa di giorno, Casa di Notte − «con l’aiuto di un qualche programma, elaborarle in modo da ottenerne un unico cielo. E allora sapremo». Note [1]”Un popolo di nomadi slavi che si spostano di continuo confidando sull’accoglienza delle persone”, è la descrizione che dà dei Bieguni Luigi Oliveto in Toscanalibri.it, riv. online, del 17/10/2019. Come riferisce Francesco M. Cataluccio, i “bieguni” del titolo erano, nel mondo slavo fino al XVII secolo, come i “benandanti” del Friuli (studiati da Carlo Ginzburg nell’omonimo libro pubblicato da Einaudi nel 1966): una sorta di setta di mistici vagabondi convinti che il Male aggredisse gli uomini nel momento che stavano fermi. La salvezza consisteva nel muoversi incessantemente. [2] Frase riportata da Francesco M. Cataluccio Bibliografia Benjamin, W. (1929-1933) Cinque testi raccolti in Radio Benjamin, tr. It. di Nicola Zippeli (Roma: Castelvecchi 2014). Cataluccio, F.M. (2019) Lo sguardo di Olga Tokarczuk, «Doppiozero», rivista online, 14/10/2019. . de Martino, E. (1948) Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (Torino: Einaudi) (Torino: Bollati Boringhieri 2007). ID, (2019) La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Nuova edizione a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio (Torino: Einaudi). Heidegger, M. (1949-1950)“Das Ding”, in Bremer und Friburger Vorträge 1. Einblick in da was ist. 2 Grandsätze de Denkens, a cura di P. Jaeger (Frankfurt am Main: Klostermann 1994). Tr. it. , Conferenze di Brema e Friburgo, a cura di P.G. Jaeger, ediz. italiana a cura di Franco Volpi, trad. di G. Gurisatti, Collana Biblioteca Filosofica n.21 (Adelphi: Milano 2002). Michelet, J., (1862) La sorcière (Paris: Librairie de L. Hachette et Co.). Tr.it. di M.V. Malvano, La strega, (Torino: Einaudi, 1980). Singer, I. B. (1971), Alla corte di mio padre”, Milano, Longanesi, p. 15, in I. B. Singer (1998) Singer, Racconti (Milano: Mondadori). Tokarczuk, O., (1996), Prawiek i inne czasy, tr. it. di R. Belletti, Dio, Il tempo, gli uomini e gli angeli (Milano: e/o 1999) e di R. Belletti, Nella quiete del tempo (Roma: Nottetempo 2013).(1998) Dom dzienny, dom nocny (Wałba). Tr. It., Casa di Giorno, Casa di Notte, (Roma: Fahrenheit 451). (2001) Gra na wielu bębenkach (Wałbrzych: Ruta). Tr. it. Che Guevara e altri racconti, Curatore S. De Fanti (Udine: Forum Editrice 2006). (2007), Bieguni ? Kraków: Wydawnictwo Literackie. Tr. It. di B. Delfino I Vagabondi (Milano: Bompiani 2019). (2009) Prowadź swój pług przez kości umarłych (Kraków: Wydawnictwo Literackie). Tr. it. di S. De Fanti, Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (Roma: Nottetempo 2012).

I TEMPI LUNGHI DELLA CINA

Claude Meyer L'impulsivo Trump gioca a poker, mentre Xi Jinping organizza metodicamente una partita a go Le Monde, 28 aprile 2025 Donald Trump è stato il primo a cedere nella guerra dei dazi contro la Cina, ammettendo alla stampa il 23 aprile che i sovrapprezzi imposti a Pechino erano "molto elevati" e che sarebbero "diminuiti sostanzialmente ". Aveva già subito una doppia sconfitta nella settimana del 7 aprile: il crollo dei mercati ha sancito l'assurdità economica della sua guerra dei dazi a oltranza e la Cina, ferita nel vivo del suo orgoglio nazionale, ha reagito bruscamente con misure di ritorsione . Da qui l'ennesimo dietrofront del miliardario americano, avvenuto il 9 aprile sotto forma di un doppio salto mortale all'indietro. Con un gesto magnanimo, offrì una proroga di novanta giorni a tutti coloro che si fossero affrettati a negoziare – come lui stesso disse in termini di rara volgarità – ma con una grande eccezione: i prodotti cinesi sarebbero stati soggetti a una tassa stratosferica del 145%, abbandonata in una nuova svolta il 12 aprile per i prodotti elettronici. Il motivo di questo prezzo colossale e proibitivo? Pechino aveva osato rispondere alla precedente tariffa applicando la stessa aliquota dell'84% alle esportazioni americane. La seconda ondata del governo cinese non si è fatta attendere: l'11 aprile ha annunciato un aumento dei dazi doganali sui prodotti americani dall'84% al 125%. Pechino ha poi dichiarato: «La pratica unilaterale di intimidazione e coercizione [da parte degli Stati Uniti] è contraria alle leggi economiche fondamentali e al buon senso (...) . La Cina la combatterà fino alla fine.» "Le porte del dialogo sono aperte" Occhio per occhio, dente per dente: il 2 aprile è stato dichiarato "Giorno della Liberazione" dal presidente americano, mentre la sua controparte cinese si è opposta all'11 aprile come Giorno della Resistenza. La guerra dei dazi si è trasformata in un testa a testa tra Donald Trump e Xi Jinping, preannunciando futuri conflitti in altri ambiti tra le due potenze rivali. Anche se non può fare a meno di vantarsene, il 22 aprile Trump ha ammorbidito la sua posizione e ha annunciato una "sostanziale riduzione" dei dazi con la Cina. Da parte di Pechino, bisogna tenere conto di due elementi essenziali: da un lato, la Cina dispone di risorse potenti per resistere a questa escalation tariffaria, dall'altro, l'accelerato disaccoppiamento degli scambi commerciali sino-americani peserà notevolmente sulla crescita cinese. La pressione della sovracapacità industriale diventerà presto intollerabile, soprattutto sul fronte della disoccupazione, e Pechino dovrà senza dubbio avviare delle trattative. La dichiarazione del portavoce del Ministero degli Esteri cinese del 23 aprile unisce fermezza e pragmatismo a questo proposito: "Se dobbiamo combattere, andremo fino in fondo, ma le porte del dialogo restano spalancate". Nel frattempo, la Cina utilizzerà ogni leva a sua disposizione per resistere. La cosa più importante è probabilmente quella politica. A parte la comune volontà egemonica, tutto contrasta i regimi dei due Paesi e il temperamento dei loro leader: il miliardario americano è impulsivo e abile nel poker, il "principe rosso" è un animale politico a sangue freddo che, come un paziente e determinato giocatore di Go, applica metodicamente una visione strategica a lungo termine. L'arma delle terre rare Mentre Trump è sotto pressione da parte dei mercati e delle elezioni di medio termine, Xi Jinping ha ricevuto un mandato quasi a vita dal Partito Comunista Cinese – il governatore della Cina – per portare a termine la sua grande opera: ripristinare il passato primato del Regno di Mezzo e soppiantare così il potere americano. Inoltre, gode del sostegno di un'opinione pubblica infiammata dalle dichiarazioni umilianti dei leader americani. Per "combattere fino alla fine ", Xi ha a disposizione diverse armi in questa guerra tariffaria: un embargo su alcune esportazioni, ritorsioni finanziarie e sanzioni contro le aziende americane. Pechino può così limitare le esportazioni di beni essenziali per l’industria e la difesa americana; Ha iniziato a farlo per le terre rare e, stringendo il cappio, potrebbe gradualmente, grazie al suo quasi-monopolio, soffocare alcune industrie americane d'avanguardia, privandole di questi prodotti essenziali. I laboratori mondiali Potrebbero essere imposte anche misure di ritorsione regolamentari – come l'inserimento di aziende statunitensi in una lista nera, l'ostacolo alla vendita della filiale statunitense di TikTok, ecc. – ma le esporrebbero a una reazione contraria. Esistono anche possibilità di intervento in campo finanziario: svalutazione competitiva dello yuan per assorbire una parte della tariffa doganale, vendite massicce di titoli del Tesoro americani, ecc. Ma, anche in questo caso, si tratta di un'arma a doppio taglio per un'economia cinese impantanata in un ciclo deflazionistico di tipo giapponese: crisi immobiliare, consumi interni lenti, disoccupazione giovanile, ecc. Colpendo duramente una crescita già debole, questa guerra tariffaria avrà l'effetto immediato di accelerare il distacco tra l'economia americana e quella cinese. La Cina esporta negli Stati Uniti tre volte di più di quanto importa e dovrà reindirizzare la sua capacità produttiva in eccesso verso altre regioni, come Europa, Asia e Sud del mondo. Da qui il tour di Xi Jinping in Asia del 14 aprile e la sua dichiarazione dell'11 aprile in cui invitava l'Unione Europea a "resistere unitamente a qualsiasi coercizione unilaterale ". Minaccia più pericolosa Questa affermazione non è priva di ironia, dato che le instancabili richieste di Bruxelles di una maggiore reciprocità negli scambi commerciali con Pechino sono rimaste lettera morta per anni. Resta vero che troverà eco tra alcuni europei che già un mese fa proponevano di aggirare l'asse Washington-Mosca attraverso un riavvicinamento alla Cina, attore ormai più affidabile ai loro occhi degli Stati Uniti. Un simile capovolgimento, però, impone serie riserve, perché confonderebbe il breve e il lungo termine: la sfida posta da Trump è la più immediata ma non la più duratura, mentre la minaccia cinese è ben più pericolosa nel lungo termine per il sistema internazionale. L'incrollabile volontà imperiale di Pechino è, di fatto, metodicamente strutturata da un presidente ancora giovane per attuare "la rinascita della nazione cinese " . Il suo "Sogno Cinese" mira a un nuovo ordine mondiale anti-occidentale che sancisca la supremazia della Cina e la rimetta al centro del mondo, come era l'Impero di Mezzo prima delle "umiliazioni" del XIX secolo . Questa tentazione egemonica si sta dispiegando senza freni nell'area Asia-Pacifico, ma l'Europa non sarà risparmiata, né economicamente né in termini di valori fondanti. https://www.lemonde.fr/idees/article/2025/04/28/l-impulsif-trump-pratique-les-coups-de-poker-tandis-que-xi-jinping-deploie-methodiquement-un-jeu-de-go_6600824_3232.html

PERCHE' SI CHINA LA TESTA OGGI

"L'unico sistema ideologico che ha davvero coinvolto anche le classi dominate è il consumismo perché è l' unico che è arrivato fino in fondo, che dà una certa aggressività perché quest'aggressività è necessaria al consumo. Se uno è puramente sottomesso, segue l' istinto puro della sottomissione come un vecchio contadino che chinava la testa e si rassegnava, cosa sublime come l' eroismo. Adesso questo spirito di rassegnazione, di sottomissione non c'è più, perché altrimenti che consumatore è uno che si rassegna e accetta un suo stato arcaico, retrogrado e inferiore? Deve lottare per elevare il suo stato sociale. «Io chino la testa in nome di Dio» è già una grande frase. Mentre adesso il consumatore non sa affatto chinare la testa, anzi crede stupidamente di inchinarla e avere i suoi diritti. Anzi, è sempre lì a pretendere i suoi diritti, a crederci, invece è un povero cretino. Non credo ci sarà mai un tipo di società in cui l' uomo sia libero. Quindi, è inutile sperarci." Pier Paolo #Pasolini Tratto da Conversazioni con Gideon Bachmann, Cinecittà 28 aprile 1975 in Pier Paolo Pasolini. Polemica, politica, potere, Chiarelettere (2015), pp.125-133.

GUIDO MAZZONI PROVA A LEGGERE IL PRESENTE

[È uscito in questi giorni, per Laterza, Senza riparo. Sei tentativi di leggere il presente, di Guido Mazzoni. «La guerra fredda non è finita, continuano anche alcuni spargimenti di sangue locali, ma la gente è al riparo e li guarda come grandinate estive in un giorno di sole», scriveva Italo Calvino nel 1961 parlando della percezione della storia che si aveva in quegli anni. Dopo la fine della Guerra fredda, negli anni Novanta (ma anche in seguito, nonostante l’11 settembre 2001), la sensazione di essere al riparo ha dominato il senso comune delle maggioranze. Invece negli ultimi quindici anni questa impressione si è dissolta e ha lasciato spazio a un’impressione opposta, quella di trovarsi in mezzo a una crisi complessa di cui i populismi e le guerre culturali sono gli aspetti più vistosi. Senza riparo cerca di interpretarla ragionando su alcuni eventi decisivi e su alcune figure simboliche, a cominciare da Donald Trump. Al tempo stesso riflette su certe premesse di fondo della politica contemporanea, e in particolare sull’idea che le società occidentali non sappiano più immaginare un’alternativa che non sia la degenerazione autoritaria della democrazia liberale o il disordine. Ma prima ancora riflette sulla natura approssimativa e fallibile dei discorsi che riguardano la politica. Presentiamo due paragrafi dell’Introduzione] GUIDO MAZZONI La fine dei ripari La sensazione di essere al riparo è finita per ragioni economiche, demografiche, geopolitiche, ecologiche e tecnologiche. Le espongo in questa successione perché questo è l’ordine di importanza nel quale vengono percepite. La crisi cominciata nel 2007-2008, la più grave dal 1929, ha mostrato all’Occidente collettivo che il suo posto nel mondo non è garantito per sempre. All’inizio degli anni Novanta i paesi del G7 (le più importanti economie occidentali più il Giappone) continuavano a produrre circa la metà del prodotto interno lordo planetario a parità di potere d’acquisto; oggi ne producono meno di un terzo . È vero che il Pil mondiale complessivo continua a aumentare a velocità sostenuta, ma è altrettanto vero che da alcuni decenni a questa parte sono soprattutto i paesi non occidentali a crescere. Inoltre la distribuzione della ricchezza è diventata più ineguale in Occidente, sia tra le classi sia tra le aree geografiche, seguendo una tendenza opposta a quella prevalente nei tre decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, quando le differenze erano diminuite. Nel frattempo il sistema di tutele che i lavoratori erano riusciti a conquistare si è progressivamente indebolito. Questo significa che le classi popolari e una parte delle classi medie degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale sono tra gli sconfitti della globalizzazione: una sconfitta lenta ma incontrovertibile, perché la ricchezza relativa diminuisce mentre aumentano le diseguaglianze interne alle nazioni, e perché il neoliberalismo ha reso la vita di molti più precaria di quanto non fosse qualche decennio fa. Un secondo aspetto è la crisi demografica. La popolazione europea, soprattutto quella caucasica, è destinata a decrescere, sia in termini assoluti sia in termini relativi (l’Italia è tra i paesi che invecchiano e si svuotano più rapidamente), mentre la popolazione nordamericana aumenta di poco, ma soprattutto perché crescono le etnie non caucasiche ; allo stesso tempo masse ingenti di persone che appartengono a culture diverse da quelle degli autoctoni premono ai confini, e questa trasformazione è vissuta con inquietudine dalle maggioranze. Le teorie di estrema destra sulla “grande sostituzione” sono la versione fobica di un fenomeno reale di cui la sinistra tende a sottovalutare l’effetto sul sentimento primitivo di territorialità e sulla paura ancestrale del diverso. Un terzo aspetto è la crisi dell’ordine mondiale a egemonia americana che era nato dopo il 1989-91. Se il ritiro disonorevole degli Stati Uniti dall’Afghanistan e la guerra in Ucraina avevano aperto una fase nuova, mostrando alle altre potenze che gli americani erano diventati più deboli, i primi giorni della seconda amministrazione Trump sembrano aver stravolto la grammatica delle relazioni geopolitiche che vigeva dopo la fine della Guerra fredda, o addirittura dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Negli ultimi trentacinque anni gli Stati Uniti hanno sempre cercato di esercitare la loro egemonia tenendo conto del diritto internazionale, non perché lo abbiano sempre rispettato (anzi, lo hanno violato molto spesso, con i bombardamenti sulla Serbia o con l’invasione dell’Iraq, nelle prigioni di Abu Ghraib e di Guantánamo), ma perché il loro discorso pubblico non ne ha mai ignorato l’esistenza anche quando la prassi politica andava in direzione contraria. E invece le prime parole e i primi atti della nuova amministrazione si muovono al di fuori di ogni quadro giuridico, come quando Trump considera possibile un’invasione militare del Canale di Panama o della Groenlandia, o come quando si rifiuta di condannare pubblicamente l’invasione russa dell’Ucraina, e sembrano avallare il ritorno a una pura politica di potenza così come veniva praticata prima che il diritto internazionale cercasse di irreggimentare le relazioni tra Stati in un sistema di regole che, per quanto fragile, contraddittorio e ipocrita, agiva pur sempre da freno al diritto del più forte. Ma i primi atti di Trump paiono ancora più estremistici di così, perché sembrano addirittura sovvertire gli accordi scritti e non scritti che, dopo la Seconda guerra mondiale, avevano permesso la nascita dell’Occidente collettivo. Minacciare l’uscita degli Stati Uniti dalla Nato, o anche soltanto chiedere ai paesi europei di aumentare le spese militari per contribuire maggiormente al bilancio dell’alleanza, significa infatti contravvenire al patto implicito che aveva preso forma con il piano Marshall e la nascita della Nato stessa, e in virtù del quale l’America dava protezione a paesi che di fatto rinunciavano a una parte considerevole della propria sovranità. Questo do ut des, cercato e insieme subìto, garantiva la sicurezza degli Stati protetti e li faceva vivere sotto tutela. Oggi le nazioni europee hanno eserciti sottodimensionati rispetto alla ricchezza di cui dispongono: solo la Francia e la Gran Bretagna posseggono l’arma atomica; Germania, Italia, Paesi Bassi e Belgio non possono averla in base agli accordi internazionali che hanno sottoscritto, e tuttavia ospitano truppe e armi nucleari americane come gli Stati satellite che di fatto sono. La guerra in Ucraina e le prime settimane della nuova presidenza Trump hanno mostrato agli europei che il riparo geopolitico nel quale hanno vissuto potrebbe crollare e hanno ricordato loro, dopo quasi ottant’anni di vita in tempo di pace, che la guerra è una possibilità della politica, una forma di risoluzione delle controversie internazionali cui occorre essere preparati. Il risveglio da questa lunga stagione di minorità rischia di essere traumatico per un’opinione pubblica che si è disabituata a pensare i rapporti tra Stati in modo adulto e per un’istituzione come l’Unione Europea, che non è mai diventata un soggetto politico vero. Un quarto aspetto è la crisi ecologica, che tutti sappiamo essere reale e imminente. Ma se vogliamo dire la verità, dobbiamo riconoscere che di questa crisi, per adesso, non importa nulla a nessuno: la priorità del dibattito pubblico non è mai l’ecologia, e ciò è vero in ogni paese, anche in quelli dell’Europa settentrionale Dovrà passare almeno una generazione perché la crisi ambientale possa decidere i risultati del voto, e non è affatto scontato che quel momento arrivi – soprattutto nelle democrazie, che vivono nel presente eterno del consenso e faticano a pensare al futuro. Infine c’è una quinta crisi legata al controllo della tecnologia, la più pericolosa e la meno percepita. Da almeno settant’anni la specie umana ha il potere di distruggere se stessa per una decisione politica o per un errore tecnico. Quando si pensa all’apocalisse nucleare si pensa quasi sempre alla prima ipotesi e si tende invece a sottovalutare quanto sia complesso il meccanismo della deterrenza atomica. La crisi di Cuba dell’ottobre 1962 è entrata nella memoria collettiva, mentre non molti sanno che il 26 settembre 1983 l’errore di un computer ha rischiato di scatenare la rappresaglia sovietica per un attacco americano inesistente . Situazioni simili si sono verificate più volte, prima e dopo la Guerra fredda , e in futuro è possibile che l’intelligenza artificiale sviluppi un potenziale distruttivo simile a quello dell’energia atomica. Controllare gli effetti di tecnologie così pericolose non è semplice. La coscienza collettiva si difende come ha sempre fatto, cioè rimuovendo, e tuttavia “la fine del mondo è entrata a pieno titolo nel novero delle possibilità reali, capaci di influenzare le dinamiche sociali già solo in quanto possibilità” , e non è certo un caso che le arti degli ultimi decenni, agendo come la sede di un ritorno del represso, abbiano trasformato il racconto apocalittico in un genere tra i più praticati. La nuova scena politica La seconda novità ha a che fare con la politica interna. Se per quasi due decenni dopo la fine della Guerra fredda il disimpegno è stata la Stimmung dominante delle società occidentali, oggi il quadro di insieme sembra molto diverso. La tensione politica fortissima che lacera gli Stati Uniti, per esempio, era del tutto imprevedibile trentaquattro anni fa, nella quiete degli anni Novanta, quando l’America imponeva la propria egemonia; anzi, questo conflitto è oggi così intenso che ci si può chiedere se sia ancora legittimo parlare di Western way of life al singolare o se i conflitti interni non stiano diventando una nuova guerra civile paragonabile, per posta in gioco e intensità, alle battaglie politiche del XX secolo. Un aspetto superficiale ma eloquente della trasformazione che la sfera pubblica ha subito è il comportamento delle masse. A lungo la classe egemone in Occidente era la versione aggiornata della gente di Calvino, della maggioranza silenziosa di Nixon e della nuova borghesia di Pasolini: disimpegnata, post-politica, individualista, familista, consumatrice, turistica, disinibita, post-borghese, superficialmente policroma se vista da vicino, intimamente coesa se vista da lontano e tendenzialmente centrista . Oggi le maggioranze non sono più silenziose né centriste; si comportano invece come delle “classi parlanti” e polarizzate che partecipano ogni giorno a una sorta di perenne assemblea on line divisa in bolle, prendendo la parola (o commentando la parola altrui, anche solo con un like) dentro uno spazio politico che i social network hanno completamente rimodellato. È sintomatico che la forma di aggregazione primigenia del più originale tra i nuovi partiti italiani, il Movimento 5 Stelle, fosse proprio l’assemblea on line. I due più importanti conflitti degli anni Dieci, quelli generati dalle culture wars e dai nuovi populismi, nascono all’interno di questa sfera pubblica inquieta, perché le nuove maggioranze, oltre che parlanti, sono anche profondamente divise. Punto di innesco delle guerre culturali, l’attivismo woke rappresenta, sotto certi aspetti, il correlativo odierno delle vecchie minoranze rumorose di sinistra e esprime i valori di quella parte delle classi medie che beneficia della globalizzazione, ama il cosmopolitismo e si comporta come un’avanguardia nella metamorfosi dei costumi . Il suo fondamento ideologico, come si dirà, è il grande progetto politico dell’emancipazione liberale, che è a sua volta il risultato della sola rivoluzione riuscita dell’epoca moderna, quella borghese. L’emancipazione liberale ha due volti. Il primo, giuridico, è il compimento dell’individualismo moderno e ha come scopo quello di rendere le persone libere di autodeterminarsi, acquisendo diritti e svincolandosi da un passato autoritario, patriarcale e etnocentrico. Questo principio si scontra con i residui di un ethos tradizionale che appare ingiustificabile se si assume come valore il diritto di essere quello che si vuole, magari con l’aiuto della tecnica. È uno scontro morale e biopolitico che ha come oggetto le gerarchie tra i sessi e le culture, l’idea di normalità, i costumi, gli stili di vita, il corpo, le questioni dell’identità sessuale, della nascita e della morte artificiale e sembra portare alle estreme conseguenze lo slogan che, negli anni Sessanta e Settanta, annunciò un nuovo modo di concepire la sfera pubblica e i suoi partages du sensible: “il personale è politico” . Il secondo volto, sociale, è una sorta di prosecuzione del progetto redistributivo socialdemocratico e cerca di agire sulle ingiustizie legate alle differenze di genere, razza, cultura, orientamento sessuale, ma tende a ignorare, o in ogni caso a sottovalutare, le ingiustizie prodotte dall’economia di mercato e dal capitalismo, quelle che il vecchio progetto socialdemocratico metteva invece al centro del discorso. Qualche anno fa, nella biblioteca di una delle più liberal tra le università americane, Berkeley, c’era un cartello che diceva you’re in bear territory, il bear, l’orso, essendo la mascotte dell’università. Proseguiva dicendo no discrimination, no fear, no hate, no intolerance; no hate for race, sexual orientation, religious beliefs, disabilities e dando voce alla critica liberal delle gerarchie simboliche che il fondo patriarcale e coloniale della società americana e europea continua consapevolmente o inconsapevolmente a difendere. È molto interessante che in un elenco così capillare mancasse ogni riferimento alla forma di discriminazione su cui il pensiero politico ottocentesco e novecentesco ha insistito di più, quella di classe. Una delle prime poste in gioco dello scontro culturale odierno è proprio la ridefinizione dei partages du sensible. Quando nel giugno del 2024 Claudia Sheinbaum ha vinto le elezioni messicane, per esempio, la stampa liberal mondiale ha sottolineato che per la prima volta il Messico sarebbe stato governato da una donna, mentre non ha detto quasi nulla del programma di Sheinbaum o del suo legame politico col presidente uscente, López Obrador, di cui Sheinbaum ha ereditato il sistema di potere e il populismo autoritario. Che una donna abbia vinto le elezioni in Messico sembra al “New York Times”, al “Guardian” o alla Cnn, più importante della politica che questa donna adotterà. Qualcosa di simile era accaduto tre anni fa quando Giorgia Meloni era diventata la prima presidente del Consiglio in Italia, e a maggior ragione sarebbe accaduto se Hillary Clinton o Kamala Harris avessero vinto le elezioni americane. È come se il conflitto tra uomini e donne fosse considerato più politico dei programmi propriamente politici. L’avversario della cultura liberal è un’opinione pubblica di destra che negli ultimi decenni si è radicalizzata, assumendo posizioni che un tempo parevano indicibili o destinate a rimanere minoritarie. È composta da chi si sente minacciato dalla globalizzazione e dalle conseguenze del liberalismo morale . Pur essendo erede delle vecchie maggioranze silenziose, quelle che non erano ancora pronte a ripudiare in pubblico i valori tramandati anche quando in privato sperimentavano nuovi costumi, questa opinione pubblica è diventata col tempo più rumorosa e ha rimesso in discussione alcune conquiste di civiltà che, nel secondo dopoguerra, parevano acquisite per sempre: conquiste culturali, come l’impresentabilità di certe idee xenofobe, e conquiste politiche, come l’idea che la democrazia si fondi su un sistema di vincoli costituzionali e sull’equilibrio dei poteri, e che non possa né debba diventare un cesarismo, un bonapartismo o, come si dice usando una categoria emersa alla fine degli anni Novanta, una democrazia illiberale . Mentre le guerre woke cercano di modificare l’arredo interno di un edificio la cui architettura esterna, capitalistica e liberale, non viene messa in discussione, i populismi di destra rischiano di alterare le strutture della Western way of life, e non perché perseguano un progetto di cambiamento utopico – una rivoluzione sia pur nera, come il fascismo storico con la sua idea di Stato etico – ma perché hanno una concezione autoritaria del potere conferito dal voto che rischia di entrare in conflitto con le regole costituzionali delle democrazie. Non è un rovesciamento palese, ideologico e rivendicato, ma una corrosione che mantiene in piedi la facciata svuotando l’edificio dall’interno. Oltre allo scontro tra una concezione liberale e una concezione illiberale della democrazia, la linea di faglia decisiva della politica interna all’Occidente collettivo è quella che oppone chi vuole il compimento del liberalismo morale e chi difende posizioni conservatrici. Anche in questo campo il confronto non è né iperbolico né isterico, le decisioni di fondo debbono ancora essere prese e il risultato delle elezioni conta. Se la sinistra di una volta considerava i rapporti di classe e lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale come le prime e più profonde forme di ingiustizia, la sinistra liberal ha smesso di immaginare un’alternativa all’economia di mercato e mette al centro del suo discorso le ingiustizie generate da altri rapporti di forza (tra i sessi, le etnie, gli stili di vita) che la sinistra di una volta giudicava contraddizioni secondarie. Chi difende il nuovo partage du sensible può invece sostenere, con buoni argomenti, che la lotta per l’emancipazione delle donne e delle minoranze agisce su linee di faglia più profonde, estese e durature di quelle toccate dallo scontro tra modelli di ingegneria sociale che ha segnato la politica novecentesca. In questa nuova partizione, il conflitto di classe scivola sullo sfondo e rischia di non essere percepito, anche perché la cultura liberal accetta le grandi architetture politiche e economiche uscite vincitrici dalla Guerra fredda, a cominciare dal capitalismo. Oggi è la destra a raccogliere il voto delle classi popolari. Chi invece guardi la scena politica odierna avendo ancora in mente le utopie della sinistra ottocentesca e novecentesca ha la certezza che il fronte complessivo si sia spostato a destra rispetto a cinquant’anni fa, sia perché le società occidentali non conoscono alternative di sistema se non la degenerazione autoritaria della democrazia formale o il disordine, sia perché la parte che si colloca a sinistra agisce come se le critiche che la cultura marxista e il movimento operaio hanno mosso all’ingiustizia del capitalismo o all’ipocrisia della politica liberale non fossero mai esistite, mentre sono ancora tutte vere. Si può giustificare il liberalismo come l’impero del male minore ; è impossibile farlo passare per una società dove regna la giustizia o dimenticare che la sua idea di libertà è l’anticipazione giuridica di una libertà reale inesistente, il frammento di un progetto incompiuto.

27 aprile 2025

PASOLINI GRAMSCIANO

Il 27 aprile 1937 muore a Roma, dopo dieci anni di prigionia e di sofferenze, Antonio #Gramsci, una delle figure più alte e nobili della storia d'Italia, il più grande teorico marxista italiano. Pasolini scopre Gramsci appena vengono pubblicate le sue prime lettere e la prima edizione dei Quaderni: "Contemporaneamente, in quegli anni 1948-49, scoprivo Gramsci. Il quale mi offriva la possibilità di fare un bilancio della mia situazione personale. Attraverso Gramsci, la posizione dell’intellettuale – piccolo-borghese di origine o di adozione – la situavo ormai tra il partito e le masse, vero e proprio perno di mediazione tra le classi, e soprattutto verificavo sul piano teorico l’importanza del mondo contadino nella prospettiva rivoluzionaria. La risonanza dell’opera di Gramsci fu per me determinante." Pier Paolo Pasolini 📰 Dal fascismo corrente ... alle ceneri di Gramsci, in "Il sogno del centauro", SPS, p.1415.

NON SI COMUNICA PIU' IN QUESTA SOCIETA'

La nostra società ha perduto la capacità di dialogo e di ascolto reciproco; siamo davanti a una crisi della comunicazione umana, a un declino dello scambio diretto tra persone a vantaggio di congegni spersonalizzati.

UN CONTINENTE SCONOSCIUTO

Igiaba Scego, Le donne nere e il loro corpo per troppo tempo raccontato male, La Stampa Tuttolibri, 26 aprile 2025 Nana Darkoa Sekyamah scrive, e sono parole della scrittrice Bernardine Evaristo, un libro affascinante. Ed è davvero il miglior giudizio su questa opera prima, un saggio, una non fiction, dal titolo La vita sessuale delle donne africane che, per fare un’altra citazione, l’Economist ha definito «Toccante, ribelle, pieno di allegria». In realtà la parola non fiction sta un po’ stretta a un libro che della narrativa ha il ritmo e del saggio ha la ricerca minuziosa. Va detto che in un libro che raccoglie varie esperienze sessuali il rischio era quello di una monotonia un po’ pornografica, dove tutto succede nelle prime pagine, e il resto si trascina stancamente per le restanti duecento. Invece Sekyamah proprio per la sua precisione, da storica orale, riesce a costruire una storia ricca, non solo di sfumature, ma anche di esperienze raccontate. Ma andiamo per ordine da dove arriva l’interesse di Sakyamah sull’argomento? Per anni la scrittrice è stata una blogger, e ha raccolto storie, impressioni, commenti, partendo prima da sé stessa, e poi allargando alle altre, in un blog “Adventures from the bedrooms of African Women”. E in questi racconti, a volte confessioni, emergeva un quadro non solo della vita sessuale delle donne africane, ma del ruolo sociale delle donne in un continente costituito da 54 paesi e da ancor più realtà sociali, linguistiche, etniche. E da lì la raccolta delle interviste è diventata qualcosa di più importante di un post su un blog per l’autrice. Qualcosa che la assorbiva totalmente, come tempo, dedicato a viaggiare, a conoscere, a registrare, e come africana, che voleva lasciare traccia di questo momento alle giovani generazioni. Il libro si può dire è nato grazie a chi l’ha incoraggiata e ad una curiosità che non l’ha mai abbandonata. Qui troverete trentadue storie di donne, inclusa quella di Sekyiamah stessa, raccolte come interviste nell’arco di cinque anni, tra il 2015 e il 2020. Interviste raccolte in un’Africa, estesa, che comprende non solo la diaspora delle recenti migrazioni, ma anche la diaspora nata dal middle passage e dalla terribile storia della schiavitù. C’è la Nigeria, il Ghana, l’Egitto, ma ci sono anche l’Italia, l’Inghilterra, il Brasile, il Costarica. L’età delle intervistate varia, ci sono giovanissime e donne mature, un arco temporale che comprende i ventuno come i settantuno anni, e naturalmente tutte le tappe intermedie dai trenta ai quaranta. Sekyamah è stata anche molto attenta a mostrare diversi tipi di esperienze sessuali, dalla masturbazione al cybersesso, non dimenticando i vari aspetti dell’identità sessuale, infatti ha intervistato donne che si autodefiniscono eterosessuali, lesbiche, non binarie, persone trans. Ogni persona intervistata poi si è trovata a vivere il sesso in diverse condizioni o a non viverlo, c’è chi pratica l’astinenza totale o temporanea, chi si trova in relazioni monogame o poliamorose, matrimoni aperti, o sesso con disabilità. Queste interviste naturalmente sono state pianificate con cura dall’autrice, ma gli incontri hanno anche una loro casualità, persone presentate da amici, persone che l’hanno contattata via chat, o semplicemente incontri avvenuti a una conferenza, al caffè sotto casa, in un club. Donne poi, tranne una, quasi tutte nere, che mettono al centro un corpo da secoli raccontato male e che si prende in queste pagine finalmente il suo spazio. Donne musulmane, donne cristiane, donne che credono a antiche divinità ancestrali. Il fattore che colpisce di più in questo libro infatti è la grande spiritualità che innerva la sessualità di queste donne africane. Ognuna a modo suo dà peso all’atto sessuale come un incontro che può svelare la dea in sé. È un modo per conoscersi e conoscere. Naturalmente c’è spazio per le contraddizioni, a volte l’indicibile. Molte delle storie avvertono, con un disclaimer, che la storia potrà parlare di stupro, abuso, mutilazioni di genitali femminili. Ci sono anche casi di donne feticizzate, donne che denunciano una lettura distorta dei loro corpi, donne che si autodenunciano come dominatrici. Quindi possiamo dire che il libro di Nana Darkoa Sekyamah è un libro altamente politico. Perché mette al centro un corpo, quello delle donne nere e africane, soprattutto in Europa dominato dallo stereotipo e a volte dall’ingiuria. Questo libro insegna, alle donne tutte, che si può essere donna in mille modi diversi. E ha ragione Bernardine Evaristo, La vita sessuale delle donne africane, è un libro davvero affascinante. Che attraverso le storie di Nura, Nafi, Miss Deviant, Gabriela, Amina, Shanita, Vera Cruz, Tsitsi, Waris e tutte le altre, ci insegnerà a non avere paura del corpo e del desiderio.

ANTONIO GRAMSCI: UN UOMO LIBERO FINO ALLA FINE

“Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo, sempre di una sola opinione e non ho mai dovuto nascondere le mie profonde convinzioni per fare piacere a dei padroni o manutengoli.” Antonio Gramsci (1891-1937)

L' IRA DI DIO

"L'ira di Dio si scatenerà contro coloro che parlano di pace, ma chiudono i porti alle persone che cercano speranza e li spalancano alle navi che caricano armi per fare le guerre" Papa Francesco, 10 giugno 2019

MERCANTI NEL TEMPIO

"Molti pensano che un funerale sia un evento casuale, privo di regole. Non è così. Il funerale è l’appuntamento mondano par excellence. A un funerale, non bisogna mai dimenticarlo, si va in scena." La grande bellezza, Paolo Sorrentino

RESISTENZA TRADITA

RESISTENZA TRADITA La “Resistenza tradita” non fu e non è categoria ideologica o ideale rispetto alle aspettative della edificazione di una società socialista. Ma lo fu e lo è, rispetto alla realtà di una democrazia, costituzionale e repubblicana, svuotata di prerogative sociali sostanziali (la sovranità popolare coniugata all’eguaglianza) che imponeva un’alleanza atlantista servile anticomunista e un’egemonia del capitalismo monopolistico in salsa assistenziale clericale. Con, addirittura, la persecuzione dei partigiani. Il più veemente atto d’accusa di questo fu il discorso pronunciato al Senato della Repubblica il 28 ottobre 1949 da Pietro Secchia, il valoroso Commissario Generale delle Brigate Garibaldi e dal 1948 uno dei vice segretari nazionali del PCI. Fu quel discorso che può essere epigrafe di quella che fu, ed è, la categoria di “Resistenza tradita”. / Ferdinando Dubla, saggio “La Resistenza accusa ancora: Pietro Secchia e l'antifascismo comunista come liberazione popolare e lotta di classe (1943/1945)”, Nuova editrice Oriente, 2002 / https://t.me/lavoropolitico/934 https://books.google.it/.../La_Resistenza_accusa_ancora... * 📎da noi in Italia alla fine di una vera guerra di popolo, al termine di una guerra di liberazione abbiamo prima assistito all'esaltazione dei partigiani e dei patrioti, di coloro che questa guerra avevano combattuto, poi per realizzare la pacificazione nel Paese la Repubblica ha generosamente accordato al nemico di ieri, ai fascisti, larghe amnistie, ed adesso invece di porre la parola pace si ricomincia da capo. - Voi avete cominciato a mettere sotto processo i partigiani, a perseguitarli, a permettere e ad alimentare infami campagne di stampa contro la Resistenza e i suoi artefici. E chiamate questo pacificare il Paese? In un primo tempo si condannano i fascisti più responsabili e più criminali. Poi sono venute le amnistie ed era giusto, ripeto, accordarle se si voleva unire e pacificare il Paese. Ma in seguito avete ricollocato in posti delicati e di responsabilità degli ex dirigenti fascisti, degli ex gerarchi della milizia e questo era già sbagliato, ed ora siete arrivati a mettere sotto processo ed a perseguitare i partigiani! Ma fino a quando si vuole continuare questa tragica altalena? 📌Se non vi anima un senso di giustizia perlomeno l'interesse del Paese, la necessità di spezzare quella che qualcuno di voi ha chiamato la spirale della vendetta, vi dovrebbe spingere a porre fine ad una campagna di odiose persecuzioni che non possono non suscitare altro odio, altre vendette, che non possono non provocare lo sdegno di quanti devono vivere questo tempo della «liberazione tradita». 🖌️ Pietro Secchia, 28 ottobre 1949, Senato della Repubblica -https://t.me/lavoropolitico/935

DAL DIARIO DI ADA GOBETTI

Dedico questi ricordi ai miei amici: vicini e lontani; di vent’anni e di un’ora sola. Perché proprio l’amicizia - legame di solidarietà, fondato non su comunanza di sangue, né di patria, né di tradizione intellettuale, ma sul semplice rapporto umano del sentirsi uno con uno tra molti - m’è parso il significato intimo, il segno della nostra battaglia. E forse lo è stato veramente. E soltanto se riusciremo a salvarla, a perfezionarla o ricrearla al di sopra di tanti errori e di tanti smarrimenti, se riusciremo a capire che questa unità, questa amicizia non è stata e non deve essere solo un mezzo per raggiungere qualche altra cosa, ma è un valore in sé stessa, perché in essa forse è il senso dell’uomo - soltanto allora potremmo ripensare al nostro passato e rivedere il volto dei nostri amici, vivi e morti, senza malinconia e senza disperazione. Ada Gobetti, Diario partigiano