07 aprile 2025

L' ANTROPOLOGO NINO BUTTITTA STIMAVA TANTO FRANCESCO CARBONE 1 e 2

Ricordo ancora la presentazione del fascicolo n. 5 di NUOVA BUSAMBRA, dedicato al fondatore di GODRANOPOLI, svoltasi alla Libreria Broadway nel marzo del 2014. A presentare quel numero mi trovai accanto ANTONINO BUTTITTA e ALDO GERBINO. In quell'occasione l'antropologo bagherese elogiò particolarmente l'opera di Carbone. Ci dovrebbe essere in circolazione ancora un video che ha registrato quella presentazione. (fv) PS: Ho trovato, grazie all'archivio di questo stesso blog, le foto e una parte del video di quella presentazione:

ANTONIO GRAMSCI: LE RADICI SARDE DI UN PENSIERO UNIVERSALE

Anche nel nostro EREDITA' DISSIPATE abbiano sottolineato le redici sarde del pensiero gramsciano. (fv)

ARMIAMOCI E PARTITE...

Mettere l’elmetto alla “generazione fiocco di neve” Il collega Marco Maurizi l’ha sintetizzato alla perfezione: «La borghesia liberale è passata da “un brutto voto potrebbe condurre alla morte dei nostri fragili figli” a “preparatevi a vivere in un bunker” nel giro di poche settimane». E davvero, ultimamente, con una intensità esplosiva dopo il fallito incontro nello Studio ovale tra Trump e Zelensky, non era possibile accendere la tv su un talk show politico, leggere un corsivo sui quotidiani, aprire Facebook, senza sentire o leggere una Gruber, un Giannini, un Mentana, un Augias, un Flores d’Arcais – sto facendo intenzionalmente solo nomi di opinionisti progressisti – farsi portavoce dell’ineluttabilità dell’ora presente e dell’unica strada tracciata davanti a noi: il riarmo. Tutto ciò che poteva disturbare questa adesione all’ananke veniva o contestato con accanimento o intenzionalmente taciuto: Schlein è stata screditata come leader inaffidabile, semplicemente perché ha osato non allinearsi a un Partito socialista europeo che si è reso subito disponibile a sostenere le proposte di Ursula von Der Leyen; nessuno ha concesso il minimo spazio alla speranza che una qualche forma di opposizione interna a Trump saprà forse riorganizzarsi oltreoceano nei prossimi quattro anni e ci si è affrettati a dichiarare l’Europa orfana di papà Stati Uniti, esortandola a crescere e a imparare a fare a botte da sola; ovunque si è evocata la Conferenza di Monaco e hitlerizzato Putin, come se questi intenda entrare domani a Parigi coi panzer. Persino una rivista moderata (nei molti sensi del termine) come Il Mulino, ha sostenuto con perfetto tempismo l’idea di reintrodurre un esercito di leva. Soprattutto, giorno dopo giorno, si è profilato davanti ai nostri occhi un soggetto – i valori europei – sovrastorico, metafisico, mitico, nel quale si confondevano Europa geografica e storica ed Unione dei trattati, Europa e umanesimo-illuminismo-libertà-democrazia-civiltà, Altiero Spinelli e Mario Draghi/Christine Lagarde, Europa e iniziative egemoniche di Macron e di Starmer (che dell’Unione non fa nemmeno parte). Ma non si può tacere, naturalmente, il caso del più sintomatico fra gli opinionisti, Antonio Scurati. Tre anni fa lo scrittore aveva aggiunto i propri parerga a Plutarco con un elogio delle res gestae di Mario Draghi: uomo che «ha retto le sorti di una nazione e di un continente» e «le ha tenute in pugno con il piglio del dominatore, sorretto da una potente competenza, baciato dal successo, guadagnando una levatura internazionale, un prestigio globale, un posto di tutto rispetto nei libri di storia. Ha conosciuto il potere, quello vero, ha conosciuto la fama degli uomini illustri, la vertiginosa responsabilità di chi, da vette inarrivabili, decide quasi da solo della vita dei molti». Questa volta Scurati ha pen(s)osamente meditato sull’assenza di virtù guerriere dei giovani europei, virtù che tra brevissimo potrebbero invece essere assolutamente necessarie per la sopravvivenza della nostra civiltà (Dove sono ormai i guerrieri d’Europa?, «La Repubblica», 4 marzo 2025). Non so se Scurati possa essere definito tout court un progressista: di sicuro nei suoi libri la postura democratica e antifascista è ribadita con forza. Tuttavia, osservava Gianluigi Simonetti in un acuto articolo («Tuttolibri», 19 ottobre 2024), il suo stile denuncia un «ritorno del represso formale» in cui si intravede una fascinazione estetica per quel fascismo razionalmente rigettato. Anche l’articolo su Repubblica è nevroticamente ambiguo, reggendosi su un’equivoca antifrasi: la virtù guerriera vi è infatti evocata a contrario, a partire dalla sua assenza, per evitare una sua affermazione troppo diretta e ideologicamente imbarazzante. Nonostante Scurati riconosca tutti i vantaggi della vita in tempo di pace e di welfare, a dar forma al suo testo è il topos dell’ubi sunt, la nostalgia per un passato di poderose dimensioni epico-storiche. È istruttivo mettere a confronto questo tortuoso Grovesciamento retorico di Scurati con quello non meno sintomatico di Matteo Salvini, sullo stesso argomento. Circa un anno fa, la Lega ha depositato alla Camera un disegno di legge sulla reintroduzione della leva obbligatoria. Il disegno di legge era stato preparato nei mesi precedenti da un battage del segretario del partito, il quale, seguendo una strategia retorica di cui certo non è l’unico detentore ma in cui è particolarmente versato, aveva alternato interpretazioni della proposta aggressive – di destra – ad interpretazioni rassicuranti – compatibili con un’ideologia progressista: nel primo caso, la leva era il mezzo per insegnare le regole e il rispetto a giovani che indulgono alla pigrizia a causa del reddito di cittadinanza; nel secondo, una forma di impegno verso lo Stato e la comunità non dissimile dal servizio civile, orientabile verso attività come la tutela dei boschi e il pronto soccorso. Salvini preme sempre sul pedale dell’eccesso linguistico, della violenza e della forza evocate “solo” simbolicamente, in linea con lo stile dei politici della destra radicale globale; ma sa benissimo che certi valori conservatori (ordine, gerarchia, disciplina) non possono essere riesumati in quanto tali, senza una debita contestualizzazione, in una società come la nostra: smussando gli angoli, confondendo i confini, il servizio militare viene così presentato come un “quasi” servizio civile. Il leader della Lega fa il percorso logico inverso a quello di Scurati, così che le due strategie argomentative formano insieme una struttura a chiasmo: non “è bella la vita in pace, ma prepariamoci alla guerra”, bensì “mi piace la vita militare, ma rispetto l’amore per la pace”. Tuttavia la risultante finale non è molto diversa: il mondo in cui a combattere – ma fino a ieri lo si chiamava “peace keeping” – era solo una piccola porzione professionalizzata della popolazione è durato appena un soffio. Il dovere di difendere la patria – come recita anche la nostra Costituzione – torna ad essere di tutti i cittadini. La guerra e la disciplina militare riappaiono nel nostro orizzonte mentale. Questa convergenza tra il populismo di destra e il liberalismo di sinistra ci direbbe molto dell’inconscio politico di questi giorni, se solo volessimo indagarla: i due poli opposti del magnete, che negli ultimi decenni hanno sempre tenuto a ribadire la naturale repellenza reciproca, la loro incompatibilità ontologica, hanno l’identica pulsione al dolce et decorum pro patria mori. Parlare dei giovani Il tratto più osceno – non riesco a scegliere un aggettivo meno violento – dell’attuale tambureggiamento bellicistico è che l’età dei suoi sostenitori va dai cinquanta-sessant’anni ai novanta, condizione che li porrà al riparo dall’arrivo dell’eventuale cartolina precetto (ma immagino che oggi esistano più innovative forme 4.0 per convocare al macello): cartolina che invece raggiungerebbe per primi i nostri figli, nipoti e allievi. Sono convinto non da oggi che il discorso pubblico sulla giovinezza e sui giovani sia uno dei più stucchevoli, tra i molti che circolano nella mediosfera. Raramente infatti mi capita di prendervi parte. A ventriloquare quel che i giovani sarebbero, penserebbero, desidererebbero ci sono già fin troppi adulti. Quello con i giovani, per un insegnante, è innanzitutto un rapporto quotidiano. Esperienza, non teoria. Contatto – piacevole o faticoso –, non ciancia senza responsabilità. Se la leggerezza con la quale si discetta di giovani e scuola, giovani e fragilità, giovani e social mi urta i nervi, figurarsi sentire cronisti, compiaciuti di poter battezzare per primi l’ora storica fatale tra uno spot pubblicitario e l’altro, parlare di riarmo: ovvero, rendere più probabile, come capitò ai “sonnambuli” che si ritrovarono senza parere nel primo conflitto mondiale, l’invio al fronte dei nostri ragazzi e ragazze. Ed è proprio questo corto circuito tra superficialità dei metodi e dei mezzi e gravità del contenuto a sgomentare. Ma forse tale corto circuito è solo apparente e la solidarietà di metodi, mezzi, contenuti è molto più profonda di quanto non sembri. La guerra è la continuazione della governance con altri mezzi Non sarà sfuggito a nessuno come il termine «resilienza», fin qui inteso soprattutto come una qualità delle persone, specie dei lavoratori, o al massimo dei sistemi (economici, politici, …), abbia potuto essere applicato – senza bisogno di alcuno spostamento semantico, metonimico o metaforico – a un kit di sopravvivenza all’invasione militare. Sto parlando ovviamente del ben noto video della Commissaria per la gestione delle crisi dell’Unione Europea, Hadja Lahbib. La bravissima dirigente scolastica Ezilda Pepe mi ha fatto notare altre consonanze lessicali tra un documento che risale alla pandemia da covid e il piano Rearm Eu. Nelle «Indicazioni strategiche ad interim per preparedness e readiness ai fini di mitigazione delle infezioni da SARS-CoV-2 in ambito scolastico (a.s. 2022 -2023)» ricorrevano questi due termini inglesi. Spiega Ezilda: preparedness ➝ conoscenze, competenze e risorse necessarie per affrontare un’emergenza readiness ➝ capacità di risposta tempestiva ed efficace all’emergenza attuata grazie alla preparedness. Con questi concetti abbiamo fatto “amicizia” nel periodo della pandemia. L’Istituto Superiore della Sanità inviò, infatti, un documento di gestione e mitigazione del rischio diffusione nel 2022, quando si “cominciò” a tornare a scuola. Le parole sono importanti, il succo era “pronti ad essere pronti”. Readiness torna in relazione al risk management di guerra in sostituzione dell’espressione REARM EU. Basta in effetti dare un’occhiata al documento sulla Preparedness Union Strategy dell’Unione Europea, per constatare non solo l’identità lessicale, ma l’affinità concettuale, la comunanza ideologica, la grottesca fraternità spirituale tra il vecchio documento epidemiologico e quest’ultimo. Resilience, preparedness, readiness: che siano le esigenze del mercato del lavoro, una pandemia, la sopravvivenza a uno stato di guerra, l’Unione europea reagisce – è proprio il caso di dirlo – con la medesima costellazione concettuale e linguistica. Come osserva poi Ezilda, l’espressione “Rearm” è scomparsa abbastanza in fretta dallo spazio pubblico, immediatamente neutralizzata nel lessico-pappa della burocrazia europea. Questo pronto restyling linguistico ricorda un episodio della storia delle politiche scolastiche mondiali la cui morale è istruttiva. Negli anni Novanta dell’eccitazione globalistica, la Banca Mondiale, «partendo dalla constatazione delle due priorità dell’istruzione – andare incontro alla crescente domanda delle economie di lavoratori flessibili in grado di acquisire prontamente nuove abilità e sostenere la continua crescita di conoscenza» propose sei riforme chiave per l’istruzione (Priorities and Strategies for Education, 1995), esprimendosi in termini assai chiari: autonomia, privatizzazione, apertura delle scuole alle famiglie, impiego di tecniche econometriche e valutazione dei tassi di rendimento dell’istruzione, enfasi esclusiva sulle soft skills e gli atteggiamenti necessari sul posto di lavoro e assenza di «ogni riferimento a materie come storia, letteratura ed arti». Nell’arco di appena quattro anni, però, banchieri, funzionari e policy-maker capirono che era necessario adottare una tattica più morbida. Pertanto nel documento successivo, Education Sector Strategy (1999), inaugurarono «una strategia di pubbliche relazioni anche per l’istruzione. In effetti, ciò che colpisce è il cambiamento di linguaggio: la retorica economica è abbandonata quasi completamente in favore di un linguaggio di cura, attento a sentimenti ed emozioni». In realtà, «i parametri fondamentali delle operazioni della banca non erano cambiati» (tutte le citazioni da A. Cobalti, Globalizzazione e istruzione, 2006, p. 224 sgg.). La borghesia liberale, i nostri opinionisti progressisti, non hanno dunque cambiato registro. La dolorosa verità è che il mondo che abitiamo parla un linguaggio tanto elusivo e vuoto da non aver mai detto nulla e da poter perciò essere usato per fare tutto: prima costruire società fondate sulla competizione economica, ora prepararsi alla guerra. Questa elusività e vanità semantica è la caratteristica principale di quella forma di amministrazione apparentemente neutrale del reale che ha sostituito la politica e che va sotto il nome di governance (A. Denault, Governance, 2018). Candidatasi a sostituire il government, troppo compromesso con il comando dall’alto della sovranità moderna, la governance gli preferisce l’impero della normativa tecnica, del regolamento, del benchmark, del quadro di riferimento, della “cultura” dell’assessment e dell’accountability, rafforzando – proprio quando proclama di liberarsene una volta per tutte insieme ai pesanti apparati statali del Novecento fordista – l’amministrazione burocratica del mondo, nella quale, come sappiamo dai tempi di Weber, i mezzi diventano fini, i fini si fanno irrilevanti, pertanto perfettamente intercambiabili, fino alla piena indifferenza etica. È quella che sempre Denault ha definito «mediocrazia», giocando sul fatto che in francese moyen significhi sia “medio” che “mezzo” e potendo perciò denunciare, nello stesso concetto, tanto un sistema economico, politico, mediatico, formativo che prospera sulla medietà/mediocrità delle sue regole, quanto il mito funzionalista del puro efficientamento, che produce conformismo, automatismi, superficialità: «non […] tanto il dominio dei mediocri, quanto lo stato di dominio esercitato attraverso regole che sono anch’esse mediocri, e tuttavia vengono elevate a sistema giusto e coerente, a volte persino a chiave di sopravvivenza, al punto da sottomettere alle sue parole vuote coloro che aspirano a qualcosa di meglio e osano affermare la propria sovranità» (A. Denault, Mediocrazia, 2017, pp. 46-47). Educazione militare La scuola è naturalmente terreno d’elezione per l’applicazione di questo vuoto etico. Il “pieno” delle discipline e delle materie, concrezioni storiche di saperi che incorporano in sé anche le forme e le tecniche della propria trasmissione e appropriazione, è stato sostituito dal vuoto di pattern buropedagogici, i quali, in quanto forme pure prive di sostanza, possono essere tirati da ogni parte e sono buoni ad ogni uso. Quel che è diventata l’educazione civica ne è l’esempio paradigmatico. Tradizionale contenitore per lo studio della Costituzione, sempre a rischio di rappresentare la parodia eticizzata e catechistica dello studio storico del diritto, essa aveva comunque una propria, seppur vaga, fisionomia. Trasformata in “pattern pedagogico”, essa può essere annacquata, come è nelle più recenti formulazioni (non solo nell’ultima riscrittura valditariana) fino a includere “atteggiamenti” tautologici, come l’imparare il rispetto verso gli altri, e sempre nuove “educazioni”, da quella ambientale a quella stradale, da quella alimentare a quella digitale. Nella sua infinita manipolabilità, questo «insegnamento dell’ignoranza» – come l’ha chiamato Jean-Claude Michéa, che ne ha sottolineato il carattere di intenzionale progetto (de)formativo delle élite capitalistiche – può ovviamente anche fare un giro completo su se stesso e tornare a riempirsi di contenuti politicamente prescrittivi, come, nelle ultime Linee guida del 2024, l’imparare l’iniziativa economica e il rispetto per la proprietà privata (questi sì imputabili al solo Governo e Ministero in carica). Ma il pattern potrebbe presto essere ulteriormente riadattato, perché no. Il 2 aprile, al Parlamento europeo, è stata approvata la Relazione sull’attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune. Vorrei portare l’attenzione sulla parte di questo lungo testo intitolata «Difesa e società, e preparazione [preparedness] e prontezza [readiness] civile e militare», in cui si affronta il tema della formazione dei cittadini europei ai rischi per la sicurezza del continente. La premessa è agghiacciante per la franchezza con la quale si riduce l’educazione a una forma di indottrinamento o addestramento: si «sottolinea che è necessaria una comprensione più ampia, tra i cittadini dell’UE, delle minacce e dei rischi per la sicurezza al fine di sviluppare una comprensione condivisa e un allineamento delle percezioni delle minacce in tutta Europa e di creare una nozione globale di difesa europea» (art. 133, corsivo mio). Si ribadisce anche «l’importanza cruciale dei cittadini nella preparazione e nella risposta alle crisi, in particolare la resilienza psicologica degli individui e la preparazione delle famiglie» (art. 134, corsivo mio). Ovviamente ci si occupa diffusamente anche dell’educazione in senso stretto, invitando l’UE e i suoi Stati membri a mettere a punto programmi educativi e di sensibilizzazione, in particolare per i giovani, volti a migliorare le conoscenze e a facilitare i dibattiti sulla sicurezza, la difesa e l’importanza delle forze armate, e a rafforzare la resilienza e la preparazione [preparedness] delle società alle sfide in materia di sicurezza, consentendo nel contempo un maggiore controllo e scrutinio pubblico e democratico del settore della difesa (art. 133). Attraverso “l’apertura al territorio” già da tempo le forze armate sono entrate nelle scuole italiane con apposite attività didattiche (una preziosa mappatura è quella fatta dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università). Questo fatto, tra l’altro, la dice lunga sulla presunta urgenza di interventi per la difesa: l’aria era cambiata già da tempo. Quando indicazioni europee come questa, o simili, saranno recepite in Italia, l’educazione civica nel suo essere ormai pura forma burocratica, mezzo mediocre, strumento irresponsabile si presterà perfettamente ad accogliere per mera addizione queste nuove necessità educative. Il video sul «kit di resilienza», allora, tornerà utile come materiale didattico. Insomma: è tutto pronto perché, nella nuova veste anodina del non linguaggio delle élite che ci hanno governato negli ultimi quarant’anni, ritorni nelle scuole la vecchia educazione militare. Dal sito LEPAROLE E LECOSE

SALMO 44

Salmo 44, nell’inferno con Danilo Kiš di Gianni Montieri pubblicato lunedì, 7 Aprile 2025 · Ripreso dal sito MINIMAMORALIA La speranza è la prima cosa a nascere e, forse, col tempo, in maniera meno decisa diventa l’ultima a morire. A questo ho pensato dopo aver letto alcuni passaggi di Salmo 44, il bellissimo romanzo di Danilo Kiš, edito da Adelphi, con la traduzione di Manuela Orazi. Il libro uscì nel 1962 e circa vent’anni dopo l’autore si rimproverava di alcune ingenuità, per aver usato, in alcuni frangenti, un linguaggio troppo diretto. E se si rimprovera lui, i numerosi altri cosa dovrebbero fare? Salmo 44 è un reportage romanzesco, un trattato crudo e sentimentale, una fotografia in movimento. Sulla fuga, sull’amore, sull’orrore, sulla perdita, sul coraggio, su terrore e di nuovo sull’amore. Si tratta di un testo poetico e folgorante che racconta la fuga dal campo di concentramento di Birkenau di Maria e del suo bambino neonato, insieme a un’altra prigioniera Jeanne. Questa però è solo la partenza, la bravura di Kiš sta nel meccanismo attraverso il quale mescola le immagini al linguaggio, al modo in cui fa saltare le vicende all’indietro verso i ricordi e, allo stesso tempo, le proietta in avanti, verso le porte che si aprono, i piedi che corrono nel fango a perdifiato verso il nulla, l’ignoto, verso il futuro incerto. Leggiamo a un certo punto: «”Lei crede, signor dottore, che per me tutto questo sia iniziato solo ad Auschwitz?”. Si stupì lei stessa della fermezza che rivelava la sua voce: “Che io cominci solo adesso a utilizzare le riserve di speranza che l’uomo porta nel cuore?». Eccola la speranza, messa lì in un dialogo cruciale, segnalata come qualcosa che esiste da sempre, sta là nel cuore delle donne e degli uomini, è un serbatoio dal quale, quando occorre peschiamo. E allora la donna spaventata ma decisa, che si stupisce della sua stessa fermezza. Il campo di concentramento, i campi, la prigionia, gli orrori sono un inciampo, sono la pena estrema ma non sono il punto da cui comincia la speranza. Tutto è iniziato prima dice la donna, e tutto vuol dire dolore, o solo nostalgia, o solo mancanza, o solo desiderio, o solo povertà, o solo perdita. Ogni cosa è l’attimo in cui noi autorizziamo la speranza e ne preleviamo lo spicchio che ci occorre. «La speranza è una necessità. Perciò dobbiamo inventarcela». Come i sogni, come l’amore. Kiš trasse ispirazione per questo romanzo leggendo su un giornale di una coppia di sopravvissuti ad Auschwitz, che qualche anno dopo la fine della guerra andò a visitare il museo del lager. Per tutta la lettura del romanzo ho pensato allo scrittore davanti a quel pezzo di giornale, al particolare transfert che devono aver esercitato su di lui quelle righe. Sopravvissuti che tornano sul luogo dell’orrore. La speranza, noi siamo qui, possiamo tornare, noi siamo vivi. Quel noi siamo vivi, Kiš lo agita in ogni pagina, come un filo di vento, e non ha quasi mai bisogno di mostrare le torture, i cadaveri. La letteratura muove queste persone sulle macerie, tra le miserie e sono due donne, un bambino, e il padre del bambino: un medico. La speranza li autorizza a ipotizzare un giorno in cui si ritroveranno senza sapere quando e come sarà. Chi leggerà il romanzo porterà molte scene nella memoria e alcune nel cuore. Tra le tante, quella in cui Maria col bambino e Jeanne, in piena notte, dopo aver corso per chilometri tra boschi e campagna si ritrovano in un punto dove dovranno separarsi. Maria deve puntare verso la Polonia, Jeanne le indica la direzione, deve essere da quella parte, dice più o meno, ma non lo sanno, si affidano alla forza delle gambe, al battito tumultuoso dei cuori e, di nuovo alla speranza. L’autore invece si affida al linguaggio, e le vediamo grazie alle sue parole correre nel cuore della notte proprio come se ci trovassimo al cinema, e facciamo il tifo, le sosteniamo, e vogliamo che ce la facciano. Lo speriamo. La scrittura di Danilo Kiš è percorsa da un tremito costante, una scena di morte e di orrore ci porta oltre l’Olocausto, appresso agli inferni dei Balcani, e oltre ancora. Un abbraccio tiene, raccoglie e scioglie in sé tutti gli abbracci del mondo. Kiš, ci pare di vederlo seduto a un caffè di Parigi con l’eterna sigaretta, ci pare di vederlo che immagina e che con la memoria va all’indietro, ci pare di vederlo quando sente tutte quante le parole prima di infilarle in un giro perfetto di frase. Ci pare di vederlo che tiene per mano la coppia che torna al lager che ormai è un museo, mentre li avvolge in un cappotto più solido della memoria, in un raggio tiepido che cala sopra tutte le morti in un pomeriggio d’estate.

LA BAMBOLA DI KOKOSCHKA

Natalia Aspesi Kokoschka e Alma, la magnifica ossessione la Repubblica, 7 aprile 2025 A Parigi, al Musée d’art moderne, un paio d’anni fa Giuseppina Manin vagava tra quadri nervosi, illuminati da violenza, dolcezza, colori brutali. Stava visitando la mostra di Oskar Kokoschka e rimase colpita da una fotografia in cui una giovane signora era inginocchiata accanto a un grande, forse orrendo pupazzo gettato su un divano. Manin conosceva l’esistenza di quella sgangherata figura che aveva consentito al giovane pittore, tornato malamente ferito dalla Grande guerra perduta tragicamente, di tentare di vivere ancora dopo essere stato abbandonato dalla sua donna, la bella Alma vedova di Gustav Mahler. La grande bambola cucita da Hermine Moss per il pittore Oskar Kokoschka Alma certo non aveva perso tempo: liberatasi da un antipatico aborto, nel 1915 aveva frettolosamente sposato l’architetto Walter Gropius, il fondatore del Bauhaus, per poi chiudere la sua vita di moglie di varie celebrità sul feretro del più giovane Franz Werfel, scrittore. Giuseppina Manin ricordava anche il magnifico La sposa del vento (1914), un vortice di colori blu, con gli amanti avvinghiati nel disordine del letto, che Kokoschka aveva dipinto nel languore della passione, con la bella Alma nuda su di lui. Così poco tempo e poi la scomparsa di lei tra altre braccia anche fuggevoli… Tutto era stato per Kokoschka, uomo di vistosa bruttezza, un tempo di disperazione: l’essere velocemente sostituito nel cuore della dama, la fine orribile della guerra, la ferita che lo aveva dilaniato, i giorni in ospedale che lo avevano portato alla follia. Ma se Alma non tornava da lui, lui l’avrebbe ricreata, l’Alma senza cui non poteva vivere, l’Alma che lui rivoleva per possederla, per sentirla sua e solo sua. Giuseppina Manin cerca quello che si può trovare di Kokoschka e scopre le lettere che ha scritto, dodici lettere da Dresda senza risposta, per illustrare come dovrà essere la grande pupattola alla fabbricante di bambole Hermine Moos che la confezionerà. Attorno a queste lettere l’autrice costruisce il romanzo La bambolaia (La nave di Teseo) perché di quel personaggio, Hermine, non ha trovato che quella foto e rari ricordi. Dresda, 20 agosto 1918, scrive Kokoschka: «Vi ho spedito la testa a grandezza naturale della mia amata, che imiterete al meglio facendo appello alla vostra pazienza e alla vostra sensualità. Vi prego, fate il possibile perché si possa provare piacere a toccarla nei punti del grasso…». Dresda, 23 gennaio 1919: «Cara signorina Moos, mi raccomando la parrucca, che non sia il modello tradizionale, ma imiti esattamente l’impianto si capelli, le ciocche sistemate in modo naturale, la frangia, la treccia…». Dresda, 6 aprile 1919: «E adesso cosa facciamo? Sono semplicemente terrorizzato dalla vostra bambola… L’involucro esterno sembra una pelliccia di orso bianco, buono per farne uno scendiletto a forma di grizzly irsuto»… Nel libro Manin ci racconta della povera falsa, orribile Alma: riabilitata, torna a essere quel che Kokoschka sognava, vestita di biancheria di seta arrivata da Parigi viene portata a spasso in carrozza per un paio d’anni come una regina. Ma ormai anche lei ha stancato e durante una festa viene gettata giù da una finestra e rovinata con un rivolo di liquore color sangue. C’è poi un breve, tragico epilogo: Hermine Moos, ebrea, si suicida nel 1928, la sorella Henriette nel 1941 per non essere deportata, la mamma Sophie viene uccisa a 77 anni nel campo di Treblinka. Chi intanto se la passa benissimo è Alma, diventata americana, che finalmente senza amanti gelosi scrive i suoi lieder e diventa antisemita, pur avendo avuto due mariti ebrei, schierandosi apertamente con i nazisti. Il libro La bambolaia di Giuseppina Manin (La nave di Teseo, pagg. 176, euro 17)

IL GRANDE GATSBY

Alessandro D'Avenia Luce verde Corriere della Sera, 7 aprile 2025 Il 10 aprile di 100 anni fa usciva uno dei romanzi più belli del XX secolo, per come è scritto e per ciò che vi è scritto (che poi è lo stesso): Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Narra di un uomo di primo ’900 che incarna il sogno americano e che per noi ha ormai il volto sorridente di Dicaprio con una coppa di champagne in mano nell’adattamento di Baz Luhrmann. Il protagonista, James Gatz, figlio di contadini del Nord Dakota, per un colpo del destino, a 17 anni riesce a dare una svolta alla sua vita, e si ribattezza Jay Gatsby: è stato notato che il nome storpia «joy» (gioia) e il cognome suona «Gatz da essere» (to be), chi lui vuole diventare. E così si arricchisce a dismisura con attività più o meno legali e va a vivere in una magnifica villa newyorchese, tutto allo scopo di (ri-)conquistare in questa nuova veste scintillante ciò che manca al suo sogno: l’amore di gioventù, Daisy Fay (il cognome significa fata), splendida ereditiera da cui si era dovuto allontanare per la guerra. In sua assenza Daisy aveva però sposato un uomo della sua cerchia elitaria. La storia mostra, struggente come un tramonto di fine estate, che il desiderio di felicità è desiderio di un amore infinito. Questo fa di noi un paradosso: siamo esseri finiti che vogliono l’infinito. Ma la felicità è allora solo un’illusione? L’infinito ce lo siamo inventati perché abbiamo paura di morire? Certo è che il desiderio di felicità definisce l’esistenza umana: dire «io» è dire che cosa desidero, da cosa sono mosso. Per conoscere qualcuno, chiedo: ma tu che cosa desideri veramente? Jay Gatsby costruisce il suo «pursuit of happiness» (ricerca della felicità nel Dna del suo Paese sin dal primo articolo della Dichiarazione di Indipendenza), attorno a Daisy, oggetto supremo e idealizzato del desiderio. La felicità però non è mai un oggetto, perché è ricerca di infinito, ma il materializzarla in cose e persone dà a noi umani il sentimento di esistere: sentire di aver presa o addirittura controllo sulla vita allenta l’ansia dell’ignoto, tempera la paura della morte. Però, alla prova dei fatti, questa felicità risolta per lo più nella nota triade Possesso, Potere, Piacere non basta mai:le cose (o le persone trasformate in cose) da cui crediamo di ricevere controllo sulla vita si rivelano insufficienti e insoddisfacenti, ci danno benessere ma non l’infinito, l’esser-bene. Se bevo la sete si estingue, il desiderio di felicità invece non passa mai: sopravvive a ogni traguardo, anzi aumenta. Lo sa bene Gatsby che di notte torna a fissare in lontananza dalla sua immensa villa una luce verde, tanto presente quanto irraggiungibile, un «indefinito» che, come aveva intuito Leopardi e forse capita ancora anche a noi con l’orizzonte e le stelle, è solo un promemoria fisico dell’infinito che cerchiamo: «Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgasmico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia... e una bella mattina...». Quella di Gatsby è una fede, crede nella luce verde che segnala l’intraducibile «orgastic future», la felicità assoluta, uno stato di unione totale, vita che non muore più, il paradiso (orgasmo inesauribile) in terra: i doppi punti di sospensione del testo ci fanno «sentire» la tensione delle braccia e la speranza di quella mattina definitiva. Da qui viene la fretta, esito dell’inquietudine, che ci fa accelerare sempre di più verso quel futuro. Infatti a queste parole che descrivono magistralmente il desiderio umano di felicità, il narratore aggiunge la tragica ultima riga del libro: «Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato». Il nostro sforzo per perseguire la felicità totale e senza cadute è vano, perché un essere finito non può procurarsi l’infinito: la corrente del tempo vince ogni sforzo e, trasformando ogni «sarà» e ogni «è» in un «è stato», ci relega nel passato. Per questo molte filosofie puntano all’estinzione del desiderio come via per la felicità: ci procuriamo da noi stessi il dolore della mancanza bramando ciò che tanto non ci soddisferà. Ma allora il desiderio è solo un senso di vuoto creato dalla coscienza per gestire più o meno maldestramente la paura della morte? Mario Luzi risponde così una poesia del 1999: «Di che è mancanza questa mancanza,/ cuore,/ che a un tratto ne sei pieno?/ Di che? Rotta la diga/ t’inonda e ti sommerge/ la piena della tua indigenza.../ Viene,/ forse viene,/ da oltre te/ un richiamo/ che ora perché agonizzi non ascolti» (da Sotto specie umana). Un richiamo che, troppo impegnati a non morire invece che a vivere, non sentiamo. Agostino d’ippona, alla fine del IV sec. d.c., aveva già affrontato di petto (la sua inquietudine) la questione, ponendola all’inizio della sua autobiografia spirituale, le Confessioni: «Ci hai fatti per Te, e il nostro cuore è inquieto fino a quando non riposa in Te». Per lui è proprio l’inquiela tudine a portare alla felicità, perché l’insoddisfazione mai placata dalle cose del mondo, non è un’infinita assenza ma un’infinita mancanza. Per lui il sentimento di mancanza è la traccia della presenza di un amore che mi vuole esistente così come sono. E perché allora mi sembra assente? Quel tu c’è o no? Ho trovato la risposta nella parabola dei talenti (Mt 25,1230): l’uomo che li affida ai servi «parte per un viaggio» e «torna dopo molto tempo» (il tempo della vita). È proprio la sua «temporanea assenza» (mancanza) a trasformarli da servi a protagonisti della storia: il dono della libertà. La presenza del donatore è proprio dove non ce l’aspettiamo, nella sua «partenza», che spinge ciascuno a scoprire i doni che ha e perché li ha: vita unica e irripetibile. Che ne fai? La mancanza non è un vuoto, ma un invito a crescere. Quando sento l’assenza di Dio penso: è partito e tornerà, ma ora è presente in me con i suoi doni, tocca a me. Lo aveva capito bene Etty Hillesum in tempi oscuri come l’olocausto durante il quale morì: «Una cosa diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio» (Diario). Quel tu fa come il genitore che ama il figlio, non si sostituisce ma non è assente, come quando abbiamo imparato a camminare. Il nostro inesauribile desiderio di felicità è quindi uno spazio (la fatica della libertà, della conoscenza di sé e dell’azione) per crescere e per creare. La felicità comincia dall’accettare e abitare la mancanza ma, se per paura la riempio di cose, non scoprirò ciò che già contiene: la mia unicità. Gatsby cerca di conquistare Daisy, proiettando su di lei l’amore infinito che brama, ma l’infinito non è mai in una cosa o in una persona, questi sono segnali: se scambiamo il segnale per la meta saremo delusi e, follia, ce la prenderemo con il segnale, rinfacciandogli di non essere la meta! La grandezza umana è una «grandezza mancante» (inquieta e libera), una chiamata all’amore infinito e non a quattro cose che tanto non entreranno nella tomba. Una luce verde ce lo ricorderà sempre.

06 aprile 2025

UNA LETTURA FAZIOSA DELLA MANIFESTAZIONE ROMANA PER LA PACE

Alessandro De Angelis, Il pacifismo dell'antipolitica: la rivincita di un mondo che incolpa più l'Europa di Putin, La Stampa, 6 aprile 2025 Parli con le persone e, per i più, il pregiudizio è sempre lo stesso, anche se rispetto all’era dei vaffa espresso in maniera più composta. Quello sui giornalisti che «non scrivono la verità», perché fanno parte del «Sistema» coi suoi oscuri interessi, in questo caso quelli del partito delle armi. Tutti al soldo, ovviamente, tranne Marco Travaglio, che dal palco diletterà i fedeli col meglio del suo repertorio: le colpe dell’Europa, elencate con un certo turpiloquio, quelle dell’Ucraina e di quel testardo di Zelensky. Proprio lo disprezza, basta sentire il tono di voce, perché non si è arreso. E poi i meriti di Trump che, a suo dire, ci sta provando a costruire la pace, e proprio per questo non piace all’Europa che vuole continuare a fare la guerra «fino all’ultimo ucraino». Ci parli e ti ripetono che sono per la pace, ma davvero nessuno, né sopra né sotto il palco, spiega il perché dell’equazione tra pace e disarmo. Ci parli, ascolti gli oratori, e non capisci perché ci si indigna su Gaza (tutti) ma non si dice una parola sulle bombe di Putin (nessuno). Né perché su Gaza si rimuove il fallimento di Trump e sull’Ucraina lo stesso Trump viene presentato come un campione di pace anche se, finora, non ha concluso un bel niente. Ascolti poi Barbara Spinelli, che è qui e non nelle piazze intitolate a Ventotene. Se la prende col «nuovo bellicismo Europeo», con «l’ignoranza di chi si vuole vendicare della Russia», coi Paesi europei che cancellano «le dissidenze», coi disegni folli di Macron, Starmer, Draghi e pure del Pd verso cui partono i fischi. Ecco, lì capisci fino in fondo quale sia il sentimento di questa manifestazione. Un sentimento “contro”, dove il nemico slitta dal terreno bellico e dal principio di realtà all’ideologia. Più contro l’Europa che contro gli autocrati. L’Europa è «guerrafondaia», «un obbrobrio governato da una banda di pazzi» (professor d'Orsi), la Germania è più pericolosa della Russia, eccetera eccetera. E c’è un elemento che colpisce. Rileggendo il taccuino, ti accorgi che è stato allegramente ignorato ciò che è successo negli ultimi tre giorni: i dazi, l’11 settembre per le borse, il rischio recessione, tutto ciò che non è funzionale al racconto. Questa manifestazione è la rivincita di un mondo. Lo è nelle dimensioni. Magari non saranno centomila, ma anche se sono la metà è un fatto politico mica banale. È popolo, popolo vero, non Ztl. Gente col problema del mutuo, dell’arrivare a fine mese, del lavoro che non c’è o è diventato lavoro povero. Sono i forgotten men delle tante periferie italiane. Il loro pacifismo, più che valoriale, è innanzitutto figlio della semplificazione “burro o cannoni”. Lo capisci perché ti raccontano questo disagio domestico più che il dolore per i destini del mondo. La guerra come amplificatore della paura di pagare i costi della crisi, le armi come risorse sprecate. Lo è (una rivincita) per il messaggio politico. Diciamoci le cose come stanno: mentre prima queste posizioni erano contro un sentiment (e contro la comunità internazionale), nell’era di Trump e Putin ritrovano piena cittadinanza. L’unica borsa che va bene è quella di Mosca, l’unica piazza che fa centomila è quella dei Cinque stelle. Dietro queste dimensioni c’è la crisi del pacifismo tradizionale, sia la difficoltà della sinistra di governo che è poi il vero avversario non dichiarato di questa manifestazione. Il cui obiettivo è l’Opa a sinistra sul terreno del pacifismo, complici i balbettii del Pd che si sente quasi in colpa a sostenere la difesa europea. Ed è una rivincita per Giuseppe Conte. Ecco, zoomiamo su di lui quando arriva la delegazione del Pd. Attraversa il corteo tra gli applausi e la va a salutare come un perfetto e accogliente padrone di casa. Altra zoomata quando prende la parola sul palco. È più moderato degli ideologi del suo mondo, un po’ su tutto. Parla di «alternativa» come se fosse il leader del centrosinistra e non un semplice capo partito. Del resto anche qui, ha vinto lui. Alle manifestazioni degli altri non è andato. Alla sua c’erano sul palco Bonelli e Fratoianni, e sotto la delegazione del Pd (fischiato). Palazzo Chigi non se l’è affatto tolto dalla testa.

05 aprile 2025

I DAZI DI TRUMP

Il difficile e illusorio equilibrismo di Trump Andrea Fumagalli 06 Aprile 2025 L’entrata in vigore dei dazi apre uno scenario mondiale nuovo. Poche sono le certezze. Andrea Fumagalli ne ha individuate quattro. La prima: quella scelta è la pietra tombale della globalizzazione degli anni Novanta. La seconda: l’economia Usa è in grandissime difficoltà. La terza: la logistica delle materie prime nevralgiche per qualsiasi economia, a cominciare da quelle della tecnologia, sono oggi ormai più sotto il controllo cinese che dei paesi occidentali. La quarta: è troppo presto per avere un’idea chiara delle conseguenze Alle 16 del 2 aprile 2025, ora di Washington, Trump ha annunciato dal Rose Garden della Casa Bianca l’entrata in vigore immediata di dazi sui beni importati del 20% per l’Europa, del 34% per la Cina, del 10% per la Gran Bretagna e in modo differenziato per moltissimi altri paesi. A ciò si aggiunge il dazio del 25% sulle automobili prodotte all’estero. Ricordiamo che tali dazi si sommano a quelli già emessi sull’acciaio e sull’alluminio. Sono entrati in vigore alle 0:01 di sabato ora di Washington (le 6:01 in Italia) i dazi aggiuntivi del 10% imposti dall’amministrazione Trump su gran parte dei prodotti che gli Stati Uniti importano dal resto del mondo: questa soglia minima universale, da cui sono esenti determinati prodotti, si aggiunge ai dazi già esistenti. La Cina ha già adottato le proprie contromisure: verranno applicati dazi sulle merci Usa del 34% a partire dal 10 aprile. Di fatto è la pietra tombale sulla globalizzazione degli anni Novanta e dei primi 2000, basata sul Washington Consensus a matrice Usa: una realtà che ora appare del tutto diversa se non rovesciata. La possibile logica di Trump Per cercare di capirne la logica (perché le decisioni di Trump non sono frutto di follia), occorre partire da due dati fondamentali per la sostenibilità dell’economia statunitense. Il primo riguarda il saldo della bilancia commerciale Usa, che nell’anno 2024 ha toccato il massimo storico, raggiungendo un valore 1.210 miliardi di dollari con un aumento di 148 miliardi [+14%] rispetto al 2023. La bilancia commerciale mostra un saldo negativo con tutti i maggiori partner commerciali degli Stati Uniti, ovvero Cina, Messico, Canada, Vietnam ed il blocco dei paesi dell’Unione Europea, non a caso i paesi più colpiti dai dazi di Trump. Il secondo dato è che al deficit commerciale con l’estero occorre aggiungere anche il debito pubblico Usa, il debito interno, che a dicembre 2024 ha raggiunto la stratosferica cifra di quasi 37.000 miliardi di dollari, pari a circa il 129% del PIL nazionale, pagando oltre 1.000 miliardi solo di interessi. Si tratta di un ammontare di oneri finanziari che è superiore alla spesa militare e solo questo dato la dice lunga. Secondo gli ultimi dati del Tesoro Usa aggiornati alla fine di dicembre del 2024, il 24% del debito statunitense è detenuto da investitori esteri per un ammontare che in valore assoluto è pari a circa 8.512 miliardi di dollari. Pur avendo ridotto la propria esposizione negli ultimi anni, il Giappone rimane ancora il primo detentore estero del debito pubblico Usa con circa 1.059 miliardi. Al secondo posto, guardando alle singole nazioni, vi è la Cina che però nel 2024 ha tagliato ancora a 759 miliardi di dollari la sua esposizione ai T-Bond (i titoli di stato americani) dagli 816 miliardi del 2023, seguendo un piano “geopolitico” di riduzione del finanziamento del debito Usa che va avanti da almeno un decennio (nel 2013 erano 1.300 miliardi). LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI PAOLO CACCIARI: Negli ultimi anni, soprattutto dopo che l’Amministrazione Biden ha perseguito politiche fiscali espansive nel periodo post-Covid, il finanziamento di tali due debiti rischia di diventare una vera e propria spada di Damocle sulla sostenibilità dell’economia americana. Condizione perché l’economia Usa non faccia default è mantenere elevato il valore del dollaro, non solo per mantenerne l’egemonia come valuta di riferimento per le riserve valutarie e per i pagamenti internazionali, ma per consentire un avanzo dei movimenti di capitali tale da favorire il finanziamento del disavanzo commerciale e rendere attrattivo l’acquisto dei titoli di stato sia a livello nazionale che a livello internazionale a protezione del debito pubblico. Tuttavia vi sono diversi segnali che portano a pensare che il potere d’attrazione del dollaro come fonte di finanziamento dei due debiti Usa sia, seppur gradualmente, in declino. Diverse sono le ragioni. Anche se il peso del dollaro come valuta leader nelle riserve valutarie delle Banche Centrali di mezzo mondo è ancora maggioritario, grazie soprattutto alla perdita di appeal dell’euro e agli ancora bassi volumi delle nuove valute emergenti, è diminuito l’utilizzo della valuta statunitense negli scambi internazionali. È in primo luogo l’effetto perverso delle sanzioni Nato contro la Russia. L’esclusione della Russia dal sistema Swift (basato sul dollaro) ne ha ridotto l’utilizzo a favore di nuovi sistemi di pagamento internazionale non più sotto l’egida della valuta Usa e che hanno interessato soprattutto l’interscambio commerciale tra i paesi BRICS+. Nel corso degli ultimi anni si sono sviluppati sistemi alternativi di pagamento non in dollari soprattutto sul piano degli scambi bilaterali. Per questo, il presidente del Brasile, Lula, in vista del prossimo incontro dei paesi BRICS+, che si terrà in Brasile, sta predisponendo una proposta per unificare i diversi sistemi di pagamento non in dollari. Se tale proposito dovesse prendere piede, l’egemonia del dollaro tenderà a diminuire, anche alla luce del forte incremento degli scambi commerciali all’interno dei paesi BRICS+ e del loro aumentato peso economico. Il tentativo di mantenere l’egemonia unipolare Usa e la fine del Washington Consensus Di conseguenza è necessario correre ai ripari prima che sia troppo tardi. La scommessa in gioco è il mantenimento dell’egemonia politica, tecnologica e commerciale da parte del nuovo governo di Trump o, al limite, il consolidamento di uno spazio commerciale e tecnologico autonomo, indipendente dai condizionamenti dei territori geo-economici emergenti, a partire proprio dalla Cina, in cui Gli Usa possano operare a modo loro. Al momento si intravvedono due linee di intervento: la guerra commerciale e la costruzione di nuovi strumenti a protezione del dollaro. La guerra commerciale di Trump ha l’obiettivo di rinsaldare l’economia statunitense in modo protezionistico, dopo che la globalizzazione, iniziata dagli stessi Usa, quando tenevano ben saldo il controllo delle catene internazionali del valore, è sfuggita al dominio delle stesse corporation. Oggi la logistica e il controllo delle materie prime nevralgiche è infatti più sotto il controllo cinese che dei paesi occidentali. La narrativa di Trump per giustificare i dazi fa perno sul fatto che i disavanzi commerciali hanno favorito la ricchezza dei paesi creditori, Cina e Europa in testa. E quindi è necessaria una sorta di riparazione, tipo una richiesta di danni di guerra, a favore degli Usa. Ma la realtà è diversa. Il deficit commerciale Usa è oramai un dato strutturale dell’economia americana, e non potrebbe essere altrimenti, per due motivi. Da un lato, il valore del dollaro come valuta di riferimento interazionale, ha penalizzato la capacità esportativa degli Stati Uniti. I prezzi dei beni statunitense sono sempre stati molto cari per i mercati degli altri paesi. Non stupisce che l’incidenza dell’export sia pari solo nel 2024 all’11% del Pil contro il 20% dell’Europa e ben il 40% dell’Italia. In secondo luogo, occorre considerare che la produzione merceologica degli Stati Uniti negli ultimi anni, almeno a partire dagli anni Novanta, si è fortemente internazionalizzata. Se il comando di queste produzioni, in termini di diritti di proprietà intellettuali e in termini di controllo unilaterale degli strumenti finanziari (dal leasing al franchising) sono saldamente in mani alle corporation statunitensi, il ciclo di produzione è invece delocalizzato all’estero (dai paesi del Sud-Est asiatico sino alle maquiladoras messicane). L’effetto è che le importazioni Usa sono sempre più caratterizzate da beni semilavorati funzionali al Made in Usa (basta pensare all’importazione di Smartphone e di sistemi digitali e di batterie elettriche al litio) e hanno un ciclo di produzione che poco ha a che fare con la manifattura nazionale. Lo stesso si può dire per il Made in Italy, dove spesso il cartellino del Made in Italy fa riferimento solo all’assemblaggio finale ma non al ciclo di produzione complessivo. In altre parole, nel capitalismo contemporaneo delle piattaforme le produzioni completamente nazionali non esistono più e una politica corporativa e nazionalista non ha senso di esistere né può funzionare. La globalizzazione produttiva di merci e servizi (soprattutto immateriali) è oramai irreversibile ed è sempre più fuori dal controllo statunitense. L’obiettivo di Trump di riportare il controllo della produzione e della tecnologia nelle mani degli Stati Uniti non può avere una prospettiva. Uno degli obiettivi dei dazi è infatti stimolare la produzione interna e quindi la domanda nazionale a scapito di quella estera. Ma si tratta di un obiettivo, ammesso che sia realizzabile, che richiede tempo, Un tempo che oggi non è consentito in un capitalismo finanziarizzato, dove le strategie si definiscono in tempi molto stretti. La globalizzazione del Washington Consensus è morta e con lei è morta l’ideologia neoliberista in salsa occidentale come strumento di dominio. Trump rischia di gettare benzina sul fuoco. L’introduzione di dazi probabilmente avrà ripercussioni recessive nel breve periodo non solo sulle economie di molti paesi, ma anche sulla stessa economia statunitense, soprattutto a seguito dell’aumento dei prezzi, con il rischio di creare una situazione di stagflazione. Di sicuro, le decisioni di Trump hanno avuto un immediato impatto negativo sugli indici di borsa, ma Trump spera si tratti di un rischio calcolato. La reazione dei mercati finanziari segue una logica puramente speculativa di brevissimo termine. Ciò che conta è il mantenimento del primato delle borse statunitensi nello scacchiere internazionali a sostegno delle quotazioni del dollaro, che si è svalutato con l’euro esattamente di quanto si era rivalutato dopo l’elezione di Trump. La guerra commerciale dichiarata dagli Usa può avere feedback negativi non solo per l’economia Usa ma anche per lo stesso dollaro, favorendo quel processo di de-dollarizzazione già in atto. Ne è sicuramente cosciente Larry Fink, l’amministratore delegato di BlackRock, il più importante fondo di investimento speculativo al mondo (che insieme a Vanguard e a State Stret forma il gruppo delle Big Three della finanza) con quasi 12mila miliardi di dollari di attivi nonché detentore di circa il 10% dell’intero listino di Standard&Poor 500. Proprio in questi giorni, è stata pubblicata l’annuale lettera agli investitori, in cui l’amministratore delegato “ha dichiarato che le attuali condizioni americane, a partire dall’enorme debito federale, mettono a repentaglio la tenuta del dollaro come valuta di riserva internazionale”. Se ciò dovesse accadere, si scatenerebbe un effetto domino che potrebbe portare alla crisi degli stessi mercati finanziari statunitensi e al fallimento dei fondi speculativi. La preoccupazione di Fink è quindi più che legittima. Come evitare che questo accada? Due sono le possibili strade. Nei salotti finanziari statunitensi, gira con insistenza una voce: Trump vorrebbe ristrutturare una parte del debito federale Usa, costringendo alcuni creditori esteri a scambiare i titoli in loro possesso con obbligazioni a “lunghissimo termine”. L’agenzia Bloomberg cita un incontro organizzato dalla società di consulenza Bianco Research con i propri clienti sul punto. Tale imposizione potrebbe essere la moneta di scambio per ridurre il valore dei dazi. Una seconda strada viene ipotizzata dallo stesso Fink: è possibile che la nuova amministrazione Uas converga verso l’istituzionalizzazione di una criptomoneta (una stablecoin[1], ad esempio) che svolga la funzione di “ancora di salvataggio” a protezione del dollaro (e non semplicemente bene rifugio, come l’oro). Fink fa diretto riferimento al Bitcoin e agli Etf (Exchange Traded Funds) in contrapposizione ad altre cripto monete che vengono perorate da Trump e Musk, sulle quali i fondi di investimenti hanno minor presa. Al riguardo, Alessandro Volpi su Altraeconomia scrive: “Larry Fink indicando nei Bitcoin la possibile valuta di riserva internazionale vuole renderli estremamente appetibili e dunque creare su questa appetibilità una miriade di strumenti finanziari, in primis gli Etf, in grado di garantire ottimi risultati alle Big Three che con i Bitcoin intendono spazzare via tutto l’universo delle criptovalute legate all’élite finanziaria trumpiana”. Quindi? È troppo presto per avere un’idea più chiara e precisa dei futuri scenari possibili. Fatto sta che Trump si muove in un contesto molto instabile e scivoloso che rischia di generare un corto circuito. È necessario avere il dollaro forte per impedire il default dell’economia ma tale condizione favorisce un debito estero che può diventare insostenibile. Si introducono così dei dazi per ridurre l’import e incentivare l’export e la produzione interna ma con l’effetto di far entrare l’economia Usa in una fase di stagflazione (recessione con inflazione), che tra i vari effetti, anche di natura politico-elettorale, ha anche quello di creare aspettative negative sui mercati finanziari e di conseguenza indebolire ulteriormente il dollaro, favorendone la svalutazione. Grande è la confusione sotto il cielo ma la situazione non è eccellente. Note [1] In generale, le Stablecoin sono un tipo di criptovaluta il cui valore è ancorato a un altro bene, come una valuta fiat o l’oro, per mantenere un prezzo stabile. In questo caso, l’asset di riferimento sarebbe il dollaro Pubblicato su Effimera

UOMINI FERMI ALL' EPOCA DELLA PIETRA E DELLA FIONDA

GRANDE PARTECIPAZIONE DI POPOLO A ROMA PER LA PACE

Questa mi sembra la giornata adatta per ricordare GASPARE MONTALBANO, il poeta popolare di Sambuca che, in un suo libro di qualche anno fa, profeticamente ha definito PAZZI i governanti che pensano al riarmo e alla guerra. (fv)

CICCINO CARBONE NEL RICORDO DI SALVATORE MAURICI

FRANCESCO Ciccino CARBONE nel ricordo di SALVATORE MAURICI Ho avuto modo di conoscere Francesco Carbone in occasione di alcuni eventi culturali a Palermo; interessante e rivoluzionario, per i tempi in cui in Sicilia ed a Palermo si viveva una atmosfera di sfida e di novità. Lui viveva inserito in questa atmosfera di risveglio, di primavera. Poi il botto, l’esplosione, la sintesi del suo concetto di Cultura si è materializzato a Godrano con l’apertura di Godranopoli: museo, casa d’arte luogo di confronto di idee e di proposte. Una novità assoluta, rivoluzionaria, la sintesi del suo concetto di Cultura si è materializzato con la realizzazione del Museo di Godranopoli. Una realizzazione che ben piò essere qualificata rivoluzionaria per le acque stagnanti della cultura siciliana ed allo stesso tempo anche un sasso buttato nelle acque stagnanti della cultura isolana di quegli anni. Ricordo ancora le polemiche di quegli anni, poi come tutti gli avvenimenti rivoluzionari su Godranopoli calò il silenzio. Morto il suo creatore si era esaurita la linfa vitale e creatrice che aveva portato alla sua realizzazione. Appena qualche anno dopo, con amici mi sono recato a Godrano per visitare il museo e con grande nostra sorpresa abbiamo scoperto che il museo era chiuso, fatto ancora piu grave che nessuno dei responsabili sapeva chi avesse le chiavi. Alla fine ci siamo riusciti ad entrare nel museo. Che dire, ne valeva la pena! Siamo stati assaliti da una gioia immensa, una gioia mista ai ricordi della mia infanzia di contadino, la commozione di ritrovare tutti quegli attrezzi; aratri, capizzeddi, quadara,rotuli, Zubbi e centinaia di altri attrezzi che assistevano il nostro lavoro alla masseria, erano là che facevano bella mostra di se, salvi dalla distruzione e certamente utili per gli eventuali visitatori che potrebbero visitare Godranopoli solo se le autorità locali investissero un po’ di tempo e di energie per renderlo fruibile agli eventuali visitatori. Il mio pensiero vola al Museo Etnoantropologico di Sambuca di Sicilia, mio paese natale anche questo realizzato grazie al compianto Dott. Vito Gandolfo e dopo poco tempo abbandonato. Evidentemente ricordare la propria storia di contadini non piace a molti. Dunque una visione bella si è presentata dentro il museo realizzato da Francesco Ciccino Carbone. Accanto agli attrezzi di lavoro tipici del luogo erano sistemati opere d’arte che oserei dire abbracciavano la manna di fenu,un ancineddu, ‘na totula, un vecchiu quadaru senza che ci fosse una confusione di stile , erano predisposti secondo le stagioni e\o le lavorazioni, cosi un rituni di paglia stava accanto un saccu di furmentu. Tutto testimoniava un’epoca storica ed una civiltà, quella Civiltà Contadina che era arrivata fino a noi dalla notte dei tempi col suo aratro di legno e che all’arrivo della prima moto zappa è scomparso in pochissimo tempo. In una sintesi armoniosa tutto sintetizzava l’Arte ed il luogo dove Godranopoli era nato. Quel luogo lo stesso Carbone , in una recensione ad un libro di poesie di Giacomo Giardina poeta godranese, così descriveva: "L’onnipresenza della natura come concetto, rappresentazione, sentimento, modello da imitare o metafora nella mentalità mitica delle culture primitive, come nelle arti, nelle interpretazioni del mondo e dell’uomo, è un dato di fatto che per Giardina non ha bisogno di dimostrazioni”. Così, seguendo le sue parole, Godrano ed il suo territorio, Godranopoli è la sintesi di un poeta e di un artista, più difficili che venga accettata dagli abitanti di Godrano. SALVATORE MAURICI

LA RESISTENZA RACCONTATA DA ITALO CALVINO

Ecco una cosa che non ti aspetti. Il sentiero dei nidi di ragno è un romanzo che intreccia il realismo e la fiaba, la narrazione ruota intorno a due personaggi principali, il ragazzo Pin e il partigiano Kim. Due monosillabi per designare due polarità, quella infantile e in parte fiabesca e quella adulta improntata al realismo. L’oggetto è rappresentato dall’esperienza partigiana. Lo scontro armato è quasi assente dalla narrazione. Quando si verifica, non viene mai rappresentato direttamente, è osservato da lontano, in un caso è solo percepito attraverso i suoni che produce. E l’amore? Pin è fratello di una prostituta, vive con lei nella stessa casa. Segue gli incontri di lei con i clienti. Non si può definire amore quello che accade ogni volta con i maschi di passaggio. Il romanzo contiene tuttavia una lunga sequenza dedicata all’intreccio tra la passione carnale e l’impulso distruttivo, tra eros e thanatos. La vicenda occupa un intero capitolo, il decimo. In apertura ci sono gli uomini che si preparano per la battaglia. Girano con movimenti silenziosi intorno al casolare che è il loro rifugio temporaneo. Non c’è la morte nei loro pensieri. Gli uomini sembrano pensare ad altro che al loro destino. Pensano al destino delle coperte che dovranno portare con sé. Ed è già la morte che fa capolino: “la perderanno scappando, forse s’inzupperà di sangue mentre loro muoiono, forse la prenderà un fascista e la mostrerà in città come bottino”. Ecco la morte che cacciata dalla porta rientra dalla finestra. La coperta che si inzuppa di sangue mentre muoiono. L’amore arriva subito dopo. Tra i partigiani c’è un’unica donna, Giglia, la moglie del cuoco. Ha gli occhi verdi e muove il collo come una schiena di gatto. In un episodio precedente assistiamo al suo risveglio, lei “ascolta i discorsi degli uomini carichi di voglia”, è un naturale oggetto del desiderio, “sente tutti gli sguardi che s’avvicinano a lei come una schiera di bisce tra il fieno”. Calvino moltiplica, come vedremo le metafore naturalistiche nel racconto della vicenda. Giglia si è poi alzata ed è andata alla fontana a lavarsi. Gli uomini sono rimasti nel casolare “con pensieri di lei che sì apre la camicia e s’insapona il seno”. Solo uno la segue e va a lavarsi anche lui: è il comandante del distaccamento, il Dritto, che, come si capisce poco più in là, ha con lei un legame di reciproca attrazione. Più tardi, tra i due si è venuta sviluppando tutta una complicità di sguardi e di gesti: “La gilda ata ginocchioni vicino al fuoco accanto al marito che bada a nutrire la fiamma; intanto segue i discorsi e gira intorno gli occhi verdi. E ogni volta i suoi occhi s’incontrano con quelli ombrati del Dritto e allora anche il Dritto ride, col suo sorriso cattivo e malato e rimangono con gli sguardi incrociati, finché lei non abbassa gli occhi, e sta seria”. Contatto stabilito. Quando Pin si mette a cantare “chi bussa alla mia porta”, ha l’idea di provocare la Giglia e le chiede: hi vorresti ti bussasse alla Poi la Giglia ha smesso di passare la legna al marito per alimentare le fiamme tra i due si sviluppa un gioco, si passano la legna da mettere sul fuoco senza badare al volume crescente delle fiamme. Prima che si arrivi all’incendio Pin chiede alla Giglia: “Chi vorresti che ti bussasse alla porta, dimmi un po’, Giglia . Fa Pin, - quando tuo marito non è in casa?” La donna abilmente schiva la trappola. C’è un ulteriore sviluppo, poco tempo dopo: “Il Dritto ha preso la mano di Giglia, con l’altra mano le ha tolto la saggina e l’ha buttata nel fuoco, ora lascia la mano di Giglia e si guardano”. Dal contatto alla connessione. Il gioco si è fatto pericoloso, in quanto i due non hanno badato a tenere basse le fiamme, così alla fine scoppia un incendio. Questo l’antefatto. Torniamo al capitolo decimo. Ed ecco l’amore che si affaccia all’orizzonte. L’amore o il desiderio. In precedenza il Dritto ha già detto a più riprese di essere malato. Di più, sentiva sempre più il desiderio di lasciarsi andare alla deriva. Quanto alla battaglia che si preparava si è informato di ciò che avrebbe fatto il cuoco: “Il Dritto ha seguito la spiegazione con piccoli cenni d’assenso, inframmezzati da scosse del capo. – Nessuno escluso, - ripete, - nemmeno il cuoco? – e si fa attento”. E così il giorno della battaglia è chiaro che anche il cuoco andrà con gli altri, incontro ai nemici. E la Giglia, allora? Il cuoco vorrebbe mandarla via: “Dritto digli che se ne vada, che non può restare qui sola”. Il comandante si oppone: “No, - dice. – Meglio che resti qui”. Con il che, lei torna nel casolare a dormire. Il Dritto continua a dare ordini e stabilisce che sarà un altro partigiano, Cugino, a prendere il comando: “Io sono malato, - dice. – Io non posso venire”. Ecco, ora tutto vada come vada come vuole. Gli uomini non hanno detto ancora niente. “sono un uomo finito”, pensa il Dritto. Ora tutto vada come vuole”. Gli uomini non capiscono cosa lo spinge a fare così, nemmeno lui – suggerisce Calvino – sa bene il perché. Invece Pin, il ragazzo Pin, ha capito, “è attentissimo, la lingua tra i denti, gote accese. Là, mezzo sepolta nel fieno, c’è Giglia, con quel suo seno caldo sotto la camicia da uomo”. Lei non sopporta il caldo, “non fa che rigirarsi” nel fieno. Il desiderio. S’è perfino alzata, si è messa nuda e Pin l’ha vista: “Mentre nella vallata infurierà la battaglia, nel casolare succederanno cose strabilianti, cento volte più eccitanti della battaglia”. Ricompare qui il tema della morte. Il falchetto del cuoco “non la smette di gridare roteando gli occhi gialli”. Gli uomini protestano: - Fallo star zitto! Fallo star zitto! Porta sfortuna! Ci chiama i tedeschi addosso!”. E il falchetto diventa una vittima sacrificale. Il cuoco lo tiene stretto tra le ginocchia e gli tira il collo: “Alé. Adesso siete contenti. Siete tutti contenti adesso. Alé”. La morte. Intanto il Dritto è finito anche lui nel casolare, tra il fieno, con la Giglia: “La donna e l’uomo dormono una qua e uno là, in due angoli opposti, involti nella coperta”. Pin sa come andrà a finire: “E’ il giorno della battaglia! Come mai non si sentono spari? E’ il giorno in cui il comandante Dritto farà la festa alla moglie del cuoco!” Se la conclusione sembra già decisa, per arrivare al dunque ci vorranno una serie di passaggi, come nel corteggiamento animale. In un primo tempo Pin ha addirittura l’impressione che “il fatto” sia già successo, ma si sbaglia: “- Ben fatto tutto? – chiede. – Cosa? Fa Giglia. Pin non risponde: la guarda di sottecchi con una smorfietta a grugno. – Mi sono alzata adesso, - dice la Giglia, angelica. “Ha capito, pensa Pin, - vacca. Ha capito”. In realtà, sul momento, la donna ha un’espressione tesa, il Dritto a sua volta non sorride, si succhia i denti. C’è uno scambio di battute tra l’uomo e Pin sulla battaglia che non comincia. Si apre invece un dialogo tra il Dritto e la Giglia. Lui fa la parte del malato, non vuol mamgiare nulla, poi accetta di bere il brodo. Lei gli chiede perché non è andato con gli altri. Di nuovo il Dritto mostra di non avere le idee chiare su quello che gli succede. Dopo di che, prende l’iniziativa: “La Giglia è seduta più in alto di lui. Lo guarda a lungo aspirando a tutte narici. – Ho voglia di fare un po’ quel che mi pare, - le dice il Dritto, a occhi gialli. Le ha messo una mano sul ginocchio”. La connessione ritrovata. Amore (tenerezza) e morte si intrecciano nelle battute successive del dialogo: “ - Dritto, e se ti facessero qualche cattivo scherzo, - dice la Giglia. Il Dritto le si è avvicinato, ora le è accucciato ai piedi. - Non m’importa di morire, - dice. Ma ha le labbra che gli tremano, le labbra da ragazzo malato. – Non m’importa di morire. Ma prima vorrei… Prima…” Tiene il capo riverso e guarda Giglia da sotto in su, alta sopra di lui”. Il non detto e il linguaggio del corpo. Anche nella Bibbia, Ruth si accuccia ai piedi di Booz, prima di congiungersi a lui. Si apre allora tutta una sequenza con Pin che appare e scompare, mentre il pensiero va ogni tanto alla battaglia che tarda a scatenarsi: “Il Dritto si scuote. – Non sparano, - dice. - Non sparano fa Pin. Il ragazzo sa che a un certo punto dovrà eclissarsi. Se non lo sa in modo cosciente, lo sente e agisce di conseguenza. Viene mandato a prendere un po’ d’acqua. Il gioco della tenerezza riprende a parti invertite: “- Sei pallida, Giglia, - dice il Dritto. E’ in piedi dietro di lei, coi ginocchi le tocca la schiena. – Forse sono malata, - dice la Giglia in un soffio”. Pin sottolinea il gioco delle parti mettendosi a cantare, infila “uno di quei ritornelli monotoni che non finiscono mai”. Subito il corteggiamento fa un deciso passo avanti: “L’uomo le ha messo le mani sulle guance e le ha voltato in su la testa”. Ancora il linguaggio del corpo: ti voglio. E continua: “Ora sempre standole dietro l’ha presa per le spalle e la tiene per le ascelle”. Di nuovo un siparietto: “- Non sparano, dice. – Neh? Non sparano proprio…-dice Pin”. Stanno zitti”. Pin si avvia a prendere l’acqua, torna indietro e già immagina quello che sta per succedere: “Saranno già per terra uno sull’altro, mordendosi la gola come i cani!” E invece no: “Sono sempre lì invece. Il Dritto ha le mani sotto i capelli della donna, nella nuca e lei fa un movimento da gatta, come per sfuggirgli. Si voltano subito, di scatto, sentendo lui”. La presa di possesso, il gatto e il topo. Per gioco, si capisce. Ancora il pensiero della battaglia: “Il Dritto continua a passarsi la mano sulla fronte: - Non sparano ancora, - dice, Chissà cosa succede”. Pin si rende conto di dover aspettare, non gli conviene tornare troppo presto con l’acqua. Ne approfitta per fare i suoi bisogni e, mentre si sforza, trova che è bello “pensare al Dritto con la Giglia, che si rincorrono fra i ruderi della cucina o agli uomini condotti a inginocchiarsi nelle fosse, al tramonto, nudi e gialli, tutte cose incomprensibili e cattive, con uno strano fascino, come le proprie feci”. Di nuovo amore e morte, di nuovo il linguaggio del corpo per esprimere la sensibilità al richiamo confuso delle pulsioni vitali e distruttive. Nella cucina la schermaglia amorosa si è fatta ancora più intensa: “tutte le patate sono rovesciate in terra. La Giglia è in un angolo, al di là dei sacchi e della marmitta e ha il coltello in mano. La camicia da uomo è sbottonata: ci sono i seni bianchi e caldi, dentro! Dritto è al di là della barriera, la minaccia col coltello. E’ vero: si stanno ineguendo, forse si feriscono. Invece, ride; ridono tutti e due, è uno scherzare che fa pena, ma ridono”. Sembra l’amore descritto da Lucrezio nel De rerum natura: desiderio e sofferenza alla ricerca del piacere. Il desiderio: quando Giglia s’attacca al fiasco e beve, Il Dritto le guarda le labbra. Torna il pensiero della battaglia: “Poi dice: - Non sparano ancora. Si volta verso Pin: - Non sparano ancora, - ripete. – Che succederà laggiù?”. Pin si mette a scherzare. Allora i due si guardano e ridono: “Ma Pin capisce che non ridono per quello che ha detto lui, che è un riso tutto loro, segreto, senza ragione”. O con ragione: l’estasi amorosa segue il suo corso, i due sono complici e si capiscono al di là delle parole. Ancora la morte: “Su un roveto, a pochi passi da loro, c’è il falchetto stecchito, impigliato per le ali”. Uno scambio di battute tra i due amanti e poi Pin “guarda l’uccello morto, in mezzo ai rododendri: e se s’alzasse morto com’è e lo beccasse in mezzo agli occhi?”. Il rimorso per l’uccisione si traduce in vendetta paventata. Il Dritto ordina a Pin di seppellire il falchetto. Si manifesta allora l’intreccio tra il pensiero della fine e quello dell’accoppiamento: “Pin è solo sulla terra. Sotto la terra, i morti. Gli altri uomini, di là dai boschi e dai versanti, si strofinano sulla terra i maschi con le femmine, e si gettano l’uno sull’altro per uccidersi”. Poi l’immaginazione prende il sopravvento e rovescia il quadro: “Verrebbe voglia di buttare il falchetto nella grande aria della vallata e vederlo aprire le ali, e alzarsi a volo, fare un giro sulla sua testa e poi partire verso un punto lontano. E lui, come nei racconti delle fate, andargli dietro, fino a un paese incantato in cui tutti siano buoni”. L’incantesimo dura poco, il lieto fine è solo sfiorato e subito la realtà ritrova tutta la sua forza: “In quel momento scoppia un tuono e riempie la valle: spari, raffiche, colpi sordi ingranditi dall’eco: la battaglia!” Pin per un momento si aspetta di vedere i tedeschi, irti di mitraglie, piombare su di lui. Allora invoca il suo compagno partigiano: “Dritto!” Prende la fuga e continua a chiamare: “Dritto! Giglia!” Corre nel bosco mentre la battaglia, esplosa tutt’a un tratto dal suo sonno, “non si capisce dove sia, forse è a pochi passi da lui”. Viene preso dallo spavento e invoca di nuovo: “Aiuto! Dritto! Giglia!” e ancora: “- Dritto! Giglia!” Niente, nessun segno di vita: “Dritto! Sparano! Sparano!” Finalmente tutto diventa chiaro, all’epilogo della battaglia corrisponde l’epilogo dell’amore: “Là, tra i cespugli, una coperta, una coperta con avvolto un corpo umano che si muove. Un corpo, no, due corpi, escono due paia di gambe, intrecciate, sussultano”. All’inizio della sequenza, la coperta era associata alla morte. Adesso ritorna e avvolge l’amore.

02 aprile 2025

FRANCESCO CARBONE VISTO DA KETTY GIANNILIVIGNI

QUALE ALBA PER GODRANOPOLI? Ketty Giannilivigni Lo scorso febbraio sono stati dati alle stampe i contributi dell’incontro realizzato nel 2023 dal Centro Studi e Iniziative di Marineo e dal Museo delle Spartenze di Villafrati per celebra re i 100 anni dalla nascita di Francesco Carbone (Cirene, Libia, 1923 – Palermo, 1999); si tratta di un’iniziativa editoriale privata in memoria dell’opera di questo poliedrico artista e intellettuale vissuto nello scorso secolo. Nel 2023, a 24 anni dalla morte, il caso riservava una bellissima sorpresa: dietro il dipinto Tramonto ai Tropici di Carbone vennero ritrovate altre quattro opere autografe, «il cui rinvenimento dal corniciaio fu davvero imprevedibile e commovente» – commenta Rosa Corrado, entrata in possesso di alcuni quadri dell’artista per via ereditaria. È alla sua interpretazione di quell’occultamento che è bene prestare attenzione: «L’espressione pittorica individuale e solitaria legata alla giovinezza in Africa – cui i quadri a me pervenuti rinviano […] – è presto abbandonata» perché «il percorso pittorico seguito fino ad allora» appare all’autore «come un darsi a se stesso in una dimensione autoreferenziale» non più concepibile data la sua innata «generosità». Nascondere i primordi creativi nella melanconia di un tramonto appare di per sé un’operazione artistica; anzi, a una rilettura attenta della figura di Francesco Carbone mediante gli scritti presenti nel volume, questo occultamento può svelare i tratti di un modo di vivere ed operare nel mondo di qualità non comune. «Era gentile Francesco, anche se apparentemente burbero e rude nel volto, era acuto osservatore, capace di capire a prima vista le varie personalità, che trattava subito diversamente, secondo le loro caratteristiche e, nel campo dell’arte, conosceva tutti, curioso esploratore di talenti, ma anche benevolo osservatore di minori» – dichiara Anna Maria Ruta nelle pagine introduttive del volume. Chi come me lo ha incontrato, anche se in poche occasioni, non può che fare proprie queste considerazioni: era il lontano 1995, ed eravamo impegnati nella primavera di Palermo per far fronte al rovente clima mafioso nella stagione delle stragi di Stato. In quel momento facevo parte della redazione del periodico Çiumilatu (un fiume che lambisce il territorio di Altofonte ) con sottotitolo “… dove finisce l’acqua del mare”. E dunque in questi attraversamenti di mari e fiumi, di localismi e di ambizioni a travalicare le singole realtà, non fu certo strano se nell’agosto di quell’anno noi della redazione incontrammo altre realtà culturali della provincia di Palermo per avviare un confronto sul tema Cultura e territorio – L’invenzione della tradizione a Godranopoli, che era agli inizi degli anni ’80 dello scorso secolo «il primo Museo interdisciplinare in Italia», realizzato da Francesco Carbone, « luogo della memoria collettiva» che metteva assieme «etnoreperti della cultura agropastorale, una pinacoteca d’arte contemporanea, una raccolta di archeologia industriale, una raccolta di fotografie, una emeroteca e una biblioteca di storia e cultura siciliana» (Calogero Barba). Ma con la scomparsa di Francesco Carbone nel 1999 anche il centro culturale di Godrano si spegneva improvvisamente. Nel 2013 tre giovani ricercatrici (Valeria Sara Lo Bue, Paola Bisulca e Irene Oliveri), prese dalla curiosità, si addentreranno in quel luogo abbandonato: «Il passaggio del tempo era evidente da ogni dettaglio, la ruggine, le ragnatele, gli squittii, e poi ogni cosa ferma alle pareti, sui mobili, per terra, la vecchia macchina da scrivere sulla scrivania, le penne, le matite da temperare, depliant e flyer, manifesti e ciclostile di ogni tipo, risalenti agli anni settanta, ottanta e novanta del ventesimo secolo. Tutto ciò non poteva che suscitare grande fascinazione in noi giovani, appassionati d’arte e discipline umanistiche e da poco laureate alla facoltà di lettere e filosofia […] In prima istanza non sapevamo se intervenire, pulendo e riordinando, o se invece non fosse il caso di lasciare tutto lì al suo posto, nel suo caotico ordine, un assetto che col tempo abbiamo scoperto essere caratteristico degli ambienti creati da Carbone» – ricorda Valeria Sara lo Bue. Nella premessa al volume, Francesco Virga, curatore della pubblicazione, dichiara il desiderio comune alle estimatrici e agli estimatori dell’opera di Francesco Carbone di riaprire Godranopoli e ribadisce con vigore che se l’intento non si dovesse realizzare «tutto quello che è stato fatto» per ricordare Ciccino risulterebbe inutile. E infatti ciascuno/a degli autori degli scritti compresi nella raccolta Francesco Carbone in memoria, nell’esprimere il proprio pensiero sull’operazione culturale realizzata dall’antropologo nella periferia di Godrano, non si esime dall’indicare la propria visione del futuro di Godranopoli. Illuminanti, a tal proposito, appaiono le parole di Nuccio Vara che invita a non ridurre la figura di Carbone all’esperienza, per quanto «esaltante», del museo e quindi a confinarla «entro ambiti riduttivamente territoriali e localistici»; al contrario, sarebbe opportuno interpretarla secondo «modalità più ampie e complesse, cioè istaurando dei nessi dialettici tra l’ultima, grande creazione di Carbone […] e il suo precedente nonché travagliato, percorso intellettuale, artistico e politico». Sarebbe quindi, prosegue Vara, troppo semplicistico «riassemblare gli oggetti scampati miracolosamente alla devastazione per renderli nuovamente fruibili in chiave turistica e/o di valorizzazione […] della cultura locale»; a suo giudizio, appare invece necessario riallestire il museo in modo da «favorire la riscoperta e la réactualisation del patrimonio ideale lasciatoci in eredità da Carbone, problematico nel suo insieme, imponente nella sua totalità». Francesco Carbone era legato a Godrano, il paese d’origine dei genitori, anche se era nato in Libia nel 1923 e era arrivato per la prima volta in Sicilia allo scoppio della seconda guerra mondiale. Da qui si era trasferito in Svizzera per poi fare ritorno a Godrano e in ultimo, dopo essere emigrato in Argentina, negli anni Cinquanta era rientrato definitivamente in Sicilia a Palermo e nella sua Godrano, dove aveva incontrato l’amata moglie Elvira Franco, una maestra con cui condivise progetti culturali, artistici e politici. Per Godranopoli, ad esempio, impiegò le liquidazioni di entrambi (Santi Lombino). Francesco non ebbe figli e alla sua morte – la moglie lo aveva preceduto – non aveva designato eredi. Forse pensava che fosse da arroganti decidere delle cose da dover lasciate su questa Terra? e che fosse più realistico rimetterle al fato? D’altra parte quando promuoveva un/a artista era consapevole che non sarebbe stato di certo lui a decretarne le sorti, il successo o l’oblio ma una serie di congiunture non del tutto imprescindibili dal caso. Carbone durante l’occupazione delle terre Forse l’eredità materiale, immateriale e spirituale di Carbone andrebbe riletta in quel gesto di affidamento al Tramonto ai Tropici delle opere sepolte al di sotto del quadro incorniciato. Un gesto da considerare alla stregua di un messaggio all’interno di una bottiglia dato in custodia alle acque da un naufrago. Ma ci sarà qualcuna/o che rinverrà la bottiglia e il messaggio al suo interno? E nel caso in cui ciò avvenisse questi sarebbe in grado di interpretare la missiva? Per gli esordi artistici di Carbone ciò sembra essere avvenuto, ma si trattava di un messaggio intimo, personale che la fortuna ha voluto venisse raccolto da una donna che ha saputo coglierne il senso e restituirlo alla comunità senza sottovalutare il valore umano, artistico e politico dell’uomo, del ricercatore, dell’intellettuale. Per Godranopoli il discorso è più complesso trattandosi di un potenziale bene culturale comune al momento sottratto alla collettività. Secondo questo punto di vista il progetto del singolo o di pochi altri specialisti ne sminuirebbe la portata culturale e sociale, sarebbe dunque auspicabile, ancor prima di rintracciare una qualsiasi copertura economica, il coinvolgimento di una platea tanto ampia da generare un dibattito pubblico. In definitiva, è da evitare la riduzione di Godranopoli a museo della cultura agropastorale, nella logica della turistificazione imperante e del profitto delle imprese pseudo-culturali, perché equivarrebbe a un vero e proprio tradimento del pensiero e dell’opera di Francesco Carbone. Pezzo ripreso da: https://www.pressenza.com/it/2025/04/quale-alba-per-godranopoli/ Categorie: contenuti originali, Cultura e Media, Educazione, Opinioni Tag: Çiumilatu, etnoreperti della cultura agropastorale, Francesco Carbone, Godranopoli Museo interdisciplinare, invenzione della tradizione, recensioni Ketty Giannilivigni Scrittrice e saggista, femminista e sociologa della moda. Ha collaborato con varie riviste ("Salvare Palermo", "Ciumelato", "Mezzocielo", "Segno") e testate online come "NoteBlock" e "Mediterraneo di Pace". Inoltre è stata fra i fondatori del Comitato sui Beni comuni "Stefano Rodotà" di Palermo.

IL PROSSIMO 9 APRILE AL CENTRO CULTURALE BIOTOS di PALERMO

Mercoledì 9 aprile 2025, ore 17, al CENTRO CULTURALE BIOTOS di Palermo, via XII GENNAIO n.2, ALDO GERBINO, NUCCIO VARA e FRANCO VIRGA presentano un libro in memoria di FRANCESCO CARBONE.