09 gennaio 2025

QUEL CHE PASOLINI DEVE A GRAMSCI

 


Gramsci e Pasolini, un dialogo di affinità politiche e intellettuali

317745661_2395589693922414_7809023686731561198_ndi Francesco Virga

L’ anno scorso sono stati pubblicati gli Atti di un importante Convegno di studi, svoltosi a Casarsa della Delizia (UD), intitolato: Il Gramsci di Pasolini. Lingua, letteratura e ideologia, a cura di Paolo Desogus (Marsilio Editori, Venezia 2022). Il curatore degli Atti, pur rilevando che tra i tanti che hanno influito sull’opera di Pasolini «pochi, anzi pochissimi sono stati rilevanti quanto Antonio Gramsci», ha dovuto riconoscere che «il confronto con Gramsci rappresenta ancora oggi una lacuna nella critica pasoliniana» [1]. Il Convegno si prefiggeva di colmare questa lacuna e, visti gli Atti, si può certamente considerare raggiunto l’obiettivo prefisso.

Pasolini e Gramsci: un’ostinata fedeltà

Paolo Desogus ha dato questo titolo alla sua relazione introduttiva sostenendo, sulle orme di Gianfranco Contini, che il rapporto di Pasolini con Gramsci – «Con te e contro te», espressione che si trova nelle famose Ceneri di Gramsci del poeta bolognese – è stato problematico fin dal principio. D’altra parte Pasolini cita per la prima volta Gramsci, in modo sommario, soltanto nel 1952, introducendo la sua antologia sulla poesia dialettale del 900.

ac79e0eb-df3f-46d7-88d5-2065280db6c0L’opera di Antonio Gramsci (1891-1937), come è noto, è postuma e comincia a circolare in Italia soltanto dopo la pubblicazione della prima edizione delle Lettere (1947) e dei Quaderni del carcere (1948-1951) nell’ edizione tematica voluta da Togliatti. Pasolini soltanto a partire dal 1960 mostra in modo chiaro di padroneggiare le categorie gramsciane. Forse anche per questo lo studio dell’influenza del pensatore sardo sull’autore corsaro è stata a lungo trascurata.

 Ma la vera ragione di questa distrazione, secondo Desogus, è dovuta alla particolare ricezione di Gramsci in Italia e al tortuoso percorso del marxismo negli studi letterari che, «proprio mentre esplodeva l’interesse critico verso Pasolini, hanno subìto la forte attrazione del post-strutturalismo, del pensiero debole e di altre tendenze molto distanti dai Quaderni del carcere» [2] .

É probabile che, in un primo momento, Pasolini sia rimasto colpito dalla statura morale dell’uomo chiuso in carcere dal regime fascista. Statura che emerge fin dalla prima edizione del suo epistolario che nel 1947 ha un successo straordinario di pubblico e di critica. Basti ricordare la recensione entusiastica che ne fece Benedetto Croce e il Premio Viareggio.  

A Pasolini il comunista sardo appare «tanto più libero quanto più segregato dal mondo, in una situazione suo malgrado leopardiana, ridotto a puro ed eroico pensiero» [3]. L’immagine di un Gramsci leopardiano torna in un passaggio centrale dell’intervista rilasciata ad Arbasino nel 1963, dove afferma: «L’unico antenato spirituale che conta è Marx e il suo dolce, irto, leopardiano figlio, Gramsci» [4].

9788811688921_0_536_0_75È certo, comunque, che nei suoi primi anni friulani (1946-1949), pur avendo letto poco o nulla di Gramsci, nel dirigere la sezione del PCI di un paesino friulano, partecipa a quella che Ernesto De Martino ha definito l’«irruzione nella storia del mondo popolare subalterno» dando il suo originale contributo alle lotte bracciantili di quegli anni, come mostrano alcune pagine del suo Sogno di una cosa [5].

Desogus ricorda opportunamente anche una significativa testimonianza di Pasolini di vent’anni dopo, laddove il poeta afferma che il suo interesse per Gramsci, oltre che a ragioni teoriche, era legato all’importanza che lui attribuiva al mondo contadino nella prospettiva rivoluzionaria.

Ma a spiegare ancora meglio le ragioni per cui, dopo gli anni ottanta del 900, gli studi pasoliniani hanno ignorato quasi del tutto i debiti di Pasolini verso Gramsci, è soprattutto «l’egemonia neoliberale» che si afferma in Italia e in Europa dopo il 1989. Si assiste, infatti, allora, osserva giustamente Desogus, ad «una vera e propria smobilitazione, accompagnata da riposizionamenti e persino da abiure»; così nel nostro Paese tanti ex comunisti arrivano a considerare lo stesso Gramsci «un vecchio rottame del passato» [6]. Eppure, malgrado tutto, dopo il crollo del muro di Berlino e dell’URSS, Gramsci ha mostrato una resistenza imprevista ed ancora oggi, nel mondo intero, rimane uno dei pochi marxisti letto e studiato [7]. Da qui la recente ripresa d’interesse per l’opera aperta di Antonio Gramsci e la nuova attenzione sui debiti di Pasolini nei suoi confronti di cui è documento il libro che stiamo esaminando.

Il contesto

L’ Introduzione di Paolo Desogus è seguita dalle relazioni di Francesco Giasi e Angelo d’Orsi che si soffermano ad analizzare il contesto storico in cui avvengono i primi incontri tra le opere di Gramsci e quelle di Pasolini. Giasi dirige la Fondazione Gramsci dal 2016 ed è membro della Commissione scientifica dell’Edizione Nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci tuttora in corso di stampa. Lo studioso ricostruisce attentamente la storia delle prime edizioni delle opere del sardo e la loro risonanza in Italia dal 1945 al 1975, soffermandosi anche sui punti meno noti e più controversi. Ad esempio, appare interessante la ricostruzione della contesa tra socialisti e comunisti sulla preziosa eredità di Gramsci negli anni suddetti [8]. E fa bene a rilevare l’originalità del marxismo gramsciano che, nei primi terribili anni trenta del secolo scorso, non esita a criticare un autorevole esponente del marxismo-leninismo sovietico [9].

30165032402Allo storico delle idee Angelo d’Orsi, autore di una recente biografia gramsciana, nel corso del Convegno, è stato affidato il compito di analizzare il contesto in cui Pasolini scrive le sue celebri Ceneri di GramsciD’Orsi ricorda la rivolta ungherese del 1957, scoppiata negli stessi mesi in cui Pasolini pubblica le sue Ceneri. L’allineamento dei comunisti italiani alla reazione sovietica provocherà tante polemiche e l’allontanamento dal PCI di Togliatti di tanti intellettuali. D’Orsi non manca di rilevare la passione linguistica di Pasolini che lo conduce a scoprire quella di Gramsci e dà anche il giusto rilievo alla rivista “Officina”, creata da Pasolini nel 1955 insieme a Roberto Roversi e Francesco Leonetti.

Lingua e popolo

La relazione del linguista Stefano Gensini ha occupato un posto centrale sia nel Convegno che nel libro che ne raccoglie gli Atti. Gensini dimostra come l’analisi gramsciana del linguaggio, che attraversa tutti i suoi Quaderni, è stata la via principale che ha permesso a Pasolini di fare suo il pensiero di Gramsci. É lo stesso Pasolini, infatti, a richiamare più volte nei suoi scritti un principio fondamentale del pensatore sardo: «ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua significa che si sta imponendo una serie di altri problemi» [10].

La lingua d’altronde non si riduce al linguaggio in senso stretto; la lingua, per Gramsci, è anche «cultura e filosofia (sia pure nel grado di senso comune), […] molteplicità di fatti più o meno organicamente coerenti e coordinati» in modo tale che «al limite ogni essere parlante ha un proprio linguaggio personale, cioè un proprio modo di pensare e di sentire» [11].

L’ incontro con i Quaderni del carcere di Gramsci dà a Pasolini la chiave di accesso ad un marxismo e a un comunismo diverso di quello che aveva amaramente sperimentato da giovane con l’assassinio del fratello partigiano e l’espulsione dal PCI per indegnità morale e politica. Pasolini trova teorizzato nei Quaderni un modo di porsi dell’intellettuale rispetto al popolo molto vicino alla sua personale sensibilità.

Fin dalle prime righe del Quaderno 11 (riportate nell’edizione Platone-Togliatti all’inizio del Materialismo storico) Gramsci insiste sull’idea che ogni essere umano, storicamente determinato, sia portatore di una sua filosofia, per quanto disorganica, fatta essenzialmente di senso comune. É questa la base sulla quale deve innestarsi ogni tentativo di portare le classi subalterne a una coscienza critica. Ma farlo non è facile perché «una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche consiste appunto nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i semplici e gli intellettuali» [12]. A tal fine l’intellettuale deve riuscire a far proprio, con passione e convinzione, il punto di vista delle classi subalterne. Scrive infatti Gramsci:

«L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato […], cioè che l’intellettuale possa esser tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo comprendendole e quindi spiegandole  e giustificandole nella determinata situazione storica e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata;  non si fa politica-storia senza questa passione, senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico e formale» [13].       

asor-rosa-scrittori-e-popolo-1200x1811Questo passo dei Quaderni, condiviso pienamente da Pasolini, negli anni sessanta del secolo scorso venne frainteso da tanti; Alberto Asor Rosa ne fece persino la caricatura arrivando ad accusare i due di populismo [14]. Laddove, osserva giustamente Gensini, si trattava – soprattutto in Gramsci – esattamente del contrario.

Nella parte finale della sua relazione Gensini si sofferma ad analizzare gli scritti linguistici di Pasolini del 1964-1965, tra i più gramsciani dell’intera opera sua, e di quella parte degli Scritti corsari (1973-1975) imperniati sull’analisi del linguaggio e del comportamento giovanile.

A metà degli anni sessanta con una conferenza intitolata Nuove questioni linguistiche, il cui testo venne pubblicato sul settimanale comunista Rinascita, Pasolini colse in alcuni segni del mutato linguaggio politico nazionale l’inizio di un profondo cambiamento della società italiana.  Ancora una volta il poliedrico scrittore venne frainteso e frontalmente attaccato da linguisti e sociologi che vedevano invaso il loro campo da un dilettante privo di autorità. Ma a parte il fatto che Pasolini, in successivi interventi, ridimensionò la portata delle sue affermazioni, osservando di aver voluto indicare soltanto delle linee di tendenza che confermavano l’intuizione gramsciana sulla stretta relazione esistente tra cambiamenti economici e sociali e cambiamenti culturali e linguistici, Gensini finisce per dare ragione a Pasolini che seppe cogliere in anticipo la profonda trasformazione della società italiana.

Le successive letture semiologiche, antropologiche e psicoanalitiche compiute dallo scrittore corsaro nei primi anni settanta, secondo Gensini, non contraddicono il suo precedente approccio gramsciano ai problemi ma lo aggiornano. Così gli interessi semio-linguistici dell’ultimo Pasolini si innestano sulla base gramsciana dando nuovi e più affinati strumenti a quella attenzione verso il senso comune e la cultura popolare.

318001143_2395589747255742_7549286445050475905_nIl linguaggio del comportamento offre dunque un nuovo immenso scenario per leggere quel che si muove nei processi egemonici del presente e che sfugge alle analisi condotte in termini angustamente economico-politici. Un caso esemplare dell’applicazione di questo metodo è l’articolo che pubblica il 7 gennaio 1973 sul Corriere della Sera a proposito dei capelloni.

Che Pasolini non avesse comunque dimenticato Gramsci è dimostrato dall’ultimo suo intervento pubblico, in un Liceo di Lecce, qualche giorno prima di essere brutalmente tolto dalla circolazione. Allora Pasolini, senza smentire il suo spirito critico, ha esortato i presenti a non imbalsamare la lezione gramsciana e a cercare insieme «un nuovo modo di essere gramsciani» [15].

Non riprendo le altre relazioni raccolte in questo bel volume perché sostanzialmente non aggiungono né tolgono nulla alle tesi fin qui esposte. Permettetemi solo di ringraziare Stefano Gensini per aver ricordato il saggio Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini, pubblicato 12 anni fa su Quaderns d’Italia, una rivista dell’Università di Barcelona [16]. Il primo capitolo di quel saggio s’intitolava Il Gramsci di Pasolini, e fa piacere vedere che, con lo stesso titolo, due lustri dopo una nuova generazione di studiosi si sono raccolti per riflettere sull’eredità di due protagonisti del nostro 900.                                                

FRANCESCO  VIRGA          

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] DESOGUS, Paolo in Aa.Vv.  Il Gramsci di Pasolini. Lingua, letteratura e ideologia, Marsilio Editori, Venezia 2022: IX
[2] Ivi:4-5.
[3] PASOLINI Pier Paolo, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960:487 e DESOGUS in op. cit.; 13.
[4] PASOLINI, Intervista rilasciata ad Alberto Arbasino nel 1963, ora in Saggi sulla politica e la società, Mondadori Meridiani 1999: 1573.
[5] DESOGUS, cit.: 7.
[6] Ivi:5.
[7] Ibidem.
[8] GIASI Francesco, La ‘risonanza’ degli scritti di Gramsci. Edizioni e letture dal 1945 al 1975, in op. cit.:37-59.  
[9] Giasi si riferisce alla famosa critica gramsciana al materialismo volgare di N. Bucharin, cit.: 45
[10] GRAMSCI, Q. 29: 2346.
[11] GRAMSCI, Q.11: 1330.
[12] Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Editori Riuniti, Roma 1971: 9. Questa edizione riproduce la prima edizione tematica del dopoguerra pubblicata da Einaudi. Pasolini non fece in tempo a vedere l’edizione critica dei Quaderni stampata qualche mese prima del suo assassinio.
[13] Ivi:13. Celebre passo dei Quaderni che Gensini riproduce per esteso
[14] Asor Rosa, Scrittori e popolo, Samonà&Savelli, Roma 196,
[15] Gensini Stefano, cit.:108.
[16] Stefano Gensini cita il mio saggio in una ampia nota di p.87.

08 gennaio 2025

L' AFFAIRE MORO DI SCIASCIA RILETTO DOPO 40 ANNI


Rileggere “L’Affaire Moro” di Leonardo Sciascia

coverdi Francesco Virga 

«Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato è vivo, forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi» [1] (L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio 1978: 63). 

L’affaire Moro di Leonardo Sciascia viene pubblicato nell’autunno del 1978, qualche mese dopo l’orribile strage della scorta di Aldo Moro, del suo sequestro e successivo assassinio. Il libro viene letto distrattamente da tanti (me compreso) e stroncato da due grandi giornalisti [2]. Apparve frutto di una mente delirante dopo che stampa e tv erano riuscite a convincere l’opinione pubblica che le lettere di Moro non erano state scritte da Moro.

Rileggerlo dopo 44 anni scuote più di quanto non riuscì a fare nel momento in cui vide la luce. Adesso che si sa molto di più sull’accaduto, dopo diversi processi penali, inchieste parlamentari e tanti libri [3] pubblicati sul tema, appare ancora più straordinaria questa singolare opera di Sciascia. Anche se non tutto convince, come vedremo più avanti, impressiona ancora oggi l’acuta e originale analisi delle lettere di Moro compiuta dallo scrittore siciliano [4], in assoluta solitudine, quando tanti preferirono chiudere occhi e cervello.

Sciascia finisce di scriverlo, come si evince dalla data del dattiloscritto, il 24 agosto del 1978. Convinto di avere una bomba in mano, arriva persino a dubitare di poterlo stampare in Italia. Per questa ragione, prima ancora di parlarne con l’editore palermitano Sellerio, si reca a Parigi per accertare che l’editore Grasset sia disponibile a stamparlo in lingua francese. 

Appare utile, per meglio comprendere L’affaire Moro, tenere presente il contesto che lo prepara: nel maggio 1977, presso la Corte di Assise di Torino, inizia il processo contro Renato Curcio e alcuni presunti capi storici delle Brigate rosse. Nell’occasione alcuni membri della giuria popolare rinunciano al mandato di giudicare gli imputati. Pochi giorni dopo, in un’intervista, Eugenio Montale ne giustifica il comportamento condividendo il sentimento di insicurezza dominante in quel periodo in Italia. Si avvia così un’aspra polemica giornalistica circa il coraggio e la viltà degli intellettuali che avrà in L. Sciascia e in G. Amendola i contendenti maggiori [5].

Bologna, manifestazione del Movimento 77

Bologna, manifestazione del Movimento 77

Qualche mese prima, esattamente nel febbraio 1977, all’Università di Roma viene contestato il leader sindacale Luciano Lama; nel mese successivo, dopo un violento scontro tra studenti e polizia nel centro di Bologna, viene ucciso il militante di Lotta Continua Francesco Lorusso. Sono questi, sommariamente, gli esiti più drammatici del cosiddetto Movimento del ‘77 che, tra strette repressive della magistratura inquirente, chiusura di radio sospette di fomentare l’illegalità, si protrarrà per almeno un biennio. Di un tale clima è frutto l’Appello degli intellettuali francesi del luglio 1977, in cui si chiede la «liberazione immediata di tutti i militanti arrestati, la fine della persecuzione e della campagna di diffamazione contro il movimento e la sua attività culturale». L’Appello – predisposto da Maria Antonietta Macciocchi già direttrice del periodico comunista degli anni sessanta Vie Nuove, dove Pasolini scrisse alcuni dei suoi pezzi più belli – viene sottoscritto, tra gli altri, da J. P. Sartre, M. Foucault, R. Barthes, G. Deleuze e F. Guattari. 

In questo contesto Sciascia scrive il libro che arriva in tutte le librerie italiane e francesi nell’ottobre del 1978. Oggi sarebbe stato considerato un instant book perché il suo contenuto riguarda quanto accaduto in Italia nei 55 giorni del sequestro Moro, dopo la strage della scorta, avvenuta a Roma il 16 marzo 1978. 

A prima vista siamo di fronte ad un pamphlet, il cui titolo richiama immediatamente alla memoria il celebre libretto di Emile Zola che tanto clamore suscitò alla fine dell’Ottocento. Ma basta leggerne le prime righe per capire che si tratta di ben altro. I primi due capitoli, i più letterari dell’opera, sono dominati e illuminati da due scrittori particolarmente amati dallo scrittore siciliano: Pasolini e Borges. 

9788855290425_0_424_0_75Come ha ben visto Massimo Onofri siamo di fronte a un libro profondamente sciasciano: in esso convergono «quella contro-storia d’Italia tracciata dalle Parrocchie in poi» e il dialogo con la tradizione letteraria universale (Borges, Manzoni, Tolstoj, Stendhal, per citare solo alcuni dei nomi a lui più cari), intesa come «sistema trascendentale, repertorio di possibilità, della verità» [6]. Acuta ci appare anche la lettura che ne ha fatto il critico più amato dall’autore, Claude Ambroise, secondo cui il libro è un vero e proprio saggio sulla tragedia e sugli equivoci generati dal linguaggio e dalla comunicazione umana [7]. D’altra parte, in quasi tutti i libri di Sciascia, si sono sempre intrecciati generi diversi. Ma in questo lo stile saggistico prevale nettamente su quello narrativo. 

Il prologo pasoliniano 

Nelle prime sei pagine de L’affaire Moro Sciascia riprende letteralmente brani interi del famoso articolo Il vuoto di potere in Italia, pubblicato da Pasolini sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975, raccolto successivamente nei suoi Scritti corsari col titolo L’articolo delle lucciole. E sembra che sia stata proprio una lucciola intravista nella crepa del muro della sua casa di campagna, alla Noce di Racalmuto, a fargli tornare alla mente Pasolini: 

«Era proprio una lucciola […]. Ne ebbi una gioia immensa. E come doppia. [...]. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia, i ricordi, […] – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo terribile paese che l’Italia è diventato, mutato in se stesso […]. Fraterno e lontano, Pasolini per me. Di una fraternità senza confidenza, schermata di pudori e, credo, di reciproche insofferenze» [8]. 

92a909ae-b609-4df5-85f6-6164e4b62ae9_largeL’amicizia tra Pasolini e Sciascia nasce nei primi anni cinquanta del secolo scorso. Un’amicizia scaturita dal comune interesse per le diverse forme della poesia popolare e dialettale nazionale. Non a caso sarà proprio Pasolini a introdurre uno dei primi libri dello scrittore siciliano dedicato alla poesia romanesca e quest’ultimo ad ospitarlo nella rivista nissena “Galleria” nei primi anni cinquanta. L’intesa e la reciproca collaborazione tra i due scrittori si allenta negli anni sessanta per riaccendersi nel decennio successivo, fino agli ultimi giorni di vita di Pasolini. Da qui deriva il rammarico espresso da Sciascia di non aver fatto abbastanza per mostrare all’amico quanto egli si sentisse vicino al suo modo di pensare [9]. 

Le lucciole conducono Sciascia a ripensare all’altra famosa metafora pasoliniana: il Palazzo. Pasolini voleva processare il Palazzo, ossia la classe dirigente democristiana, responsabile ai suoi occhi di aver manipolato il denaro pubblico, di aver trafficato con la mafia, di avere distrutto il paesaggio e di aver fatto un uso illecito dei Servizi Segreti, coprendo i responsabili delle stragi di Milano, Brescia. Pasolini arriverà a chiedere un vero e proprio «processo penale» contro i dirigenti nazionali della DC [10]. 

Sciascia sottolinea, inoltre, che il famoso articolo pasoliniano sulle lucciole si apre con la perentoria affermazione secondo la quale «il regime democristiano» è «la pura e semplice continuazione del regime fascista» (AM:15) – tesi questa, in più occasioni, ripresa e condivisa dal nostro autore.

Ancora più significativa appare la citazione di un altro testo fondamentale di Pasolini della metà degli anni sessanta, forse uno dei più gramsciani dello scrittore bolognese, notato da Sciascia fin dal 1965 sulle pagine del giornale palermitano L’ORA, in un corsivo intitolato La lingua di Moro: 

«L’onorevole Moro è un uomo politico meridionale: il che è abbastanza, ma vale la pena di sottolinearlo, se Pasolini si riferisce a un suo testo come alla carta di Capua della lingua che nasce sull’asse Milano-Torino. E dell’uomo politico meridionale ha tutte le qualità e principale quella del non dire. Fino a ieri, il classico modello dell’oratoria politica meridionale poteva considerarsi il discorso che il principe di Francalanza rivolge ai suoi elettori nei Viceré di Federico De Roberto […]. Genialmente, bisogna riconoscerlo, l’onorevole Moro ha inventato un più rigoroso, quasi scientifico non dire. È sua, se non ricordo male, la trovata delle convergenze parallele che non significano assolutamente niente, né nella logica astratta né in quella delle cose concrete» [11]. 

Sciascia era rimasto talmente colpito dal linguaggio di Moro, e dall’analisi che ne aveva fatto Pasolini nel 1965, da tornarci 13 anni dopo in questo prologo de L’affaire Moro: 

«Pasolini aveva parlato del linguaggio di Moro in articoli e note di linguistica (e si veda il libro Empirismo eretico [12]). […]. “Come sempre – dice Pasolini – solo nella lingua si sono avuti dei sintomi”. I sintomi del correre verso il vuoto di quel potere democristiano che era stato, fino a dieci anni prima, “la pura e semplice continuazione del regime fascista”. Nella lingua di Moro, nel suo linguaggio completamente nuovo e però, nell’incomprensibilità, disponibile a riempire quello spazio da cui la Chiesa cattolica ritraeva il suo latino proprio in quegli anni. [...]. Pasolini non sa decifrare il latino di Moro, quel “linguaggio completamente nuovo”: ma intuisce che in quella incomprensibilità, […], si è stabilita una “enigmatica correlazione” tra Moro e gli altri; tra colui che meno avrebbe dovuto cercare e sperimentare un nuovo latino (che è ancora il latinorum che fa scattare d’impazienza Renzo Tramaglino) e coloro che invece necessariamente, per sopravvivere sia pure come automi, come maschere, dovevano avvolgervisi. In questo breve inciso di Pasolini – “per una enigmatica correlazione” – c’è come il presentimento, come la prefigurazione dell’affaire Moro. Ora sappiamo che la “correlazione” era una “contraddizione”: e Moro l’ha pagata con la vita. Ma prima che lo assassinassero, è stato costretto, si è costretto, a vivere per circa due mesi un atroce contrappasso: sul suo “linguaggio completamente nuovo”, sul suo nuovo latino incomprensibile quanto l’antico. Un contrappasso diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata»[13]. 

Letteratura e storia. Borges, Pasolini e le ossessioni di Sciascia 

Indubbiamente la grande letteratura ha aiutato spesso a comprendere le cose e la stessa verità storica dei fatti più di tanti libri di storia, di sociologia e di scienza della politica. Sciascia ne è stato sempre consapevole e, in una intervista rilasciata a un celebre giornale francese, ha ben sintetizzato il suo punto di vista: 

«Credo che all’uomo – all’uomo umano – non resti che la letteratura per riconoscersi e riconoscere la verità. Il resto è macchina, è statistica, è totalitarismo. È il sistema della menzogna: la grande mostruosa macchina che ingoia tante verità per restituirle in menzogna. E lo Stato finirà per identificarsi in questa macchina, se non si è già identificato. Non avrà niente a che fare con l’uomo, con la nozione dell’uomo che ancora abbiamo e che troviamo nella letteratura» [14]. 

Ma Sciascia ne L’affaire Moro, ripensando a due suoi precedenti racconti, Il Contesto Todo modo, scritti nei primi anni settanta, afferma che con essi era riuscito a prevedere quanto accaduto in Italia negli anni successivi (le cosiddette Stragi di Stato di Milano, Brescia, Bologna, ecc. compresa la strage di via Fani e il sequestro Moro) [15].

Qui diventa opportuno ricordare la recensione fatta proprio da Pasolini di Todo modo che, evidentemente, ha tanto influenzato Sciascia. In un passaggio di essa lo scrittore corsaro afferma: 

«Questo romanzo giallo metafisico di Sciascia (scritto tra l’altro magistralmente, come diranno i futuri critici letterari ad usum Delphini, perché Todo modo è destinato a entrare nella storia letteraria del Novecento come uno dei migliori libri di Sciascia) è anche, credo, una sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso, con un’aggiunta finale di cosmopolitismo tecnocratico (vissuta però solo dal capo, non dalla turpe greggia alla greppia). Si tratta di una metafora profondamente misteriosa, come ricostituita in un universo che elabora fino alla follia i dati della realtà. I tre delitti sono le stragi di Stato, ma ridotte a immobile simbolo. I meccanismi che spingono ad esse sono a priori preclusi a ogni possibile indagine, restano sepolti nell’impenetrabilità della cosca, e soprattutto nella sua ritualità» [16]. 

s-l1600Che questa lettura pasoliniana di Todo modo abbia suggestionato Sciascia è indubbio. I suoi amici romani riferiscono che, nei 55 giorni del sequestro Moro, Sciascia era davvero ossessionato dall’idea che l’immaginazione e la scrittura abbiano straordinari poteri creativi [17]. 

Nel libro che stiamo analizzando lo stesso autore, facendo riferimento ad un racconto di Borges contenuto nelle sue Ficciones (Pierre Menard, autore del Chisciotte), scrive: 

«come il Don Chisciotte, l’affaire Moro si svolge irrealmente in una realissima temperie storica e ambientale. Allo stesso modo che don Chisciotte dai libri della cavalleria errante, Moro e la sua vicenda sembrano generati da una certa letteratura. Ho ricordato Pasolini. Posso anche – non rallegrandomene ma nemmeno rinnegandoli – ricordare due miei racconti, almeno due: Il contesto Todo modo […]. Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la verità – […] – sembrò generata dalla letteratura»[18]. 

Il critico Massimo Onofri ha intravisto in queste parole di Sciascia un nuovo modo di intendere la letteratura che, invece di rispecchiare la realtà, profeticamente la crea [19]. Ancora più discutibile mi sembra il punto di vista di Bruno Pischedda secondo il quale lo scrittore siciliano ha ripreso da Pasolini l’«attitudine vaticinante, il piacere inorgoglito del presentimento e della prefigurazione» [20]. Credo che, se si vuole davvero cercare di comprendere il valore di quest’ opera, occorre evitare gli opposti estremismi dell’esaltazione e della denigrazione. Dal punto di vista strettamente letterario non credo che si tratti del capolavoro dello scrittore siciliano. Vale la pena, al riguardo, ripetere quanto scrisse lo stesso Sciascia contro Eugenio Scalfari che, subito dopo le prime anticipazioni giornalistiche del contenuto del libro ancora inedito, ne elogiava ipocritamente la forma letteraria per contestarne meglio il contenuto; al giornalista il maestro di Racalmuto replicò così: «Ma è possibile […] che il libro non abbia qualità letterarie; che sia soltanto una nuda e dura ricerca della nuda e dura verità» [21].

Penso, inoltre, che sia sbagliato ritenere che Sciascia, con questo libro, abbia cambiato il suo modo d’intendere la letteratura. Il pregio maggiore de L’affaire Moro, secondo me, va ricercato soprattutto nel coraggio mostrato dall’autore di andare controcorrente nell’interpretazione delle lettere scritte da Moro durante il suo sequestro, dimostrando ancora una volta di non avere mai avuto timore di contrapporsi a qualsiasi potere costituito [22]. E sta qui una delle cifre distintive dell’intera produzione letteraria di Leonardo Sciascia, come è dimostrato anche da una intervista rilasciata negli stessi giorni in cui scrive L’affaire Moro: 

«Le fa piacere passare per uno scrittore impegnato? (Domanda dell’intervistatore)
Certo, io mi sento “impegnato”: ma con me stesso e con gli altri “me stessi”. I due più grandi scrittori impegnati che io conosco sono André Gide e Georges Bernanos, ed essi lo furono veramente, fino in fondo. Tuttavia, il primo, che si sentiva comunista, scrisse la verità sull’Unione Sovietica, e il secondo, che era cattolico, scrisse contro il mondo cattolico che esaltava la crociata di Franco. Ben vengano dunque gli intellettuali impegnati, ma purché si battano sempre contro il Principe, contro i Poteri, contro le Chiese, anche se si tratta di quelle in cui credono» [23]. 

Sono sempre più convinto che la cosa meno sciasciana da fare di fronte a tutti i suoi libri è quella di prendere per verità assolute tutte le sue affermazioni, le sue opinioni, i suoi giudizi politici, storici e letterari. Credo che non sia mai stato ben compreso il senso pirandelliano di quella sua famosa affermazione: «vorrei che nella mia tomba venissero scritte queste parole: contraddì e si contraddisse» 

aldo_moro_brL’analisi critica delle lettere di Moro. Sciascia diviso tra filologia e ideologia 

Sciascia non ha dubbi sull’autenticità delle lettere scritte da Moro durante la sua detenzione nella cosiddetta “prigione del popolo”. Moro naturalmente sa di essere usato dai suoi carcerieri e di non potere, pertanto, scrivere tutto quello che vuole. Allora si autocensura «adattando alla funzione del dire il suo antico linguaggio del non dire» [24]. Lo scrittore siciliano, pur non avendo mai stimato né provato alcuna simpatia per l’uomo politico, di fronte al prigioniero inerme, di fronte all’«uomo solo, tradito, dato per pazzo dai suoi stessi amici»[25], prova pietà e intravede nelle lettere che i suoi carcerieri gli consentono di scrivere la disperata ricerca di salvare la sua vita.

Sciascia nell’occasione dimostra una lucidità straordinaria. Quasi da solo, grazie alla sua antica e radicata diffidenza nei confronti dello Stato e di ogni forma di potere costituito, comprende le ragioni che spingono Moro, rinchiuso nella prigione del popolo «sotto un dominio pieno e incontrollato» (AM: 50), a cercare, con la sua collaudata arte del dire e non dire, una via per salvarsi; e comprende benissimo il doppio gioco dei brigatisti che fanno finta di consentire al prigioniero di scrivere in modo riservato quelle lettere per sputtanarlo.

Tutto questo Sciascia lo comprende subito dopo la prima lettera indirizzata al Ministro degli Interni Francesco Cossiga (definito capo degli sbirri nel comunicato delle BR che accompagna la lettera) che gli stessi brigatisti rendono pubblica, inviandola in più copie ai principali quotidiani nazionali. Sciascia, prima di analizzare il testo della lettera di Moro, è colpito da un passo del messaggio delle BR (il cosiddetto terzo comunicato dalla prigione del popolo) che riproduce: 

«Ha chiesto di scrivere una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana) al governo ed in particolare al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome niente deve essere nascosto al popolo ed è questo il nostro costume, la rendiamo pubblica» [26]. 

Moro, secondo Sciascia, non è mai stato uno statista ma un mediocre politicante. E le stesse lettere che invia alla famiglia e ai suoi amici di Partito stanno a dimostrarlo. Ma la vera ragione per cui Sciascia stima poco Moro è dovuto principalmente al severo giudizio ch’egli, in tutti i suoi precedenti libri e in tutta la sua attività giornalistica, ha sempre espresso sul partito di cui Moro è stato uno dei massimi dirigenti.

9788893448840_0_536_0_75Al riguardo merita di essere ricordato un particolare riferito da Matteo Collura nella sua eccellente biografia del maestro di Racalmuto. Il giornalista racconta in maniera documentata che Sciascia apprende la notizia del rapimento di Moro e della strage di via Fani in casa di amici siciliani che avevano un vivo ricordo delle polemiche suscitate tanti anni prima dalla candidatura di don Peppino Genco Russo nelle liste locali della Democrazia Cristiana di Mussomeli (CL). In quel periodo Moro era Segretario Nazionale del Partito e venne personalmente investito dalle polemiche perché, dopo aver declinato ogni responsabilità e competenza sul caso specifico, ebbe l’imprudenza di affermare che «non sembra che ci sia qualcuno disposto ad affermare e a provare quanto si addebita a Genco Russo» [27]. Chi non poteva avere dubbi sul carattere mafioso del padrino di Mussomeli, erede di Don Calò Vizzini, era proprio Sciascia che nel 1965 aveva avuto modo di intervistarlo per conto del settimanale Mondo nuovo [28]. Comunque, dopo le polemiche, Genco Russo venne giudicato socialmente pericoloso e allontanato dalla Sicilia. 

L’analisi critica compiuta da Sciascia delle lettere scritte da Moro nel periodo del suo sequestro, parzialmente pubblicate dalla stampa, è davvero esemplare. Particolare attenzione il nostro autore presta ad una lettera proveniente dalla «prigione del popolo», pubblicata dai giornali il 10 aprile 1978, che lascia intravedere una chiave di lettura de L’affaire Moro completamente diversa da quella accreditata dall’opinione pubblica e, almeno in parte, dallo stesso scrittore.  La lettera viene riprodotta quasi integralmente nelle pp. 68-72 del libro, riconoscendone immediatamente l’autenticità e l’importanza, in polemica con Montanelli, Antonello Trombadori e un gruppo di «amici di Moro» che ripetono di non riconoscere nella lettera il Moro che hanno conosciuto.

A prima vista il documento sembra un attacco personale di Moro al senatore Taviani, uno dei principali esponenti della DC contrari all’ipotesi di trattare con le BR; una delle tante polemiche interne tra le correnti democristiane cui quel partito ci aveva abituati. Nella lettera si ricostruisce sommariamente la carriera politica del senatore che, nel periodo in cui era stato Ministro della Difesa e dell’Interno, aveva avuto contatti frequenti con il «mondo americano» e con «Centri di potere e diramazioni segrete» (AM: 71). Alla fine della lettera Moro si pone una domanda inquietante: «Vi è forse, nel tener duro contro di me, una indicazione americana e tedesca?» (AM:74). 

Insomma, leggendo attentamente la lettera, sembra che lo stesso Aldo Moro sia arrivato a sospettare «interferenze di ambienti americani» nel suo sequestro. Sciascia lascia cadere la pesante domanda di Moro senza trarne tutte le conseguenze; si limita soltanto ad osservare: 

«se Moro formalmente, retoricamente, se lo domanda, non vuol dire che sostanzialmente ne è certo? E dunque l’azione delle BR – nell’aver catturato Moro, nel tenerlo prigioniero – corrisponde anche a un disegno americano e tedesco, vi concorre involontariamente, casualmente lo agevola o addirittura ne è parte?» (AM: 74-75). 

9788835981220_0_536_0_75Sciascia non va oltre questi punti interrogativi. Ma l’ipotesi della regia e della diretta partecipazione dei servizi segreti americani nell’affaire Moro sarà ripresa vent’anni dopo da un Magistrato, fratello di Aldo Moro [29]. Né può essere dimenticata la testimonianza della vedova Eleonora Moro che, di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, affermerà candidamente che l’assassinio del consorte «è stato deciso molto in alto», convinta che le BR hanno soltanto svolto l’apparente funzione di esecutori e manovali di morte [30] . 

È strano che Sciascia su questo punto appaia evasivo e finisca per contraddirsi. Infatti, dimenticando quanto affermato precedentemente, sposta la sua attenzione critica dalla DC al PCI, accusando quest’ultimo d’essere stato il principale ostacolo ad una trattativa con le BR che potesse salvare la vita di Moro. Così nella parte finale del libro la polemica e la critica al partito comunista di Enrico Berlinguer supera in veemenza quella contro la DC. Deve aver pesato sicuramente tanto in questa svolta la rottura personale con il vecchio amico Renato Guttuso. 

Avrà avuto anche la sua parte il discutibile editoriale di Rossana Rossanda apparso sul Manifesto del 28 marzo 1978 che attribuiva ai brigatisti una patente marxista-leninista di stampo sovietico. Tant’è che lo stesso Sciascia ideologicamente li considera «figli, nipoti o pronipoti del comunismo stalinista», che si fanno grottescamente interpreti di «un’etica […] carceraria maturata sulla lettura – o sul sentito dire – dei testi di Foucault», per introdurre una «esile vena libertaria nella loro pietrificata ideologia» (AM:17) 

Brigate rosse e mafia 

Nel penultimo capitolo de L’affaire Moro Sciascia analizza acutamente le somiglianze tra il comportamento delle Brigate rosse e quello della mafia siciliana (Cosa nostra): 

«Le BR funzionano perfettamente ma (e il ma ci vuole) sono italiane. Sono una cosa nostra, quali che siano gli addentellati che possono avere con sette rivoluzionarie o servizi segreti di altri paesi» [31]. 

19780328pg0001-1Evidentemente questo passo finale del suo libro dimostra tante cose: 1) Sciascia non ha dimenticato il contenuto inquietante della lettera di Moro del 10 aprile 1978, precedentemente analizzata, in cui, parlando dei rapporti del senatore Taviani coi servizi segreti americani e tedeschi, arriva ad ipotizzare la regia straniera del suo sequestro; 2) lo scrittore siciliano, pur avendo sempre rifiutato d’essere considerato un mafiologo, è stato uno dei maggiori esperti di Cosa nostra e non c’è un suo libro  dove, in un modo o in un altro, non c’entri la mafia; 3) particolarmente illuminante risulta il riferimento al bandito Giuliano e alla strage di Portella – nodo cruciale della storia d’Italia, secondo Sciascia – quando scrive: «è facile sentir dire, specialmente in Sicilia, che questa delle Brigate rosse è tutta una storia come quella di Giuliano [32]: e ci si riferisce a tutte quelle acquiescenze e complicità dei pubblici poteri che i siciliani conoscevano ancor prima che diventassero risultanze (queste sì, risultanze) nel famoso processo di Viterbo. Atteggiamento che si può anche disapprovare, non poggiando su dati di fatto; ma che trova giustificazione in quel distico di Trilussa che dice «la gente non fidarsi più della campana poiché conosce la mano che la suona» [33];  4) infine, mostrando di non aver mai preso sul serio la matrice rossa del brigatismo italiano, conclude con una battuta che ritorna frequentemente negli ultimi scritti di Sciascia: «La loro ragion d’essere, la loro funzione (delle BR), il loro servizio stanno esclusivamente nello spostare dei rapporti di forza […]. Di spostarli nel senso di quel cambiare tutto per non cambiar nulla che il principe di Lampedusa assume come costante della storia siciliana e che si può oggi assumere come costante della storia italiana» [34].

Ritengo pertanto che non sia forzato concludere questa mia lettura critica de L’affaire Moro con le stesse parole di Leonardo Sciascia: 

«C’è in Italia un iperpotere cui giova, a mantenere una determinata gestione del potere, l’ipertensione civile, alimentata da fatti delittuosi la cui caratteristica, che si prenda o no l’esecutore diretto, è quella della indefinibilità tra estrema destra ed estrema sinistra, tra una matrice di violenza e l’altra (…). La prefigurazione (e premonizione) di un tale iperpotere l’abbiamo avuta nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere» [35]. 
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023 
Note
[1] Queste parole Sciascia le scrive, con palese sarcasmo, nel suo pamphlet, in risposta agli ottusi statalisti, di destra e di sinistra, che si opposero a trattare con le BR in nome di un fantomatico Stato che lo scrittore siciliano aveva già deriso nel suo Todo modo: «Ma signori […] spero che non mi darete il dolore di dirmi che lo stato c’è ancora…Alla mia età, e con tutta la fiducia che ho avuto in voi, sarebbe una rivelazione insopportabile. Stavo così tranquillo che non ci fosse più» (Ivi: 115)
[2] Sarà lo stesso Sciascia, in un suo tagliente corsivo, facendo riferimento agli editoriali di Eugenio Scalfari e di Indro Montanelli, pubblicati sui loro giornali nel settembre 1978, a mettere alla berlina il malcostume di gran parte della stampa nazionale: «Ma è possibile che i due illustri giornalisti – e quanti altri si sono occupati di questo libro senza averlo letto sbaglino: e cioè che il libro non affascini, non commuova, non abbia qualità letterarie; che sia soltanto una nuda e dura ricerca della nuda e dura verità» (L. Sciascia, La palma va a Nord, Gammalibri, Milano 1982: 61)
[3] Sul caso è stato scritto tanto. Tra i numerosi libri pubblicati il più attendibile, secondo me, rimane quello di Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, già presidente del Tribunale per minorenni di Roma e presidente di sezione della Corte di cassazione, che – nel suo Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Editori Riuniti, Roma 1998, attraverso l’analisi puntuale degli atti giudiziari, già disponibili vent’anni dopo i fatti, partendo dalle incertezze e dalle contraddizioni in cui sono caduti i presunti carcerieri di Moro – arriva persino ad ipotizzare che il sequestro del Presidente della DC sia stata opera di Servizi Segreti stranieri più che delle BR. Molto meno convincente appare invece quanto scritto recentemente da Miguel Gotor, Io ci sarò ancora. Il delitto Moro e la crisi della Repubblica, Premessa di Marco Bellocchio e Prefazione di Gian Carlo Caselli, Paper FIRST II edizione dicembre 2022.
[4] «Bisogna prima sgombrare la nostra mente dal pregiudizio […] che Moro non era sé stesso, che era diventato un altro» (La palma va a Nord, op. cit.: 61)
[5] Gran parte del dibattito sarà raccolto da Domenico Porzio in Coraggio e viltà degli intellettuali, Mondadori, Milano, 1977.
[6] Massimo Onofri, Storia di Sciascia, Editori Laterza, Bari 2004, nuova edizione arricchita rispetto alla prima uscita nel 1994: 213.
[7]    Claude Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, Mursia, Milano 1996: 231-239.
[8] L. Sciascia, L’ affaire Moro, Sellerio editore, Palermo 1978: 12. Sciascia tornerà a parlare di queste reciproche insofferenze nel suo diario pubblico Nero su nero, Einaudi Torino 1979: 175-176. D’ora in poi il libro che stiamo analizzando verrà citato con questa abbreviazione: AM
[9] Un’analisi più approfondita di questa singolare amicizia si trova nel mio recente libro Eredità dissipate. Gramsci Pasolini Sciascia, Diogene Multimedia, Bologna 1922, nel capitolo intitolato Pasolini e Sciascia. Storia di un’amicizia: 295-299.
[10] Pier Paolo Pasolini, Il Processo, “Corriere della Sera”, 24 agosto 1975, poi raccolto in Lettere luterane, Einaudi 1976:114-123.
[11] L. Sciascia, Quaderno, Nuova Editrice Meridionale, Palermo 1991: 36-37.
[12] Nel libro Empirismo eretico, pubblicato da Garzanti nel 1972, Pasolini inserisce il capitolo Diario linguistico che comprende diversi pezzi scritti intorno al 1965.
[13]  AM: 15-16
[14]  L. Sciascia, intervista a Le Monde del 4 febbraio 1979.
[15]  AM: 27
[16]  P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino 1979: 459-460.
[17] Cfr: Matteo Collura, Il maestro di Regalpetra, Longanesi, Milano 1996: 271; Felice Cavallaro, Sciascia l’eretico. Storia e profezie di un siciliano scomodo, Solferino ed., Milano 2021:157.
[18] AM: 27-28 (ma anche 23-26).
[19] M. Onofri, op. cit.: 218
[20] Bruno Pischedda, Scrittori polemisti. Pasolini, Sciascia, Arbasino, Testori, Eco, Bollati Boringhieri, Torino 2011:102-118.
[21]L. Sciascia, La palma va a Nord, Gammalibri, Milano1982: 61.
[22] Sciascia nel 1981 all’amico Davide Lajolo dirà: «Quel che mi ha indignato e mi ha fatto scrivere un libro che sarà […] sempre più vero è stata l’operazione da regime, e complice quasi totalitariamente la stampa, di far diventare Moro un altro, un uomo che non sapesse quel che dicesse, un uomo che aveva soltanto paura. Questa è stata una atroce mistificazione» (Leonardo Sciascia – Davide Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, Sperling Kupfer editori, Varese 1981: 31.
[23] L. Sciascia, intervista rilasciata al periodico Epoca il 5 luglio 1978
[24] AM: 22.
[25] L. Sciascia, La palma va a nord. Articoli e interventi 1977-1980, a cura di Valter Vecellio, II edizione Gammalibri, Milano 1982: 144
[26] AM: 38
[27] M. Collura, op.cit.: 260.
[28] La celebre intervista è stata riproposta nel dicembre 2007 dal periodico di Racalmuto MALGRADO TUTTO.
[29] Cfr: Alfredo Carlo Moro, Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Editori Riuniti, Roma 1998.
[30] L. Sciascia-D. Lajolo, op. cit.: 26
[31] AM: 128
[32] Il corsivo è di Sciascia.
[33] AM: 129
[34] AM: 130
[35] L. Sciascia, Nero su nero, Einaudi, Torino 1979: 131

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Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con 110 su 110 e la lode, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania, di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012); Giuseppe Giovanni Battaglia, un poeta corsaro, in Aa. Vv. Laicità e religiosità nell’opera di G.G. Battaglia (2018); Eredità dissipate. Gramsci Pasolini Sciascia, Diogene editore Bologna 2023, II EDIZIONE rivista ed ampliata.