14 aprile 2025

IL CONCETTO DI CULTURA DI FRANCESCO CARBONE

UNA CULTURA NUOVA Francesco Virga Abbiamo tutti un debito con Francesco Carbone. Non abbiamo compreso fino in fondo il senso della sua opera. Ed io stesso, pur avendo avuto l’opportunità di incontrarlo e vederlo spesso, non sempre mi ritrovavo nelle mille cose che faceva. Ma c’era una cosa che mi colpiva particolarmente ed era la cosa che più mi piaceva di Ciccino: era la sua straordinaria capacità di ascolto e di dialogo che mostrava sia con i contadini e i pastori analfabeti di Godrano (PA) che con i grandi intellettuali del suo tempo. La bussola di Francesco Carbone – dalle sue prime iniziative a Godrano contro la prepotenza mafiosa dell’ultimo dopoguerra fino alla creazione di GODRANOPOLI - è stata sempre questa: unire basso e alto, ossia cercare un punto d’incontro tra le mille forme della cultura delle classi subalterne e la cultura dei grandi intellettuali europei. Ma, come voleva Gramsci, non per abbassare la cultura degli intellettuali ma per trasformare la cultura di tutto il popolo. Ciccino ha lavorato e lottato sempre per costruire una nuova cultura aperta a tutti, convinto che la cultura privilegio esclusivo di una élite fosse una cattiva cultura. Carbone, da geniale autodidatta, non aveva alle spalle studi sistematici, leggeva tanto ed era curioso di tutto. Ed anche se aveva letto poco Gramsci respirava nell’aria degli anni sessanta e settanta tanti motivi e temi gramsciani. Lo dimostra quella sorta di Manifesto, pubblicato a Palermo nel 1968, in uno straordinario numero unico di presenzasud, nato come Periodico di cultura contemporanea, edito dal Centro di ricerche estetiche NUOVA PRESENZA. E’ stato davvero non facile riuscire a fare a Palermo una rivista capace di mettere insieme pezzi di Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, Paolo Emilio Carapezza, Gillo Dorfles, Achille Bonito Oliva, Gioacchino Lanza Tomasi, Crescenzio Cane, Gaetano Testa e Michele Perriera. Ma, come tante altre sue iniziative, purtroppo non ha avuto un seguito. La rivista, infatti, è rimasta numero unico in attesa di registrazione. Francesco Carbone, in qualità di Direttore della rivista, firmava, insieme a tanti altri pezzi, l’editoriale intitolato in modo provocatorio “presenzasud e l’orinale di Don Fabrizio”. Un testo ben articolato ed argomentato che metteva in discussione tanti luoghi comuni e, principalmente, il pessimismo e il fatalismo dell’autore del Gattopardo che negava alla Sicilia la possibilità di qualsiasi cambiamento. Nel passo centrale affermava: “Vogliamo una cultura che non sia più di élite. Causa di crescente debolezza per la cultura – […] – è stato sempre l’isolamento delle élites, così che l’élite politica, quella filosofica, l’artistica, la scientifica sono separate, con gran danno di ciascuna non solamente per l’arresto di qualsiasi circolazione delle idee, ma per la mancanza di quei contatti e reciproci impulsi che sono importanti quanto le idee. Posta in termini di cultura e potere, di cultura e politica, sarebbe necessario che la politica fosse essa stessa cultura”. (Francesco Carbone, presenzasud , Palermo 1968, pag. 2, grassetto mio). In questo editoriale c’è tutto il Gramsci di Francesco Carbone, con più di una venatura vittoriniana. Ha scritto tanto Ciccino ma non sempre la sua scrittura appariva chiara ai miei occhi. Ad esempio, il libro Godranopoli tra presenza e latenza del 1990, ad una prima lettura, non mi convinse per il frequente rimando a termini tecnici dell’arte contemporanea e ad autori che non conoscevo. La verità è che, malgrado le sue forti radici nella cultura agro-pastorale godranese, Francesco Carbone sapeva anche usare il linguaggio per iniziati della critica d’arte contemporanea. Una esemplare sintesi del suo concetto di cultura si trova in un magnifico manifesto creato dallo stesso Ciccino nel 1984 in occasione di una iniziativa ideata e realizzata nella sede dell’Opera Universitaria di Palermo presso il Pensionato S. Saverio dell’Albergheria: una cultura senza barriere e gerarchie, basata sulla comunicazione, la circolarità e l’interconnessione dei saperi. (Allegato n. 1) Era questa l’idea di cultura che aveva Ciccino. E rientra perfettamente in questo quadro il recupero miracoloso che riesce ad operare del poeta pecoraio Giacomo Giardina (1901 -1994). La prima scoperta di Giardina, come è noto, si deve a Filippo Tommaso Marinetti. Non si sa bene come, ma è stato proprio il padre del futurismo italiano a presentarlo alla I Mostra Siciliana del Sindacato Fascista di Belle Arti svoltasi a Palermo il 3 aprile 1928. Se Marinetti non avesse intravisto nei versi del Giardina una singolare incarnazione del suo credo poetico, Giacomino, come lo chiamavano i suoi compaesani, sarebbe rimasto un venditore ambulante e uno dei tanti poeti contadini ignorati e dimenticati da tutti. Anche se la critica ha successivamente considerato riduttiva e forzata l’interpretazione del Marinetti, bisogna riconoscere che Giardina deve gran parte della sua libertà espressiva e del suo spirito antiaccademico al movimento futurista. D’altra parte il futurismo, nel suo versante artistico, al di là della deriva politica fascista che ebbe in Italia, nel resto del mondo ebbe sviluppi progressisti. Non a caso Trockij e Majakovskij, colpiti da un articolo giovanile di Antonio Gramsci, seguirono con simpatia le prime fasi del movimento futurista italiano. C’è voluto un maieuta come Francesco Carbone per risvegliarlo da un lungo letargo. Infatti dopo la pubblicazione del suo primo libro “Quand’ero pecoraio. Liriche”, avvenuta nel 1931 per i tipi della Vallecchi di Firenze, che era una delle principali case editrici del tempo, Giacomo Giardina si chiude in un lungo silenzio. Questo libro, opportunamente ristampato in copia anastatica nel 2006, arricchito da una bella nota introduttiva di Anna Maria Ruta, merita qualche altra considerazione. E’ Rocca Busambra la principale musa ispiratrice di Giacomo Giardina. Il libro, infatti, è dedicato “alla montagna natia, seminata di pecore, che mi ha reso poeta”: è questa la vera dedica del poeta le altre - al Duce e a F. T. Marinetti - sono dovute alle circostanze temporali. Come si sa, anche Ciccino Carbone ha amato Rocca Busambra insieme alla sua Godrano dove ha voluto essere sepolto. E il fondatore di Godranopoli non poteva ignorare il posto privilegiato che occupa la natura nella vita e nell’opera di Giardina. D’altra parte il poeta pecoraio ha sperimentato sulla propria pelle i cicli naturali della vita e della morte, provando anche da vivo la morte. Il poeta, infatti, ha vissuto come una forma di morte l’afasia e l’arresto del proprio spirito creativo, influenzato probabilmente anche dal difficile confronto col nuovo astro nascente nel panorama poetico dell’ultimo dopoguerra: Ignazio Buttitta. Francesco è riuscito a risvegliare la vena poetica del poeta pecoraio, ridotto a fare il venditore ambulante di cianfrusaglie, ridandogli fiducia e aiutandolo a pubblicare le sue nuove creazioni. Si deve, infatti, a Carbone la seconda fioritura della poesia di Giacomo Giardina. In essa torna l’immagine di Rocca Busambra, come grande ventaglio di pietra. Una parte di queste sue nuove composizioni vengono raccolte in un prezioso volume, sapientemente curato da Nicolò D’Alessandro: Giacomo Giardina, Rocca Busambra. Poesie Disegni Testimonianze, Edizione Movimento Comunità di Base, Godrano-Palermo 1978, che si apre con un acuto “rilevamento antropologico culturale” dell’infaticabile Ciccino. Francesco Carbone ha saputo cogliere un aspetto dell’opera del Giardina ignorato da tanti altri critici: Il lavoro di Giardina contiene […] forti cariche di sobillazione, una ironia sottile e provocatoria, le quali si incaricano di sommuovere dalla base le lunghe fissità dei contesti agro-pastorali in cui la sua poesia è nata ed è cresciuta; di scuotere i precedenti ristagni e gli attuali ibridi conformismi della cultura contadina, i cui valori e la cui memoria sono sempre state le ragioni portanti della scrittura di Giardina”. Questo straordinario quaderno-libro – ennesima creatura del geniale Francesco Carbone - è arricchito da alcuni preziosi disegni e testimonianze di Renato Guttuso e di altri artisti che hanno conosciuto il poeta. Sui rapporti tra Giacomo Giardina e Renato Guttuso ci sarebbe tanto da dire. Nel riservarmi di tornarci in un’altra occasione, in questo spazio mi limito a ricordare brevemente una lettera del pittore al poeta del 16/12/1974 in cui si afferma: “Caro Giacomo, fin dall’ormai lontana adolescenza ho imparato ad amare la tua poesia, la fresca indipendenza della tua immaginazione, il tuo sentimento della natura e della gente umile. Ricordo brani bellissimi di un tuo romanzo che meriterebbe di vedere la luce. A te, al tuo lavoro, è legato uno dei miei primi dipinti (del ’28, mi pare) che ti raffigurava davanti alla tua Rocca Busambra, circondato dalle pecorelle. Dove sia quel quadro non si sa, ma ho fiducia che prima o poi salterà fuori.” (ivi, p. 10). La lettera di Guttuso - che si chiude con uno schizzo del pittore in cui è abbozzato l’antico ritratto - è importante anche per il riferimento ad un “romanzo” inedito del poeta di cui si sono perse le tracce. Lo stesso Francesco Carbone nel 1971 aveva curato un libretto che cercava di mettere a fuoco i rapporti artistici tra Giardina e Guttuso. In esso, oltre alla riproduzione di foto e disegni del grande pittore, veniva pubblicato un lungo poema del Giardina che dava anche il titolo alla pubblicazione: Guttuso nel mio quadro. Un altro documento prezioso – che testimonia la lunga e profonda amicizia che ha legato i due artisti – è la lettera di Guttuso a Giardina del 22 giugno 1972, dove si afferma: “Caro Giacomo, Quanti anni sono passati dal tempo in cui dipinsi il tuo ritratto! Sullo sfondo c’era Rocca Busambra, e pecorelle al pascolo, mentre tu declamavi al vento poesie, […]. Cosa è cambiato da allora? Molto dall’esterno, ma ‘di dentro’ poco o nulla. Battiamo sempre lo stesso chiodo, quello che ci siamo portati addosso dalla nascita, forse con più esperienza e sapienza, forse con meno freschezza. Ma in fondo anche con freschezza perché il nostro amore della verità e della realtà è un amore che non può finire.” Altri testi del Giardina vengono pubblicati successivamente nell’antologia Dante ambulante al mio paese, Ila Palma, Palermo 1982; nel bel volume, curato da Nicolò D’Alessandro, per i tipi de La Bottega di Hefesto, Palermo 1991 e nella raccolta di scritti inediti e varianti (1928-1980), intitolata La corona di latta, curata da Aldo Gerbino (IPSA Editore, Palermo 1995). Non può sorprendere, pertanto, che Francesco Carbone, dagli anni settanta in poi, vada in giro per la Sicilia accompagnato da Giacomo Giardina e che lo si ritrovi sempre accanto nel suo generoso tentativo di animazione socio-culturale della comunità godranese e del territorio circostante. Tanti non hanno ben compreso la centralità che assume in tutta l’opera di Ciccino la creazione di GODRANOPOLI. Forse anche per questo abbiamo assistito passivamente alla sua chiusura e al suo abbandono, dopo la prematura morte del fondatore. Oggi sono più che mai convinto del fatto che, se non riusciremo a riaprire Godranopoli, tutto quello che abbiamo fatto finora per ricordarlo sarà inutile. FRANCESCO VIRGA

ALCUNE IMMAGINI DEL NOSTRO RICORDO DI FRANCESCO CARBONE

MARIO VARGAS LLOSA VISTO DA "LE MONDE"

Florence Noiville, È morto Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura e autore di “Zia Julia e lo scribacchino”, Le Monde 14 aprile 2025 Affermava che la letteratura "ha effetti sulle nostre vite ". Perché "dissipa il caos, abbellisce la bruttezza, eterna l'attimo e rende la morte uno spettacolo" ( Elogio della lettura e della narrativa , Gallimard, 2011). Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, uno dei massimi esponenti della letteratura ispanica contemporanea e premio Nobel nel 2010, è morto a Lima domenica 13 aprile. Aveva 89 anni. Che il testo "agisca" su di noi è stata una rivelazione che ha avuto "all'età di 5 anni, in Bolivia". «Era il 1941, a Cochabamba, nella classe di Fratel Justiniano », ci raccontò un giorno a Parigi, nel suo elegante appartamento di rue Saint-Sulpice. Questo choc, ha insistito, è stata "la cosa più importante che gli sia mai capitata nella vita". Allora capì che una condanna poteva essere sperimentata fisicamente. Sudare sangue e acqua leggendo Les Misérables, "trascinarsi nelle viscere di Parigi con il corpo inerte di Marius sulla schiena" o ancora, con un romanzo di Alejo Carpentier, placare la paura di volare quando whisky, sonniferi e ansiolitici avevano fallito (Come ho superato la mia paura di volare, L'Herne, 2009). Naturalmente sarà questa fascinazione per il potere magico della letteratura a spingerlo a scrivere. Impegnarsi. Per testare l'effetto delle proprie parole su sé stesso e sugli altri. Nato ad Arequipa, in Perù, il 28 marzo 1936, Jorge Mario Pedro Vargas Llosa è l'unico figlio di Ernesto Vargas Maldonado e Dora Llosa Ureta. I suoi genitori si separarono poco dopo la sua nascita. Il bambino ha trascorso i primi anni della sua vita con la famiglia materna, tra Perù e Bolivia. Suo padre non si fa mai vedere, quindi il ragazzo cresce credendolo morto. Un giorno, però, i genitori decidono di tornare a vivere insieme e il padre riappare. Mario ha 10 anni. Incontra un essere dispotico che, quando ha 14 anni, lo manda all'accademia militare Leoncio Prado a Lima. Affinché smettesse di scarabocchiare poesie e diventasse un uomo, un vero uomo. Questa esperienza contribuisce a plasmare il suo destino. "Prima di conoscere l'autoritarismo politico, conoscevo l'autoritarismo paterno", ha affermato. Il mio modo di resistere è stato quello di dedicarmi alla letteratura.» Vargas Llosa ha descritto magnificamente questa voce in La zia Julia e lo scribacchino (1977, tutti i libri di Vargas Llosa sono pubblicati da Gallimard). Come il giovane "Varguitas", protagonista di questa magnifica storia autobiografica, sta proseguendo lentamente gli studi di giurisprudenza e letteratura presso l'Università di San Marcos a Lima. Nello stesso periodo guadagnava qualche soldo scrivendo recensioni cinematografiche per la rivista Literatura e per il quotidiano El Comercio . Nel tempo libero si cimentò con la scrittura: i suoi primi racconti furono raccolti in Los Jefes (I padroni, 1959). Membro della “grande famiglia” latinoamericana Fu in questo periodo, non aveva ancora compiuto 21 anni, che nella sua vita apparve Julia Urquidi Illanes, che vide per la prima volta "a piedi nudi e con i bigodini". Julia è sua zia, quindici anni più grande di lui. Viene dalla Bolivia, dove ha appena divorziato e desidera ardentemente essere amata di nuovo. «Gli spiegai che l'amore non esisteva, che era un'invenzione di un italiano chiamato Petrarca e dei trovatori provenzali », fece dire lo scrittore a Varguitas. Come molti personaggi di Vargas Llosa, la piccante Julia non manca né di erotismo né di perversità. Ha in programma di portare il giovane scribacchino a vedere un film intitolato Madre e padrona. Presto, nel romanzo come nella vita, la zia e il nipote finiscono per sposarsi nonostante la differenza d'età, il legame familiare e la furia di chi li circonda. Siamo alla fine degli anni '50. Vargas Llosa, che in seguito avrebbe lasciato la zia Julia per la cugina Patricia, stava per scoprire l'Europa. Prima a Madrid, dove completò gli studi e difese una tesi di dottorato sul poeta modernista nicaraguense Rubén Darío. Poi a Parigi, vinse un concorso organizzato da La Revue française , il cui premio era un viaggio in Francia. Nel 1958, poi dal 1959 al 1966, trascorse a Parigi “gli anni più decisivi della [sua] vita”. Lavora presso l'Agence France-Presse e la Radio e Televisione Francese. Tutto lo affascina. Scoprì Beckett, Ionesco, Vilar, Barrault, il Nuovo Romanzo, la Nouvelle Vague. Paradossalmente, fu tra Londra, Barcellona e Parigi che scoprì la letteratura sudamericana. Stringe amicizia con l'argentino Julio Cortazar, il messicano Carlos Fuentes, il colombiano Gabriel Garcia Marquez alias Gabo, l'anziano ammirato, il grande amico con cui litigherà fino alla morte per una storia – su una donna? politica?... in ogni caso una storia che entrambi si rifiuteranno sempre di commentare. "È stato a Parigi che ho scoperto di essere latinoamericano " , ha detto . Prima mi sentivo solo peruviano, senza la sensazione di far parte di una grande famiglia. Negli anni '60, questa numerosa famiglia avrebbe incarnato quello che viene comunemente definito il "boom della letteratura latinoamericana". Questo deriva da un gruppo di autori influenzati dalla letteratura occidentale e dal modernismo. Un gruppo di cui Vargas Llosa – insieme a Fuentes, Onetti, Borges, Roa Bastos… – sarà una delle figure più importanti. Fu sempre in Europa che, nutrito da Faulkner, Flaubert e Hugo, lo scrittore scoprì Camus e soprattutto Sartre. L'autore di La Nausée lascia un segno indelebile in lui. Egli conferma che «la letteratura non può sfuggire al suo tempo ». Che «non è e non può essere puro intrattenimento». Che “le parole sono azioni” che formano le coscienze. Nutrito da queste idee, Vargas Llosa scrisse, nel 1963, La città e i cani , un romanzo ispirato al periodo trascorso all'accademia militare, che descrive la vita dei cadetti oppressa dalla disciplina. Il personaggio di Alberto, il Poeta, che vende romanzi pornografici e lettere d'amore ai suoi amici, appare già come l'emblema dello scrittore secondo Vargas Llosa. Un ribelle che ispira gli altri con la forza di reinventare la propria vita. Un “uomo di penna” Ben presto La città e i cani venne tradotto in una ventina di lingue. Vargas Llosa ha solo 27 anni. Seguirà un lavoro eccezionalmente profuso e abbondante. Romanzi, racconti, saggi letterari e politici, scintillanti studi accademici, teatro, memorie...: sono una trentina le opere in totale, notevoli per la finezza della loro osservazione psicologica e sociale, la sontuosità delle immagini, l'arte della polifonia, la tavolozza dei toni, di volta in volta pungenti, ironici, seri, burleschi, erotici, buffoni... Vi troviamo quelle che Vargas Llosa chiamava "autopsie di dittature" , come quella che il Perù conobbe dal 1948 al 1956 sotto il generale Odria (Conversazione nella Cattedrale, 1969) o quella imposta da Trujillo dopo il colpo di stato del 1930 nella Repubblica Dominicana (La Fête au bouc, 2002). Esistono satire sovversive del fanatismo militare ( Pantaléon e i visitatori, 1973) o del fanatismo religioso (La Maison verte, 1966). Questioni etnologiche dove, come in L'uomo che parla (1987), Vargas Llosa esprime i suoi dubbi sul futuro delle popolazioni indigene del Perù. Ci sono anche grandi storie di utopia, come Le Paradis – un peu plus loin (2003), dove l'autore, incrociando i destini dell'attivista femminista Flora Tristan e di suo nipote, il pittore Gauguin, evoca il modo in cui due esseri libertari vivranno l'inferno dopo aver osato sognare il paradiso. Vargas Llosa è davvero l’“uomo di penna” immaginato da Flaubert. Prova tutti i generi e sa fare tutto. La vena libertina non gli è estranea. Nei Quaderni di Don Rigoberto (1997), si sacrifica all'Eros con leggerezza e buon umore, affermando che «l'erotismo è inseparabile dalla civiltà». E nemmeno l'umorismo. In Elogio della matrigna (1988), dove racconta la storia d'amore di un ragazzino con la matrigna, riempie intere pagine di dettagli esilaranti sull'igiene intima, dalle orecchie alle ascelle, del suo alter ego Don Rigoberto. Fu per la sua "mappatura delle strutture di potere" che gli fu conferito il premio Nobel nel 2010. Vargas Llosa potrebbe aver " preso le distanze da Sartre" , ma non esita ad esprimere la sua fede nella missione sociale dello scrittore. Una missione che ha chiarito nel 2015, quando gli è stata conferita la laurea honoris causa dall'Università di Salamanca. «Gli effetti [della letteratura] non possono essere premeditati», afferma. L'autore non ha modo di pianificare ciò che scrive in modo che il suo libro abbia conseguenze concrete sulla realtà. Ma quel che è certo è che «un popolo contaminato dalle finzioni è più difficile da schiavizzare di un popolo letterato o ignorante. La letteratura è immensamente utile perché è fonte di insoddisfazione permanente. Ci rende cittadini frustrati e recalcitranti.» Sono insoddisfatto della realtà ma libero… e quindi più capace (forse) di cambiarla. Virare a destra, o anche all'estrema destra Questo impegno non è puramente estetico. Come per molti autori sudamericani della sua generazione, scrittura e politica non sono mai lontane. Dopo un periodo nel Partito Comunista durante gli studi universitari, Vargas Llosa appoggiò il governo di Fidel Castro. Ma, deluso dalla rivoluzione cubana, nel 1971 ruppe con l'estrema sinistra. A poco a poco, le sue opinioni si spostano dal comunismo al liberalismo thatcheriano che lui stesso presume e rivendica. Convinto che il sistema liberale "riduca al minimo le possibili forme di ingiustizia" e che "le libertà politiche ed economiche siano due facce della stessa medaglia" , si candidò alle elezioni presidenziali peruviane del 1990, all'età di 54 anni. Sconfitto al secondo turno da Alberto Fujimori, non cambiò minimamente le sue convinzioni, ma decise di chiudere questa rischiosa parentesi politica – che racconta in Il pesce nell'acqua (1993) – per tornare a ciò che sa fare meglio: scrivere. Questa presa di distanza non gli ha impedito di continuare a impegnarsi pubblicamente, dimostrando gradualmente e sempre più chiaramente il suo spostamento a destra, addirittura all'estrema destra. In particolare, si è espresso a favore di Keiko Fujimori, figlia del suo ex rivale, contro il candidato di sinistra Pedro Castillo, durante le elezioni presidenziali in Perù del 2021 e ha affermato di preferire, prima delle elezioni presidenziali dell'ottobre 2022 in Brasile, una vittoria dell'allora presidente Jair Bolsonaro, "nonostante le sue buffonate" , a quella di Lula. Ottenuto il passaporto spagnolo nel 1993, spostandosi costantemente tra due città – possiede quattro appartamenti che occupa a turno, a Lima, Madrid, Parigi e Londra –, eloquente e affascinante, continua a difendere instancabilmente le sue convinzioni. In The Discreet Hero (2013), traccia un quadro senza compromessi del Perù, criticando duramente la delinquenza mafiosa, la corruzione e la tentazione della mediocrità. In precedenza, si era recato in Africa per prendere appunti per il suo romanzo Il sogno del Celto (2010), in cui raccontava la vera storia di Roger Casement, l'irlandese che fu uno dei primi a denunciare le atrocità commesse nel Congo Belga durante il regno di re Leopoldo II. C'era qualcosa di eccessivo e bulimico in questo lavoratore instancabile, incoronato con ogni premio possibile e iscritto ancora in vita a "La Pléiade" (2016). Grande lettore, viaggiatore e amante dell'arte, Mario Vargas Llosa è persino diventato attore a Madrid nel 2015. Con I racconti della peste , un adattamento del Decameron di Boccaccio da lui stesso ideato, ha debuttato sul palcoscenico "nonostante la paura del palcoscenico" e "la paura del ridicolo". Di questa avventura, tanto rischiosa quanto affascinante, disse in seguito: "Non ho mai avuto così tanta paura, dietro le quinte. Più paura di quando mi candidavo alla presidenza del Perù e rischiavo di essere ucciso". Ma aggiunse subito che sarebbe pronto a ritentare l'avventura, "anche strisciando ", a 90 anni. Fino alla fine ha celebrato la finzione, rispondendo indirettamente alla domanda di Paul Valéry: "Cosa saremmo senza l'aiuto di ciò che non esiste?" Una domanda che Lui aveva simbolicamente posto in primo piano, cioè sulla porta del suo Paradiso. https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2025/04/14/mario-vargas-llosa-prix-nobel-de-litterature-et-auteur-de-la-tante-julia-et-le-scribouillard-est-mort-a-89-ans_6595696_3382.html

I. B. SINGER, DIO SESSO LETTERATURA

I. B. Singer, dio, sesso, letteratura Massimo Rizzante 14 Aprile 2025 Per farvi capire il mio attaccamento all’opera di Isaac B. Singer, vi dirò solo che l’ultima versione del mio testamento l’ho scritto sulla pagina del frontespizio interno di Ombre sullo Hudson. Parlo di ultima versione, perché da quando – alcuni anni fa – ho deciso di mettere nel mirino la morte, il mio testamento ha subito diverse correzioni. Diciamo che sono alle terze bozze. Sapete dove si trovano le altre due? Rispettivamente all’inizio di Nemici e de Il ciarlatano. Finché c’è vita c’è tempo. E a che cosa serve il tempo, se non a correggere le bozze della vita? Sì, d’accordo. Solo che il tempo finisce e tu, preso da mille impegni, non hai consegnato al Grande Editore la versione definitiva. La letteratura, forse, è nata per questo: perché tu, confidando nel giudizio del Grande Editore, ti illuda che sia possibile redigere una versione definitiva della tua esistenza. Sempre che non venga meno l’altra illusione, l’illusione di tutte le illusioni: che solo ciò che è individuale sia giusto e vero. *** Beh, Singer, da buon ebreo, è sempre stato, a suo modo, un uomo di fede: credeva, a differenza di noi, in Dio e nell’individuo. Credeva che l’uno e l’altro fossero enigmi. Credeva nella ragione e nelle passioni: la prima abbonda nella mente di Dio, mentre le seconde in quella degli uomini (“L’uomo è una povera creatura per quanto concerne la ragione, ma un milionario nel campo delle emozioni”). Credeva nel talento, consapevole che è “un’oasi in un deserto di cattivo gusto”. Credeva che tutto ciò che ci circonda sia una sorta di miracolo di fronte a cui non possiamo che meravigliarci e interrogarci. Da bambini, da giovani, da adulti, fino alla fine. Leggete Alla corte di mio padre, dove Singer raccoglie le memorie della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua prima giovinezza in Polonia! Figlio di un rabbino e di una rabbina e discendente da generazioni di hassidim e cabalisti, è allevato in una casa dove la religione ebraica è come “l’aria” che si respira. Di giorno, quando chiunque abbia l’anima in subbuglio viene a sfogarsi, a pregare, a ricevere consigli. Di notte, quando fantasmi, dibbuk e spiriti dei morti fanno capolino ai piedi del letto. Ebreo della Diaspora, il piccolo Isaac attende il Messia, il quale non avrebbe solo redento questo mondo e riconquistato la terra perduta, ma avrebbe giudicato tutti, ebrei e gentili, e sradicato ogni male. Secondo il Talmud, la terra di Israele si sarebbe estesa a tutte le nazioni e un tempio di fuoco sarebbe sceso dal cielo a Gerusalemme. Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosé, re Davide, Rachele, Lea, le loro serve Billa e Zilpa, tutti i profeti, i saggi, i santi, sarebbero risorti. Lui, i suoi fratelli, sua sorella, sarebbero entrati nel palazzo in cui re Davide sedeva “su un trono d’oro” e lo avrebbero chiamato “Nonno”! Tutto ciò sarebbe stato possibile, certo, ma ci si deve comportare da ebrei pii, studiare la Torah, pregare ogni giorno e non disobbedire ai genitori. j Dentro le mura domestiche di via Krochmalna, a Varsavia, vige la legge del padre e di Dio. Ma fuori? Fuori c’è il caos: guerre, rivoluzioni, massacri, ma anche migliaia di individui umili e semplici, “sarti, calzolai e portatori d’acqua dai quali dipende l’esistenza del mondo”, in cui potrebbero nascondersi i trentasei giusti. Se le “parole dei sapienti sono come tizzoni ardenti”, un buon ebreo sa che spesso la grandezza si veste di povertà e di ignoranza. Senza contare che molto presto il piccolo Isaac registra che “per la maggioranza delle persone, è breve il passo tra volgarità e finezza, tra pugni e baci, tra sputare in faccia al vicino e colmarlo di gentilezze”. Fuori, il mondo è confusione, insidia, vanità, ma anche continua sorpresa. E il piccolo Isaac affacciato al balcone è pieno di domande, ossessionato com’è “dai paradossi del tempo, dello spazio e dell’infinito” e, inoltre, convinto “di dover risolvere quegli enigmi da solo”. Da solo? Da solo senza l’aiuto di Dio? Dio è o non è la spiegazione di tutte le cose, la risposta a tutte le domande, come afferma suo padre? E dove si trovano tutte le risposte? Nei libri sacri, certo. Ma i libri sono scritti dagli uomini. E poi di libri ce ne sono a migliaia. E in alcuni si dice che la vera religione non è quella di Mosè, ma quella di Gesù. E in altri ancora – soprattutto quelli che suo fratello maggiore Israel Joshua, ritenuto un nemico di Israele dai genitori, gli procura – si dice che l’universo non è stato creato da Dio, ma dal caso, si dice che gli uomini non discendono da Adamo, ma dalle scimmie. Dio, è scritto in quei libri, non fa miracoli. Tutto ciò che vediamo e sentiamo è opera della Natura. Chi ha creato quel minuscolo acaro, “più piccolo di una capocchia di spillo” che il padre a volte trova aprendo la Bibbia? “Se tutti i professori del mondo si mettessero insieme, riuscirebbero a creare un solo acaro?”. Cosa rispondere al padre? Se Dio non esiste, chi ha creato l’acaro? Il fratello Joshua risponde: la Natura. “E chi ha creato la Natura?”, ribatte il piccolo Isaac. Non c’è fine alle domande. Non c’è fine neppure al desiderio di conoscere tutti i libri, soprattutto quelli proibiti, soprattutto quelli pieni di “pettegolezzi” che il fratello Joshua chiama “letteratura”, come quello in due volumi in cui uno studente ha ucciso una megera e per questo soffre, si agita e si inabissa in ragionamenti che a Isaac ricordano la Cabala. Che fare? La soluzione che il piccolo Isaac intuisce, che il giovane Isaac adotta e che il maturo Isaac conserverà fino alla fine dei suoi giorni, sarà paradossale: stare dalla parte di Dio, ma contestandone le azioni, o la mancanza di azioni. Non riuscendo a trovare pace né abbracciando il Dio degli ebrei né quello di Spinoza (la cui Etica, assieme ai romanzi di Dostoevskij non smetteranno mai di affascinare Singer), si adopererà a condurre una “guerra privata contro l’Onnipotente” allo scopo di rivendicare per ogni individuo il diritto di “protestare contro le violenze della vita”. Come dirà in A Little Boy in search of God, ulteriore capitolo delle sue memorie: j L’uomo non era obbligato a ringraziare Dio per tutte le epidemie e catastrofi che lo aggredivano praticamente dalla culla alla tomba. Il fatto che Dio possedesse una quantità incommensurabilmente superiore di sapienza e potere rispetto a noi, non Gli dava il diritto di tormentarci, anche se i suoi motivi erano i più puri e saggi. Stare con Dio, ma non poterlo amare come impone la Torah. Né poterLo negare come vogliono tutti i materialisti. L’“etica contestatrice” di Singer si ridurrà a un unico precetto: trattare quanto meglio è possibile gli individui e gli animali (da qui il suo vegetarianismo). Tutti, secondo Singer, individui e animali, hanno il diritto e il dovere di indignarsi, “non solo quando subiscono un torto”, ma anche quando assistono “alle sofferenze altrui”: Se Dio vuole torturare le sue creature, oppure si sente costretto a farlo, sono affari suoi. Il vero contestatore esprime la propria protesta evitando con ogni impegno di fare del male… Nella prima pagina di Alla corte di mio padre, Singer scrive che il libro “racconta la storia di una famiglia e di una corte rabbinica così vicine tra loro che era difficile dire dove finisse l’una e cominciasse l’altra”. Tuttavia, verso la fine del libro, quando, ormai grandicello, frequenta “il mondo dell’Illusione”, cioè la bohème di scrittori e artisti ebrei che il fratello Joshua gli ha fatto conoscere, deve ammettere che in lui è avvenuto un “grosso cambiamento”. Sin dai suoi primi racconti, infatti, un “solo passo separa la casa di studio dalla sessualità e viceversa”. Dio e il sesso – “il bisogno sessuale è assolutamente legato alla forza spirituale e non a quella fisica” – continueranno a interessarlo, fino a diventare “lo schema” di ogni suo racconto, di ogni suo romanzo, la duplice fiamma che brucia in ogni suo personaggio. Continueranno a incatenarlo alla ruota del tempo allo scopo di redigere, correzione dopo correzione, la versione definitiva della sua esistenza. Tutta l’opera letteraria di Singer potrebbe essere definita come una lunga avventura erotica in cui non ci si stanca di declinare le infinite variazioni dei rapporti tra i due sessi. Non che non gli interessino la Storia, la politica, il pensiero filosofico, i cambiamenti sociali. Solo che la sua natura lo porta altrove. Del resto, sin da piccolo, ha scoperto che nell’Antico Testamento e nella Cabala il sesso è di casa. Dio si accoppia con la Divina Presenza, che è di fatto sua moglie, e i loro figli sono il popolo di Israele. Sebbene i cabalisti mettano in guardia nel prendere le loro parole alla lettera, risulta evidente agli occhi del piccolo Isaac che Dio e la Divina Presenza, così come tutti i maschi e le femmine del cielo, si amano e copulano in tutti i modi. Patriarchi, re Davide, Salomone possiedono diverse mogli e amanti con cui fanno l’amore per la gloria di Dio. Del resto, nel libro della Genesi, l’atto sessuale è definito “conoscenza”. Copulare tra maschio e femmina è un modo di conoscersi (ce n’è, forse, uno più profondo?). Le anime desiderano fondersi una nell’altra. Perciò il corpo stesso deve essere composto da una qualche forma spirituale. Se il principio maschile e quello femminile hanno tanta importanza in cielo, cosa c’è di male a raccontare le loro capriole sessuali qui sulla Terra? Tanto più che la Natura – con cui Dio sembra continuamente scontrarsi – sembra retta allo stesso modo: la legge della fecondazione regna fra gli animali come fra le piante. Tanto più che il piccolo Isaac comincia a essere terribilmente attratto dalle ragazze che giocano nel cortile o sulla strada. Si chiede: sono come me? No. Sono diverse in tutto, eppure mi piacciono. Sono un mistero! Anch’io sono un mistero per me stesso. Forse, raccontando gli infiniti modi in cui un uomo e una donna si incontrano e si amano (“tra un uomo e una donna tutto è possibile”), riuscirò, ne sono convinto, un giorno a raccontare il mistero di Dio. k Fra tutti i brani autobiografici in cui Singer si impegna a esplorare la natura misteriosa del sesso, ce n’è uno che mi è sempre parso impagabile per bellezza e humor. Si trova nell’ultima parte delle sue memorie, in Lost in America. Un Singer esule e squattrinato, scrittore yiddish ancora alle prese con le difficoltà della lingua inglese e con problemi di visto, se ne va a Toronto con Zosia, una donna che si è offerta di accompagnarlo e di aiutarlo. Ma a un patto: di liberarla “dall’onta di essere tuttora vergine, a un’età in cui le altre donne disponevano di mariti o di amanti o di entrambi”. Dopo la cena se ne tornano in hotel. Desiderando mantenere la promessa, il buon Singer si appresta all’azione. Ma improvvisamente “uno spirito maligno”, un dibbuk, si impossessa di lui. Forse certi accordi non si dovrebbero fare, pensa. Sono moralmente sbagliati e rovinano l’attesa. “Il sesso, come l’arte, non può essere praticato a comando”. Il desiderio è svanito. Più che il desiderio l’eccitazione: Che vergogna, pensavo, dover dipendere dalla limitata quantità di sangue e dai pochi nervi che provocano l’erezione! Diversamente dalle altre membra del corpo, il pene possiede l’autonomia di funzionare o non funzionare secondo le proprie attrazioni o repulsioni etiche ed estetiche. È un organo che i cabalisti definivano “il segno del sacro patto”. Il suo nome era yesod, lo stesso di una delle dieci sfere dell’emanazione divina. Ciò che ora provavo in realtà era una sorta di erezione negativa, se è possibile usare un’espressione del genere. Il mio pene cercava di nascondersi alla chetichella, di rattrappirsi, di sabotarmi e di punirmi per aver osato prendere una decisione senza il suo consenso, farmi benefattore per suo conto. La notte trascorre senza che succeda nulla. “Il signore del dispetto” che sovraintende alle pratiche amorose ha vinto. Tuttavia il buon Singer non si abbatte. La lezione, forse la più importante, l’ha imparata molto tempo prima, sfogliando all’insaputa del padre le pagine della Cabala: “i nostri genitali, che nel linguaggio delle persone volgari sono sinonimi di stupidità e insensibilità, sono in effetti espressione dell’animo umano, sfidano la lussuria, sono i più ardenti difensori del vero amore”. Senza di essi, nessuna estetica, nessuna etica, nessun “sacro patto”, nessun vero amore. E, di conseguenza, nessuna possibilità di raccontare, attraverso il mistero dell’altro, il mistero di Dio. Non ho mai creduto alla “vulgata” di un Singer puro affabulatore, “narratore di storie nato”, come una volta lo definì un critico americano. Se ce ne fosse stato bisogno, ne ho avuto ulteriore conferma dallo stesso autore. Di recente è uscita in Italia una raccolta di saggi dal titolo A che cosa serve la letteratura? in cui Singer esprime le sue idee sull’arte, la letteratura, la religione e la cultura ebraiche. Diciamolo subito: non è un’opera di Singer, nel senso che non l’ha pubblicata in vita, né ha lasciato scritto che venisse pubblicata, né ne ha lasciato un disegno, o un indice. Si tratta di un’opera postuma che, di solito, significa: pubblicata senza la volontà del suo autore, grazie alla volontà di coloro i quali ritengono che tradire la volontà dell’autore sia non solo un loro diritto ma un loro dovere. Si potrebbe affermare che per costoro la missione sia riuscire dove l’autore ha fallito! La cosa è piuttosto interessante nel caso di Singer. Ricordo che in una delle sue conversazioni con Richard Burgin (Conversations with Isaac Bashevis Singer, 1985) riferì al suo interlocutore, che sperava che a nessuno, dopo la sua morte, venisse in mente di tradurre in inglese ciò che aveva scritto in yiddish o di pubblicare ciò che non aveva desiderato pubblicare: “Non c’è un Max Brod nella mia vita […] Non posso bruciare i miei manoscritti. I miei manoscritti sono pubblicati”. Così va il mondo! j Il curatore, un grande esperto della grande mole di scritti che Singer accumulava nella sua “stanza del caos” e che, dopo la sua morte, sono stati acquisiti dallo Harry Ransom Center, Austin, Texas, ha operato una scelta, tra note autobiografiche inedite, saggi e articoli pubblicati sul “Forverts”, il quotidiano yiddish a cui Singer collaborò – sotto diversi pseudonimi – dal 1939 alla fine dei suoi giorni. Aggiungendo, inoltre, alcune prefazioni a romanzi e alcuni saggi pubblicati su quotidiani e riviste statunitensi. Tutti i testi sono usciti – con alcune eccezioni – soprattutto negli anni Sessanta, quando Singer cominciava a essere popolare negli Stati Uniti e quando, accanto alla sua opera in yiddish, si dedicava sempre di più a un’attività di traduzione e revisione del suo lavoro per il pubblico di lingua inglese. Bene, per venire alla mia conferma – che è una conferma di come la letteratura per lui non contasse meno di Dio e del sesso – nel libro c’è un breve saggio, dove Singer, a cui probabilmente l’etichetta di “narratore nato” stava stretta, racconta due storielle: “una scherzosa e l’altra vera”. La prima è che quando Isaac nasce, sua madre chiede alla levatrice se si tratta di un maschio o di una femmina e la levatrice risponde: “È uno scrittore”. Non dice “narratore”, ma proprio “scrittore”. La seconda è un po’ più lunga e risale ai tempi di Varsavia, quando Singer è un promettente scrittore di racconti. Il più importante editore di letteratura yiddish gli chiede di pubblicare una raccolta di storie. Singer è al settimo cielo. Consegna il manoscritto. Una volta ricevute le prime bozze, si rende conto che l’opera non va, non lo soddisfa. Comincia a correggere, ma i cambiamenti richiederebbero troppo tempo. L’unica via possibile è rinunciare del tutto. Il giorno dopo comunica all’editore la sua decisione. L’editore va su tutte le furie, lo insulta. Ma Singer non si fa intimidire e per ripagarlo delle perdite traduce due libri senza ricevere alcun compenso. Cinque anni dopo Singer parte per gli Stati Uniti senza aver pubblicato la sua raccolta. La raccolta dovrà attendere ventisette anni prima di uscire in inglese con il titolo di Gimpel the Fool and Other Stories. La versione originale in yiddish ne attende addirittura altri cinque. “Fu una decisione difficile da prendere ma sono cresciuto con l’idea che la letteratura debba avere qualità durature, non sia fatta per essere pubblicata per una stagione e scomparire nell’entropia delle edizioni economiche”. Capite che si può nascere anche con un particolare talento nel raccontare storie, ma per scrivere un’opera dalle “qualità durature”, un’opera da presentare al Grande Editore e non destinata a scomparire “nell’entropia delle edizioni economiche”, bisogna avere fede, oltre che in Dio (e nel sesso), nella letteratura e nelle sue “leggi proprie”. I veri scrittori, infatti, scrive Singer nel saggio che dà il titolo alla raccolta, non possono essere atei per la semplice ragione che per la loro stessa natura devono litigare con i sommi poteri. Possono insultare Dio, ma non lo possono negare”. Leggi anche: Francesco M. Cataluccio | I. B. Singer dalle parti di via Krochmalna

UN MURALE PER LE DONNE DI MARINEO

UN FIORE ROSSO SULLA TOMBA DI GRAMSCI

Anche questo 27 aprile la Igs Italia organizza un momento di ricordo presso la tomba di Antonio Gramsci, al Cimitero acattolico (via Caio Cestio 6, presso la Piramide, a Porta San Paolo, Roma). L'appuntamento è per domenica 27 alle ore 11. Tutte e tutti possono partecipare: saranno letti alcuni passi dalle Lettere dal carcere e pronunciati brevi discorsi. Venite e portate con voi un fiore rosso da lasciare sulla tomba di Gramsci.

L. CANFORA, Il resto del mondo è stufo dell' Occidente

TRUMP AL DI LA' DELLA FOLLIA

Sergio Labate filosofo Trump ci disorienta, ma la storia non la la fa lui. Consoliamoci con Hegel Domani, 14 aprile 2025 Siamo in preda a un’illusione ottica: per capire il presidente americano, non è a lui che dobbiamo guardare. Il tycoon non è la causa, ma l’effetto di un lungo processo trasformativo in atto. Per capire Trump, bisogna guardare a Musk Per conto mio, l’unico che mi permette di capirci qualcosa del caotico incedere di Donald Trump è Hegel. Non si spaventino i lettori, il perché proprio Hegel dovrebbe aiutarci a capire le incomprensibili mosse trumpiane è molto semplice, come si vedrà. Ma procediamo con ordine. In queste settimane ho letto analisi che cercano di decriptare le mosse di Trump e che sostengono tutto e il suo contrario. Non è un limite di chi lo osserva, ma dell’osservato. Da un certo punto di vista sembrerebbe un insieme di comportamenti anarchici: senza legge, ordine, coerenza logica. Le mosse sui dazi degli ultimi giorni sono soltanto l’ultima conferma. Bisogna essere indulgenti col nostro disorientamento: stiamo cercando di comprendere la coerenza complessiva di annunci e azioni che non possiedono alcuna coerenza. Da un certo punto di vista nemmeno le categorie psichiche ci vengono in aiuto. Trump non sembra pazzo, ma confuso. Come tutti sappiamo, il folle non è mancante di razionalità, possiede anzi una lucidità alternativa. Il folle è così intelligente da risultare incomprensibile. Giocare a scacchi col folle può essere un pessimo affare, perché egli avrà una strategia tanto complessa quanto misteriosa. Nessuna lucida follia Al contrario, Trump disorienta perché non è Caligola: potrebbe nominare il proprio cavallo senatore, ma potrebbe anche non farlo. Oppure potrebbe farlo e poi cambiare idea. Chi può dirlo? È questa sua imprevedibilità ciò che davvero sfinisce: non c’è alcuna lucida follia da diagnosticare. Se vogliamo davvero capire cosa farà Trump fissandoci sulle mosse di Trump, finiremo per non capire niente. Il che però ci irretisce, perché siamo ormai tutti rassegnati all’idea che un uomo solo al comando conti di più della storia che l’ha preceduto. Non abbiamo difficoltà a credere che in poche settimane un presidente appena eletto possa smantellare tutta la tradizione della democrazia in America e trasformare alleati consolidati in nemici da insultare. Intendiamoci, questa singola persona ha il potere per forzare le cose e muovere verso questa rottura di equilibri antichi, ovviamente. Ma il fatto che abbia il potere per farlo non vuol dire affatto che possa farlo. Processi oggettivi, culturali e storici Ecco Hegel. Il quale suggeriva di pensare che la soggettività pura non può determinare l’oggettività della storia, da cui anzi è necessariamente determinata. Non c’è alcuna autonomia istituente nel soggetto e le sue mosse vanno comprese all’interno delle circostanze oggettive che lo precedono e lo ospitano, non il contrario. Diamo ormai tutti per scontato che i processi politici siano processi soggettivi, e invece sono processi oggettivi, culturali e storici. Perché questo suggerimento vagamente hegeliano dovrebbe lenire il nostro disorientamento di fronte a Trump? Per almeno due motivi. Innanzitutto possiamo riconoscere che Trump non è la causa di un processo di radicale trasformazione degli equilibri politici, ma ne è l’effetto. Egli non fa altro che portare a termine un passaggio epocale che dura ormai da un po' e che ha come obiettivo la sostituzione della democrazia degli uguali con la democrazia spezzata, che consolida le disuguaglianze piuttosto che contrastarle. La novità di Trump sta nell’accelerazione del processo e nella brutalità delle sue manifestazioni. Ma dal punto di vista del contenuto, non c’è da aspettarsi da Trump nulla che possa andare contro questa tendenza oggettiva di lungo corso. Primo passo per allievare il nostro disorientamento, dunque. Adesso sappiamo che per capire Trump, non è al Trump confusionario che dobbiamo guardare, ma alla storia da cui proviene e da cui è determinato. Guardare gli interessi oggettivi Poi dobbiamo ricordarci che Trump non è un soggetto autolegittimato. Il suo potere emerge grazie alla legittimazione di sfere oggettive d’interessi materiali, a partire dai grandi monopoli capitalistici che esibiscono il loro appoggio nei suoi confronti. Il rapporto tra Trump e questi grandi portatori d’interessi è tutto a favore di questi ultimi. Egli non potrà mai fare nulla che vada contro di loro. In questo modo il caso dei dazi si chiarisce, finalmente. Se spostiamo lo sguardo verso gli interessi oggettivi di chi rappresenta, allora possiamo perlomeno scommettere che i dazi non saranno mai usati per limitare la libera circolazione dei capitali, ma piuttosto potranno essere agitati come minaccia per definire un nuovo ordine globale su base competitiva a partire dal ripristino del primato degli stati nazione. Ecco il secondo passo contro il disorientamento: per capire Trump, non è a lui che dobbiamo guardare, ma a Elon Musk (e ai capitalisti predatori come lui). Non so se Hegel abbia rassicurato i lettori come fa con me. Quel che è certo è che affidarsi all’oggettività dei processi storici permette di tornare alla complessità di un mondo che non può essere ridotta all’arbitrio soggettivo di un autocrate, benché molto potente.

COLPO DI STATO NEL PAESE PIU' POTENTE DEL MONDO?

COLPO DI STATO NEL PAESE PIU' POTENTE di Sergio Benvenuto A leggere la stampa italiana, ci si fa l’idea che i dazi di Trump siano iniziativa di un pazzo che non capisce nulla d’economia e che porterà all’inflazione e al declino economico del proprio paese. Dietro la tracotante guerra commerciale ci sarebbe solo un’operazione demagogica populista che ignora ogni buon senso economico. Ahimè, Trump è un ignorante nel senso accademico del termine, ma non è un pazzo e nemmeno un idiota, e conosce bene il business. Anche quello politico. L’imposizione di dazi a destra e a manca, anche all’interno del proprio paese, è a mio avviso solo la prima fase di una strategia che dovrebbe portare a un regime molto simile a quello autocratico della Russia di Putin. La seconda fase verrà con le esenzioni ed eccezioni: gli alti dazi si applicheranno non a tutti, alcuni non saranno tenuti a pagarli. Ovviamente saranno coloro che andranno a Canossa da Trump e da Musk, i quali diranno loro: “se sei con noi, allora sarai exception”. E cosa significa “essere con noi”? Significa assecondare i progetti politici della presidenza, anche quelli più ripugnanti. Con questo ricatto il governo si assicura un pieno appoggio di industriali e imprenditori, ma non solo. Qualche esempio. Si potrebbe costringere una grande impresa ad assumere meno neri e meno “etnici”. Oppure costringere la stessa impresa a non investire in certi paesi sgraditi che si oppongono alla linea Trump-Musk. O finanziare campagne di odio razziale o di demonizzazione degli LGBTQ+. Togliere i finanziamenti ai media di opposizione, come è già accaduto con il Washington Post. E così via. Per poter portare a termine il colpo di stato che la banda Trump sta perpetrando oggi, occorre assicurarsi il controllo dei grandi poteri che contano oggi: le grandi imprese, i media, la giustizia e… per quanto alcuni non vogliano sentirlo, il consenso della popolazione. Con le grandi imprese e i media vale il sistema delle eccezioni ad hoc, come abbiamo detto. Forse il tandem Trump-Musk non avrà bisogno di ricorrere alla rozzezza della mafiocrazia putiniana, potrà non ricorrere alla cupezza dei processi simil-staliniani contro chiunque non si allinei al potere, né a far volare dalla finestra chi ostacolerà la strada del potere. Basterà il ricatto economico. Mettiamo che Meloni voglia seguire la strada di Trump e che intenda sottomettere del tutto l’informazione televisiva al proprio esecutivo. Si tratterà così di spegnere la sola TV che ancora alberga voci di opposizione, La7, dato che la RAI e Mediaset sono già acquisite. Basterà imporre a tutte le reti private un minimo irrisorio di pubblicità. Ora, le tv private senza pubblicità muoiono presto. Basterà emanare un decreto che faccia eccezione per le reti Mediaset e per tutte le altre reti che diventino megafono del regime. Questa tattica vale per ogni impresa che abbia basi commerciali. Così, i paesi europei che prenderanno una posizione dissidente rispetto allo “spirito europeo”, che insomma si metteranno fuori dell’Europa per seguire le fisime di Trump, verranno premiati con eccezioni. Siccome gran parte dell’economia europea vive dell’esportazione verso gli USA, i paesi o le aziende che verranno graziate dal governo USA avranno il privilegio di poter ancora esportare in America. Mentre gli altri… Questo Meloni lo sa, da qui la sua oscillazione: sta aspettando i risultati del golpe trumpiano. Se questo riesce, non avrà più dubbi: mollare l’Europa e divenire un satellite di Trump, come la Bielorussia è con la Russia oggi. Quanto alla magistratura, Trump domina già la Supreme Court federale. Se tutti gli avvocati o i giudici conservatori d’America si appellassero in ultima istanza alla Corte Suprema, l’avrebbero sempre vinta. Quanto agli stati riottosi – che sono i più ricchi e culturalmente importanti del paese, dalla California a New York – li si potrà ridurre alla ragione togliendo i fondi federali che comunque permettono in parte il loro funzionamento. Avremmo insomma l’esatto rovescio del tanto criticato neo-liberalismo, che voleva ridurre al minimo la politica per dare massimo spazio alla spontaneità del mercato: avremo un dominio politico sull’economia. Ovvero, la banda Musk-Trump deciderà anche della strategia industriale del paese. Quanto all’appoggio della popolazione, non bisogna farsi illusioni. Certo, conquistare il consenso popolare è un’operazione lunga, ma se la si fa bene questo consenso è assicurato. Nel corso di una ventina d’anni ho potuto seguire l’evolversi della popolarità di Putin in Russia. Mi colpiva il fatto che non solo la gente comune, anche intellettuali, scrittori, psicoanalisti… finissero per pensare che Putin avesse sempre ragione. “La Russia è Putin” finivano col dire. Certo c’è un 20% circa dei russi che resta anti-Putin, e sono molto amico di alcuni di questi. Costoro mi dicono che nel corso degli anni i media russi controllati dal regime hanno sviluppato una campagna di convinzione e di coesione patriottica a un livello molto sofisticato, che ha finito col convincere anche parte dell’intellighèntzia. I media danno ai russi l’immagine di un paese assolutamente libero e amichevole, minacciato però da un Occidente geloso dei propri privilegi, che puntella un regime ucraino anti-democratico e retto da nostalgici fascisti figli o nipoti dei nazionalisti ucraini che si schierarono con i tedeschi contro l’Unione Sovietica. Del resto è stato sempre così. Tutti gli storici sono concordi nel dire che il regime hitleriano ha goduto di ampio appoggio da parte della popolazione almeno fino agli inizi dei rovesci della guerra. E anche gli anti-fascisti italiani più tenaci hanno sempre ammesso che per alcuni anni, dalla proclamazione dell’Impero fino a guerra avanzata, il regime di Mussolini ha goduto di un consenso assolutamente “bulgaro”. E così possiamo dire della Cina di oggi, e di altri paesi del tutto soddisfatti dei dispotismi che li dominano. Tranne ovviamente le solite minoranze intellettualoidi di bastian contrari, snob irrilevanti per le masse popolari. Per esempio, c’è stato un ampio consenso al comunismo in Unione Sovietica fino alla fine degli anni 1970. Poi, per ragioni misteriose che nessuno veramente riesce a spiegare, questo consenso è caduto nel corso degli anni 1980. Prima la Perestrojka di Gorbachev, quindi il crollo del comunismo con Eltsin, sono gli effetti di questo declino dell’adesione al sistema, per cui in un certo senso il crollo del comunismo nel 1991 è stato “democratico”. Le dittature durano perché creano consenso nella massa. Da secoli si analizzano le ragioni profonde per cui i popoli accettano di buon grado i dispotismi, almeno fin quando questi appaiono vincenti. Cominciò già nel XVI° secolo Etienne de la Boétie con La servitù volontaria, e poi via via fino alle analisi del totalitarismo di Hanna Arendt, Georges Bataille, T.W. Adorno… fino a Crozier e Huntington e oltre. Si dirà: l’America è un paese troppo abituato al pluralismo delle idee e alla democrazia per lasciarsi imprigionare in una cultura di regime a cui si opporrebbe solo una manciata disarmata di intellettuali isolati dal comune sentire. E’ impensabile un’America che, nata all’insegna del freedom, finisca in un’autocrazia di tipo russo. Ora, questa impossibilità era data per scontata anche per la Germania negli anni 1930, il paese più ricco e colto d’Europa all’epoca, la nazione che aveva inventato la teoria della relatività e la meccanica quantistica, che godeva del pensiero filosofico e della produzione teatrale e cinematografica più fiorenti. Si pensava impossibile che fosse in breve tempo imbavagliata da una banda di fanatici esaltati e da “un imbianchino”, come veniva chiamato Hitler, un pittore fallito. Lo si pensò impossibile fino al febbraio del 1933.

ROSELLA CORRADO SULL' EREDITA' di FRANCESCO CARBONE

Pubblico di seguito il testo dell'intervento svolto ieri da ROSELLA CORRADO, al Castello di Marineo, in occasione della presentazione del libro dedicato alla memoria di Francesco Carbone: QUALE EREDITA’ DA FRANCESCO CARBONE? Il Convegno svoltosi all’ARS l’1 dicembre 2023, organizzato dal Centro Studi e Iniziative Marineo di Franco Virga e dal Museo delle Spartenze di Villafrati di Santo Lombino, (preceduto da altri due convegni svoltisi il primo a Villafrati il secondo a Marineo) ha contribuito a far conoscere molteplici aspetti della personalità di Francesco Carbone, della sua vita, del suo lavoro di intellettuale, artista, critico d’arte, promotore culturale, antropologo, ricercatore, organizzatore teatrale e regista di teatro sperimentale. Attività inscritte tutte in una dimensione politica dell’operare, politica intesa nel senso più alto e lato del termine, poiché l’operare di Carbone era tutto rivolto alla presa di coscienza e alla crescita civile degli abitanti del Territorio di Busambra. Per me il Convegno è stato particolarmente importante. Quando per via ereditaria io e mio marito abbiamo ricevuto un quadro di Francesco (Il pastello Tramonto ai Tropici), l’ho consegnato al corniciaio per sostituirne la cornice. In questa circostanza sono stati rinvenuti, sotto il pastello, quattro dipinti, due su tavola, due su cartoncino. Grande è stato lo stupore, l’emozione, la gioia di questa scoperta inaspettata, che ho comunicato subito alle amiche invitandole a venire a vederli, ma un pensiero mi rattristava: questi quadri non sarebbero mai stati conosciuti fuori dalla mia cerchia familiare ed anche la modalità del ritrovamento, così singolare, sarebbe rimasta soltanto un bel ricordo: per me. Accade poi che Franco Virga, incontrandomi un giorno in portineria mi dice sbrigativo: il convegno su Ciccio si farà, scrivi un pezzo sui quadri che hai trovato. Così nel raccontare la meraviglia del ritrovamento ho voluto offrire una mia lettura della fase pittorica figurativa di Francesco, risalente ai primi anni Sessanta, attraverso i dipinti, sette in tutto, a me pervenuti. I quadri sono legati al soggiorno in Africa e in Sudamerica di Ciccio e di quelle terre recano i colori forti e contrastanti ma rivelano anche il vissuto doloroso di Francesco e la sua inquietudine, mai rassegnata. Mentre raccontavo e descrivevo i quadri è sorta in me l’esigenza di capire le ragioni, qualora ce ne fossero, del nascondimento – casuale o voluto? – operato dall’artista. Queste ragioni vengono riprese e citate da Ketty Giannilivigni nella bella recensione intitolata QUALE ALBA PER GODRANOPOLI? dedicata al volume FRANCESCO CARBONE in memoria. E’ alla sua interpretazione di quell’occultamento che è bene prestare attenzione: . Continua Ketty: nascondere i primordi creativi nella melanconia di un tramonto appare di per sé un’operazione artistica; anzi, a una rilettura attenta della figura di Francesco Carbone, mediante gli scritti presenti nel volume, questo occultamento può svelare i tratti di un modo di vivere ed operare nel mondo di qualità non comune e conclude dicendo che forse l’intera eredità materiale, immateriale e spirituale di Carbone andrebbe riletta in quel gesto di affidamento al Tramonto ai Tropici delle opere sepolte al di sotto del quadro incorniciato. Un gesto da considerare alla stregua di un messaggio all’interno di una bottiglia dato in custodia alle acque da un naufrago. Ma ci sarà qualcuna/o che rinverrà la bottiglia e il messaggio al suo interno? E nel caso in cui ciò avvenisse questi sarebbe in grado di interpretare la missiva? Ebbene, io credo che i 15 relatori del Convegno tenutosi all’ARS abbiano dimostrato che l’eredità - umana morale artistica civile e politica - di Ciccio non è andata dispersa, anche se l’eredità più grande contenuta, concentrata, nel Museo etnoantropologico della Civiltà agropastorale e contadina GODRANOPOLI non è ancora stata del tutto raccolta e fatta rivivere come merita. Il Convegno dell’ARS però ha acceso i riflettori su Godranopoli, il Museo è stato già acquisito dal Comune di Godrano e la Regione Sicilia ha stanziato un finanziamento per il suo recupero edilizio e funzionale. E’ un’opportunità che la giunta comunale godranese ha colto comprendendo bene che Godranopoli è un fattore identitario per il piccolo paese di Godrano. Per Francesco Carbone GODRANOPOLI era un IMPERATIVO TERRITORIALE e L’imperativo territoriale è un’esigenza che appartiene al luogo di origine come è scritto nel cartiglio del bellissimo Manifesto di cui Ciccio mi fece prezioso dono alla fine degli anni Ottanta. All’interno di un elaborato cartiglio dell’Università degli studi di Palermo (con timbro e firma del direttore dell’Opera universitaria) una imperiosa freccia indirizza verso Godrano e il Centro Studi e documentazione Godranopoli. GODRANOPOLI campeggia nella parte inferiore del manifesto con le parole chiave: “Immagini segni e momenti della comunicazione territoriale”. Il timbro del Centro e la firma autografa di Francesco Carbone sono posti accanto all’impronta digitale e al segno di croce di tal … Giuseppe fu Francesco residente a Godrano, la cui identità è attestata da Carbone. Questo manifesto mi sembra una sintesi perfetta dell’idea di Cultura di Carbone, senza barriere e compartimenti stagni, senza gerarchie, ma basata sulla comunicazione, la circolarità e la interconnessione dei saperi. Questa è forse l’eredità più importante di Carbone che solo il Museo Godranopoli aperto sul territorio, così come Francesco lo aveva concepito, potrebbe mantenere in vita. Quale vita futura per Godranopoli, vorrei che fosse oggetto di dibattito. ROSELLA CORRADO

12 aprile 2025

LA FABBRICA DI ADRIANO OLIVETTI

“Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare”. Così sosteneva l’imprenditore "illuminato" Adriano Olivetti, nato a Ivrea l’11 aprile 1901 (e scomparso prematuramente nel 1960), che riuscì a costruire una fabbrica a misura d’uomo, dove gli operai avevano uno stipendio più alto del 20-40 per cento rispetto alla paga sindacale e potevano disporre di servizi sociali (compresi asili nido), sanitari e trasporti. Adriano Olivetti fu anche uno dei primi finanziatori del Centro Studi e Iniziative di Danilo Dolci. (fv)

FREUD e MAHLER

FREUD E MAHLER Gustav Mahler è stato uno dei più grandi musicisti e compositori di ogni tempo. La sua musica, elegante e carica di pathos, è ancora oggi capace di suscitare intense emozioni. Artista precoce e dal grande talento, visse una vita tormentata e carica di dolore. Figlio di un padre brutale e di una madre malata, nato con ben 9 fratelli, ben 5 morirono precocemente, uno di loro morì a 13 anni, uno sì suicidò a 22 anni e infine uno dei pochi sopravvissuti venne rinchiuso in manicomio. Il carattere di Mahler era descritto dagli amici come ossessivo e carico di malinconia; forse a testimonianza di questi vissuti, in una sua composizione, l’artista scrive: “dunkel ist das Leben, ist der Tod” - “oscura è la vita, è la morte”, alla fin di ogni strofa del primo dei 6 “Lieder del Das Lied von der Erde”. Inoltre, Mahler soffriva per le discriminazioni legate alla sua origine ebraica: “Sono tre volte senza patria: un boemo tra gli austriaci, un austriaco tra i tedeschi e un ebreo tra i popoli di tutto il mondo.” Oltre all’infanzia difficile, Mahler, secondo la moglie Alma Schindler, subì “3 colpi di scure del destino”: il lutto senza fine per Putzli, la figlioletta Maria (morta a 5 anni nel 1907 di scarlattina e difterite, dopo il fallito tentativo di salvarla con una laringectomia), la diagnosi di un grave vizio cardiaco ed infine la cacciata dall’Opera di Vienna (per entrare nella quale aveva accettato di diventare cattolico). Su tutto questo, si abbatté la notizia del tradimento di Alma: oramai stanca di tollerare l’impotenza e il nevroticismo di Mahler, Alma cercò le attenzioni di uno sconosciuto architetto di 27 anni, Walter Gropius, conosciuto ai bagni di Tobelbad (Graz) dove Alma era andata “per curarsi i nervi”. Il tradimento venne scoperto in modo buffo e maldestro: il giovane amante, come in un lapsus, scrisse l’indirizzo di Mahler in una lettera per Alma e il musicista ricevette la lettera al posto della moglie, cadendo nella disperazione più nera. A questo punto, Mahler decise di chiedere aiuto a Sigmund Freud, il padre della Psicoanalisi. Abbiamo alcune testimonianze dell’incontro tra Freud e Mahler: l’artista, divorato da dubbi e incertezze, aveva domandato e disdetto l’appuntamento per ben tre volte, mettendo alla prova la pazienza di Freud. Alla fine, i due si incontrarono. La terapia consta in un’unica lunghissima seduta, di ben quattro ore, avvenuta a Leida, il 26 o il 27 agosto 1910, durante le vacanze estive di Freud. Il messaggero tra i due era Nepallek, parente di Alma. I due passeggiarono lungo la città: Mahler si raccontò a Freud, esplorando i suoi vissuti verso Alma e raccontandosi senza riserve. Abbiamo delle tracce di questa seduta così particolare, poco “ortodossa”, da diverse fonti: da Freud stesso, in una lettera a Reik, da Mahler, in alcuni telegrammi alla moglie, da Alma stessa e da Ernest Jones, biografo di Freud. In una lettera di molti anni dopo (1935), Freud scriverà di ricordare di aver colto una sorta di “Mariencomplex” (fissazione materna) in Mahler e il suo totale “ritiro della libido” dalla relazione con Alma. La musica sarebbe stata uno strumento per tentare di ricomporre un oggetto idealizzato materno, per sempre perduto. Freud rassicurò Mahler che la sua età non fosse un ostacolo per amare la moglie: egli avrebbe cercato la propria madre Maria, nella moglie Alma Maria, che egli chiamva a volte solo Maria. Secondo quanto ne disse Freud, Mahler avrebbe confermato la bontà di questa interpretazione. Nella sua lettera Freud raccontò della stima maturata per Mahler: nonostante la singola seduta non avesse potuto “scalfire la nevrosi ossessiva”, Freud vide in Mahler un “uomo di genio”, con una sorprendente “capacità di comprensione psicologica”: è come se “un singolo raggio di luce fosse trapelato da un misterioso edificio” commentò Freud. Mahler raccontò con entusiamo ad Alma di questa seduta: egli scrisse un telegramma che recita: “bin frölich unterredung interessant aus strohhalm balken geworden” (“sono felice, colloquio interessante, la paglia è diventata una trave”). In una messaggio successivo: “in proposito ho fatto una strana scoperta: vedi, che sedessi alla mia scrivania o pensassi solo a te mentre ero lontano, era sempre lo stesso struggente desiderio nostalgico. Era sempre latente in me questa dipendenza da te -Freud ha proprio ragione - tu eri costantemente per me la luce e il punto centrale!”. Jones, nella sua biografia di Freud, racconta come “Mahler” soffra “di folie de doute a causa della sua nevrosi ossessiva”. Nelle proprie memorie, anche Alma racconta la sua “versione dei fatti”: Mahler è descritto come un marito devoto, ma spinto dal desiderio di idealizzare la moglie, impedendo ogni sua forma di realizzazione artistica e personale. Messa su un piedistallo, Mahler l’avrebbe considerata un essere intoccabile. L’articolo completo è disponibile sul sito. Per approfondire: -Albano Lucilla - Il divano di Freud. Mahler, l'Uomo dei Lupi, Hilda Doolittle e altri. I pazienti raccontano il fondatore della psicoanalisi; -Alessandro Zignani – Il canto della terra. Mahler, Freud e l’America: il romanzo degli addii; -Ernest Jones – Vita e opere di Sigmund Freud.

LA CONFUSIONE AUMENTA SOTTO IL CIELO

Ma non mi sembra per nulla condivisibile l'ottimismo di Mao! (fv)

PERCHE' CI SI ALZA LA MATTINA?

PERCHÉ CI SI ALZA LA MATTINA? di Rocco Ronchi Ci sono delle buone ragioni per sperare? Oppure, detto più prosaicamente ma anche in modo maledettamente più concreto, “perché ci si alza la mattina?”. Se nella notte ci si è rigirati insonni nel letto era proprio perché quella domanda non sembrava trovare risposta. La speranza in certe ore notturne è proprio come morta. “Perché ci si alza allora la mattina?” chiede il filosofo Ernst Bloch nella sua conversazione del 1964 con Theodor W. Adorno, da lui chiamato amichevolmente Teddy (Qualcosa manca… sulla contraddizione dell’anelito utopico contenuta in Ernst Bloch, Speranza e utopia, Conversazioni 1964-1975, a cura di R. Traub e H. Wieser, Mimesis, Milano 2022). Quali sono le radici metafisiche di quella folle speranza in un giorno migliore senza la quale l’esistenza sarebbe intollerabile? Il curatore italiano del libro Eliano Zigiotto, come Laura Boella, che lo correda con una breve e intensa post-fazione (dal titolo: Il coraggio di sperare e di disperare) insistono nel “datare” queste conversazioni: sono, ripetono, di cinquanta – sessanta anni fa quando il mondo era profondamente diverso, quando la guerra fredda imperava e la filosofia era praticata come atto critico e sovversivo. Bloch e Adorno (per non parlare di György Lukács, compagno di studi filosofici del giovane Ernst, anche lui fugacemente presente in questi dialoghi) erano filosofi che nell’hegelo-marxismo avevano il loro orizzonte di riferimento teorico e nel socialismo quello pratico. Le loro strade certo divergono, anche drammaticamente, ma tutti condividono la speranza in una trasformazione radicale dello stato di cose, anzi il loro dissidio nasce proprio dai diversi modi in cui questa comune speranza può essere declinata. Ora, quel mondo è indubbiamente tramontato al punto che nemmeno chi si propone di rinnovare la malmessa sinistra italiana osa pronunciare quella parola, “socialismo”, che per Ernst come per Teddy era pressoché un’ovvietà. “Socialismo” era per loro “il sogno di una cosa” latente nel “processo storico”, di cui si poteva discutere la praticabilità ma non certo la “necessità”. Eppure quella domanda, “perché ci si alza la mattina?”, rimbomba più che mai nella nostra testa frastornata. Ciò si deve, forse, al fatto che quella domanda non ha a che fare con il tempo lineare degli eventi, piuttosto va alla radice del tempo, chiede di qualcosa che non è più tempo, qualcosa che se ne sta fuori dal tempo, come il celebre exaiphnes di cui parlava il Parmenide immaginato da Platone, un “improvviso” (così bisognerebbe tradurlo) che del cambiamento è l’origine senza essere parte del tempo (per questo la sua traduzione con “istante” è fuorviante). Nella prima delle conversazioni raccolte nel volume (anch’essa del 1964), l’intervistatore Jurgen Rühle fa una domanda a bruciapelo a Bloch. Una vera domanda “giornalistica”. Gli chiede: lei che ha scritto Il Principio speranza (1959), lei che ha rimesso in circolazione la necessità dell’utopia, una nozione che gli stessi marxisti, volendo essere “scientifici”, disprezzavano, lei ci sa dire in due parole “qual è l’idea di fondo della sua filosofia?”. Bloch non esita a rispondere. Da vero filosofo sa che ogni pensiero vivente si nutre di una sola intuizione sebbene occorrano migliaia di pagine e un’intera esistenza di ricerca per comunicare al mondo la sua ineffabilità di principio. Quel punto, dice, è l’“oscurità dell’attimo vissuto”, quel punto è la strana natura del presente, del “qui e ora”. Non bisogna alzare gli occhi al cielo per cercare il mistero. Ciò che è massimamente vicino, perché io lo sono, adesso, è in realtà l’enigma. L’immediato, come lo chiamano i filosofi, è l’enigma, l’immediato è la sorgente costante dello stupore. “Una vita” denota il tempo speso nel tentativo di decifrarlo e la “storia degli uomini”, con i suoi conflitti, con le sue catastrofi e con le sue rivoluzioni, è il succedersi degli “esperimenti”, quasi sempre fallimentari, con cui l’umanità ha cercato di risolvere quella X incognita nell’equazione del presente vissuto. Il presente, a ben considerarlo, ha infatti una ben strana natura. Il presente è intimamente aporetico, è un vicolo cieco. Ad esso non posso sottrarmi – provatevi, se ci riuscite, a fuoriuscire dal suo orizzonte claustrofobico… –, in esso tutto passa e, tuttavia, il presente resta a me, mentre lo sono, ignoto: per vedere qualcosa, per sentire qualcosa, per sapere qualcosa non bisogna forse fare sempre un passo indietro, articolare una distanza, esiliarsi in un “punto di vista” necessariamente esterno alla “cosa” che si ha di fronte? Come recita il proverbio tedesco, ai piedi del faro che illumina il mare c’è il buio e la visione, spiegano i fisiologi, è debitrice di una macchia cieca al fondo della retina. “Utopia” è allora il nome “preciso” che la speranza umana ha dato al momento apicale in cui quell’equazione sarà finalmente risolta, all’attimo immenso in cui il presente potrà dirsi veramente vissuto in pienezza. È un nome “preciso” perché utopia significa al contempo nessun luogo (ou-topos) e il luogo del bene (eu-topos). continua e si conclude qui: https://www.doppiozero.com/ernst-bloch-perche-ci-si-alza...

L' ETERNO RITORNO DEL GATTOPARDO

L’ ETERNO RITORNO DEL GATTOPARDO CORSERA SETTE questa settimana dedica la copertina all’ ultima versione televisiva del capolavoro di Tomasi di Lampedusa. Nell’ articolo relativo si sostiene, non del tutto a torto, che “l’ opportunismo resta un carattere nazionale”. (fv)

PAGINE ATTUALI DI ALBERTO MORAVIA

"Quando non si pensava tanto, e il primo impulso era sempre quello buono; quando la vita non era come ora ridicola, ma tragica, e si moriva veramente, e si uccideva, e si odiava, e si amava sul serio, e si versavano vere lacrime per vere sciagure, e tutti gli uomini erano fatti di carne ed ossa e attaccati alla realtà come alberi alla terra. A poco a poco l'ironia svaniva e restava il rimpianto; egli avrebbe voluto vivere in quell'età tragica e sincera, avrebbe voluto provare quei grandi odi travolgenti, innalzarsi a quei sentimenti illimitati... ma restava nel suo tempo e nella sua vita, per terra." Gli indifferenti - Alberto Moravia

GIULIANA SALADINO E' ANCORA VIVA

CENTO ANNI DI GIULIANA SALADINO LUNEDÌ 14 APRILE 2025 CONVEGNO PER FARE MEMORIA DELL’IMPEGNO DELLA GIORNALISTA PALERMITANA Fare memoria dell’impegno di Giuliana Saladino, a cento anni dalla sua nascita, è obiettivo del convegno che si svolgerà Lunedì 14 Aprile a partire dalle ore 10.00 presso l’Istituto Comprensivo Giuliana Saladino (via Barisano da Trani, 7) e che continuerà alle ore 16.00 all’Istituto Gramsci Siciliano. Un’intera giornata di riflessione con un programma di lavoro intenso ed articolato. La riscoperta dell’opera e della attività militante di Giuliana Saladino sarà l’occasione per rileggere la vita quotidiana di un pezzo della storia d’Italia, attraverso il multiforme impegno dell’intellettuale palermitana: la dimensione giornalistica, la vocazione letteraria, la testimonianza civile e politica. L’attualità del pensiero di Giuliana Saladino è riscontrabile nella sua capacità di analisi e di rappresentazione di grandi questioni sociali e politiche: la questione epocale delle migrazioni; le trasformazioni urbane e sociali delle città, di Palermo in particolare; la centralità del ruolo delle donne nella società; la riorganizzazione del potere mafioso e la risposta dei movimenti antimafia; la metamorfosi strutturale della politica. Si comincia alle ore 10.00 all’istituto Comprensivo Giuliana Saladino con un momento musicale e con il saluto di benvenuto delle studentesse e gli studenti della scuola. Dopo i saluti istituzionali del Provveditore agli Studi di Palermo, Fiorella Palumbo, i lavori saranno introdotti dal Dirigente scolastico Giusto Catania. Nel pomeriggio i lavori riprenderanno all’istituto Gramsci, con l’intervento di Salvatore Nicosia, Presidente dell’Istituto Gramsci Siciliano. Durante la giornata seguiranno numerose testimonianze di chi ha lavorato con Giuliana; i ricordi di chi ne condiviso il percorso, le riflessioni di chi ne ha studiato e valorizzato l’impegno.

L' AMMIREVOLE RIGORE DI T. W. ADORNO

«Un individuo che non ha mai provato disgusto per quello che tutti pensano e tutti dicono, per quello che gli è messo davanti senza che l'abbia chiesto, un soggetto simile non può giungere alla filosofia. Bisogna vedere la costrizione, l'ingiustizia e la menzogna che stanno dietro le ovvietà, bisogna vedere come certi modi individuali di comportamento, che considerati isolatamente appaiono giusti e ragionevoli, meritino invece una valutazione completamente diversa, se considerati nel tutto sociale a cui appartengono. Bisogna far luce sul contesto di accecamento, come si sono sforzati di fare Eraclito nell'antichità e Schopenhauer nella filosofia moderna. La filosofia è la resistenza contro tutti i clichés». Theodor W. Adorno, "Terminologia filosofica"

LA GUERRA ALLA SCIENZA E AL GIORNALISMO

Kit di autodifesa nell’era Trump 2 #2. La guerra alla scienza e al giornalismo [I tempi sono oscuri e spaventosi. Non basta più stare dentro i ruoli assodati e fare bene il proprio lavoro. Ci sono strumenti da condividere e ci sono stili di pensiero e d’azione da salvaguardare. Non sappiamo ancora chi si servirà di cosa. Ma prepariamo il terreno. Ho cominciato la serie con questo pezzo, pubblicato il giorno dell’investitura di Trump. a. i.] di Andrea Inglese Il Trump del secondo mandato non è solo il nome del declino palese dell’egemonia statunitense e dell’ordine mondiale a essa connesso, ma ne è probabilmente anche il precipitatore, il fattore accelerante. Questo è almeno il quadro entro cui è leggibile la politica estera dell’attuale presidenza. Io vorrei, però, mettere in relazione questa gesticolazione imperialista degli Stati Uniti e una tendenza di fondo che emerge nella sua politica interna, ossia l’attacco nei confronti delle istituzioni scientifiche e del contropotere costituito dai media cosiddetti mainstream. Su tale fronte, di guerra dichiarata nei confronti dei “nemici interni”, l’azione di Trump indica una più generale modalità di governo, che potremmo anche chiamare di “populismo autoritario”, ma che s’iscrive, in sostanza, in una concezione neofascista dei rapporti tra potere dei governanti e popolazione. Pur emergendo all’interno delle istituzioni di una democrazia liberale, l’autoritarismo populista alla Trump aspira allo smantellamento puro e semplice dei vincoli legali e dei contropoteri effettivi, sociali e culturali, che prevengono e ostacolano un esercizio dittatoriale del potere. (Spiegherò in una glossa, perché non ho nessun imbarazzo a parlare di neofascismo, e a identificarlo come una tendenza manifestamente presente nell’azione di tutta una serie di capi di governo attuali – da Putin, ovviamente, a Netanyahu o Erdogan – che agiscono, “ufficialmente”, all’interno di regimi più o meno democratici.) Se nel corso del Novecento, le istituzioni scientifiche (università, laboratori di ricerca, ecc.) sono state sottoposte a critica sociale, e più in generale a una critica delle loro inevitabili matrici ideologiche, ciò non toglie che la libertà accademica e tutta una serie di procedure, collettivamente discusse, di verifica e di prova, hanno permesso alle varie discipline di evolvere, rettificarsi, e creare anche i propri anticorpi nei confronti dei diversi poteri (economici, politici, religiosi, ecc.) che le possono condizionare. Ma questo è vero anche per il “quarto potere”, quello dell’informazione attraverso i media di massa (stampa e televisione). Nella storia della controcultura statunitense degli anni Sessanta e Settanta, ad esempio, i mass media sono rappresentati sia come delle macchine condizionanti e di propaganda, sia come degli strumenti di controllo democratico, in grado di denunciare le derive autoritarie sempre in agguato nelle politiche di governo. (Il caso Watergate rivelato dai giornalisti Woodward e Bernstein del quotidiano nazionale “Washington post” portò alle dimissioni di Richard Nixon dalla presidenza. L’inchiesta cominciò nel 1972, non impedì la rielezione di Nixon, ma lo scandalo che suscitò costrinse alla fine il presidente a dimettersi nel 1974.) Né la ricerca scientifica, né l’attività giornalistica sono di per sé baluardi della democrazia o pratiche al servizio della popolazione, ma lo possono diventare in seguito al diffondersi di una cultura democratica. E in ogni caso, la loro autonomia è sempre stata, almeno in linea di principio, difesa dalla maggioranza della classe politica affermatasi nel Dopoguerra. Il New Deal internazionale e l’affermazione dell’egemonia statunitense In un libro da poco uscito (Pensare dopo Gaza, Timeo, 2025) e di cui Nazione Indiana ha pubblicato un estratto, Franco Berardi “Bifo” scrive: “Pensare dopo Gaza significa anzitutto riconoscere il fallimento irrimediabile dell’universalismo della ragione e della democrazia, cioè il dissolversi del nucleo stesso della civiltà”. Possiamo essere del tutto d’accordo che il massacro da parte israeliana della popolazione di Gaza e il progetto di pulizia etnica che lo accompagna costituiscano il fallimento completo del progetto dei paesi occidentali e degli Stati Uniti, in particolare, di farsi garanti, politicamente, economicamente, militarmente di un “universalismo della democrazia”, ossia di un diritto internazionale basato su principi democratici. È importante, però, al seguito di una tale affermazione, ricordare due cose: “l’universalismo della democrazia” s’impone in realtà a partire da una provincia specifica del mondo (gli Stati Uniti) e in un periodo storico preciso (dopo il 1945). In altri termini, con l’affermarsi a livello mondiale dell’egemonia statunitense su quella britannica, vi è anche un modello di “democrazia” (la democrazia cosiddetta liberale) interna agli Stati e nelle relazioni “interstatali” (basate sui principi del diritto internazionale) che si diffonde dal centro alla periferia, dal Nord al Sud del mondo. Che ci piaccia o no, questa forma di “democrazia” è storicamente legata alle vicissitudini dell’egemonia degli Stati Uniti, e non è un caso che, proprio questo paese, oggi la ritenga “sacrificabile”, dal momento che la sua supremazia mondiale è messa in discussione, almeno sul piano economico, sociale e culturale. Mi riferisco qui al lavoro che Giovanni Arrighi e altri studiosi del capitalismo hanno realizzato intorno alla nozione di “economia-mondo” e alla sua evoluzione storica in relazione alla teoria dei cicli egemonici. Per quel che m’interessa qui mettere in luce è sufficiente rinviare a un libro che è stato recentemente ripubblicato: Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, a firma di Arrighi e Beverly J. Silver. Nel 2024, Mimesis ha reso disponibile l’edizione italiana di questo lavoro apparso per la prima volta negli Stai Uniti nel 1999. Non ho intenzione di addentrarmi né nell’armamentario teorico-metodologico di Giovanni Arrighi né nella presentazione generale del libro appena citato. È sufficiente ricordare che, in controtendenza rispetto a quanto decantavano gli analisti di geopolitica in quella fine secolo (le Torri gemelle svettavano ancora solidamente nel cuore di Manhattan), i due autori annunciano i rischi di caos sistemico che sono inerenti alla perdita di egemonia delle superpotenza statunitense, nel momento stesso in cui essa sembra trionfare su qualsiasi altra nazione e modello politico-economico del pianeta. La perdita di egemonia ovviamente non significa un indebolimento immediato della supremazia militare degli Stati Uniti. Per Gramsci, l’egemonia è quel sovrappiù di potere che un gruppo sociale dominante può accaparrarsi, quando convince che il perseguimento dei propri interessi favorisce anche gli interessi dei gruppi subordinati. Quando questa credenza viene meno nei gruppi subordinati, si ha un “dominio senza egemonia”. Il gruppo dominante s’impone sul resto della società in virtù esclusivamente della sua forza. Nel contesto dell’economia-mondo e della leadership internazionale, l’applicazione di tale teoria permette di descrivere come uno Stato riesca a persuadere gli altri non solo della sua maggiore forza (economica, militare), ma anche dei vantaggi “universali” che una sua leadership garantirebbe. Così Arrighi e Silver: “il termine ‘leadership’ è usato per descrivere il fatto che uno stato dominante guidi il sistema in una direzione voluta, e che sia opinione comune che facendo ciò persegua un interesse generale”[1]. Quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti soppiantano l’Europa e in particolare il Regno Unito nella “guida” del mondo, non lo fanno vendendo il semplice “sogno americano”, come pacchetto puramente inconsistente di illusioni. Se il sogno è stato venduto per almeno mezzo secolo, ciò vuol dire che esso riposava su qualche elemento concreto. Il sogno, in effetti, è accompagnato da alcune importanti istruzioni per l’uso, istruzioni che gli stessi Stati Uniti applicano in casa loro e s’impegnano ad applicare nei paesi che accolgono quel medesimo sogno. “L’esatta natura della riforma globale sostenuta dagli Stati Uniti fu molto influenzata dall’esperienza del New Deal. Il cuore della ‘filosofia’ del New Deal ‘stava nel fatto che solo un governo forte, benigno e tecnico poteva assicurare al popolo ordine, sicurezza e giustizia’ (Schurmann 1980, p. 56)’”[2]. Potremmo notare, rispetto alla citazione di Franz Schurmann, che il governo Trump 2 si presenta come debole (alcuni suoi decreti sono immediatamente ostacolati dalla giustizia a e dalla stessa amministrazione americana), malevolo (colpisce esplicitamente alcuni gruppi sociali che fanno parte della popolazione) e incompetente (l’équipe di governo ha già suscitato scandalo per attitudini dilettantesche e persino rischiose sul piano della sicurezza nazionale). Ma questo rovesciamento di attitudine è altrettanto palese sul piano della politica estera: minacce di estensioni territoriali, indebolimento o tradimento delle alleanze storiche, rappresaglie commerciali per trionfare nella partita della competizione mondiale. La classe politica che si è schierata con Trump ha preso atto che non solo il “New Deal” non è più realizzabile né a livello nazionale né a livello globale (la competizione sui mercati mondiali non lo permette, a fronte, per altro, di nuovi sfidanti), ma anche la riserva di “credibilità” in una guida statunitense del mondo considerata come “vantaggiosa” per altri Stati (del Nord o del Sud) si è del tutto consumata. Il sogno americano, una volta che le istruzioni per l’uso si sono rivelate inservibili o anacronistiche, appare come una pura illusione, un’insopportabile impostura. Se questa è la situazione del paese, allora i trumpiani si dicono che il governo dentro e fuori casa si farà con la pura forza: la minaccia poliziesca o quella militare. Meno scienza e giornalismo, più Intelligenza Artificiale e piattaforme Il secolo americano si aprì sullo sfacelo che il fascismo e la guerra mondiale avevano prodotto sia sulla borghesia capitalistica sia sulla popolazione dei lavoratori. A ciò si aggiungevano le tensioni non certo sopite che la rivoluzione comunista continuava a produrre nel mondo attraverso la sua portavoce principale, ossia l’Unione Sovietica. È solo in virtù di tale sfacelo, che le classi capitalistiche riconobbero l’utilità di tutta una serie di istituzioni scientifiche e giuridiche. Queste ultime potevano agire come elementi “risolutori”, sia sul piano delle politiche tra Stati (evitando nuove guerre mondiali) sia su quello delle politiche tra classi (evitando nuove rivoluzioni). Così Arrighi e Silver: L’esperienza del New Deal non insegnò ai politici statunitensi soltanto l’importanza di un governo interventista; suggerì anche quale tipo di istituzioni governative fosse più adatto a disinnescare questioni sociali e politiche esplosive. La soluzione istituzionale preferita dal New Deal interno fu l’agenzia regolatrice “neutrale”, che reinterpreta i conflitti sociali e politici come problemi tecnici di efficienza e produttività. A livello globale, analogamente, gli Stati Uniti sostennero la proliferazione di organizzazioni regolatrici internazionali “neutrali” finalizzate ad affrontare una pletora di problemi sociali e politici potenzialmente esplosivi.[3] Siamo alle origini, quindi, di quella che si chiama tecnocrazia, e che all’inizio del XXI secolo è diventata l’alternativa “di sinistra” all’autoritarismo populista, pronto scivolare verso il neofascismo. Fin dall’inizio – Arrighi e Silver lo ricordano – la “sinistra istituzionale”, ossia quella “responsabile” e non rivoluzionaria, è associata al nuovo patto tra capitale e lavoro istituito dal New Deal. E ancora oggi è la sinistra, negli Stati Uniti e in Europa, a difendere quel modello di sviluppo e di rapporti tra governo della società e saperi scientifici. Il problema, però, risiedeva (e risiede) a monte del sogno americano, e stava nella sua fisionomia specifica, non tanto e non solo nelle sue “istruzioni per l’uso”. Il New Deal e la tecnocrazia potevano funzionare fintantoché si applicavano alla classe operaia bianca e maschile del Nord del mondo e alle eventuali élites del Sud del mondo. La fine dell’egemonia era già inscritta nel tipo di progetto egemonico che gli Stati Uniti avevano avviato nel Dopoguerra: Abbandonando la promessa egemonica dell’universalizzazione del sogno americano, l’élite statunitense dominante non ha fatto che ammettere che la promessa era ingannevole. Come dice [Immanuel] Wallerstein, il capitalismo mondiale, così come è attualmente organizzato, non può soddisfare simultaneamente ‘le richieste combinate del terzo mondo (relativamente poco a persona, ma per molte persone) e della classe lavoratrice occidentale (relativamente poche persone, ma molto a persona)’.[4] A rafforzare la constatazione di Wallerstein, si è aggiunta la crisi climatica, nel momento in cui le istituzioni scientifiche sono finalmente uscite dalla condizione di pura neutralità, per reclamare delle azioni da parte della comunità internazionale. In altri termini, non soltanto il sogno americano è irrealizzabile a fronte delle diseguaglianze economiche e sociali che separano i paesi del Nord da quelli del Sud del mondo (e la considerazione del lavoro maschile rispetto a quello femminile), ma esso non è comunque ecologicamente (o climaticamente) sostenibile. Il vicolo cieco è doppio. E questa consapevolezza la dobbiamo alla prima conferenza mondiale sul clima di Ginevra del 1979, dove gli scienziati di più di cinquanta nazioni si sono trovati unanimemente d’accordo sulla necessità di prevedere e prevenire i cambiamenti climatici che dipendessero dall’attività umana e i cui effetti fossero negativi per il benessere dell’umanità. Da allora sappiamo che il sogno americano di un “consumo mondiale di massa” è impossibile, senza condurre a catastrofi che potrebbero avere una portata molto superiore a quelle della Seconda Guerra Mondiale. Ma sappiamo anche che la lotta per preservare il consumo di massa nei soli paesi del Nord del mondo, non si limiterà a perpetrare le disuguaglianze attuali, ma le aggraverà di molto. In un tale contesto, è chiaro che il negazionismo e lo scetticismo climatico sono una componente ideologica fondamentale del “dominio senza egemonia” dell’era Trump 2. Il modello “tecnocratico”, ossia l’idea che la scienza potesse svilupparsi in modo autonomo e interagire con le decisioni politiche dei governanti, è oggi abbandonato, perché venendo meno “il sogno” universalista, vengono meno anche “le istruzioni per l’uso” (lo sviluppo dei saperi per risolvere conflitti e problemi). D’un tratto, gli stessi scienziati statunitensi realizzano che il loro modello di scienza è frutto di specifiche circostanze storiche e ideologiche. Il 31 marzo, 1900 scienziati hanno firmato un appello pubblico (Public Statement on Supporting Science for the Benefit of All Citizens – Documenti Google), volto a denunciare lo smantellamento delle istituzioni scientifiche volute dalla nuova presidenza. Scrivono: Per oltre 80 anni, saggi investimenti da parte del governo degli Stati Uniti hanno costruito l’impresa di ricerca della nazione, rendendola invidiabile nel mondo intero. Sorprendentemente, l’amministrazione Trump sta destabilizzando questa impresa, tagliando i fondi per la ricerca, licenziando migliaia di scienziati, eliminando l’accesso pubblico ai dati scientifici e facendo pressione sui ricercatori affinché modifichino o abbandonino il loro lavoro per motivi ideologici. Non è un caso, che gli scienziati oggi parlino di una continuità progettuale durata 80 anni, ossia risalente a quel New Deal avviato nel Dopoguerra. I licenziamenti massici di funzionari e ricercatori (siamo nell’ordine delle migliaia), assieme ai tagli sui finanziamenti delle università e delle agenzia statali, produrranno conseguenze gravi e difficilmente calcolabili, e non solo per gli Stati Uniti. Una delle agenzie più colpite è la NOAA, l’Amministrazione nazionale per l’oceano e l’atmosfera, che svolge compiti di sorveglianza climatica. La radicalità di Trump non ha precedenti. Fino a oggi, i conservatori guardavano con grande sospetto l’universo delle scienze sociali, accusato di rinunciare alla neutralità scientifica per ideali dubbi e perniciosi come l’uguaglianza sociale, la parità tra i sessi, l’interesse per le minoranze, ecc. E l’offensiva di Trump si è subito diretta contro questo settore della ricerca, attraverso la messa all’indice di circa 700 parole chiave, che sarebbero la spia dell’ideologia “woke” soggiacente ai programmi di studio. Ma nelle parole incluse nella lista oltre ad esserci “diversità”, “genere”, “trauma”, “donna”, “segregazione”, troviamo anche “cambiamento climatico”, “biais [nel senso di distorsione] implicito”, “energia pulita”, ecc. Le conseguenze riguardano anche programmi legati all’epidemiologia o al controllo delle specie invasive nell’ambiente. Per il presidente e i suoi seguaci tutta la scienza, sia quella sull’uomo sia quella sulla “natura”, va subordinata alle esigenze della sua politica estrattiva (“drill, baby, drill”). D’altra parte, egli ha già ripetuto più volte che il riscaldamento climatico è un’invenzione cinese, per rallentare nei paesi occidentali la crescita economica. Bruno Latour, in un libro del 2017, aveva già individuato la concezione di fondo del gruppo sociale che si riconosce in Trump. In Où atterir ? Comment s’orienter en politique (Dove atterrare? Come orientarsi in politica), uscito per La Découverte, scriveva: Per la prima volta, un movimento di grande ampiezza non pretende più di affrontare seriamente le realtà geopolitiche, ma si situa esplicitamente al di fuori di tutti i vincoli, letteralmente offshore – come i paradisi fiscali. Ciò che conta prima di tutto, è di non dover condividere con gli altri un mondo, che sappiamo non sarà mai più comune.[5] Il neofascismo ha quindi ha che fare con due movimenti congiunti: la secessione dei ricchi, che pretendono di godersi il “fiore” del pianeta e delle risorse in esso custodite, e la negazione delle prove di realtà, che potrebbero mostrare come non soltanto questo progetto è iniquo socialmente, ma anche catastrofico sul piano ambientale. Si potrebbe pensare che un tale progetto sia alla lunga condannato, perché – salvo mettere Marte a disposizione – i ricchi di domani si troveranno seduti su un ramo ampiamente segato. In realtà, il progetto è fin dall’inizio irrealistico: una società, anche molto meno complessa della nostra, non può durare 30 giorni senza precipitare nel caos, se una eterogenea popolazione sociale fatta di giovani e meno giovani, donne e uomini, lavoratori qualificati e non qualificati, autoctoni e immigrati, miliardari e poveracci, non la manda avanti e la mantiene in piedi giornalmente, con lavoro remunerato (poco o tanto) e attività non remunerata. La secessione dei ricchi può funzionare realisticamente solo se riesce a reintrodurre un regime schiavistico non metaforico, secondo il vecchio stile coloniale. Ma ottanta anni di democrazia, seppure limitata, hanno diseducato gli spiriti, per cui non ci sono più gli schiavi di una volta: ci sono riottosi immigrati illegali, che alla fine è più semplice deportare che controllare. Le donne sono certo un altro grossissimo problema: nel corso soprattutto della seconda metà del Novecento, le quote di forza-lavoro femminile sono aumentate dappertutto, dal momento che il capitale andava in cerca di manodopera a basso costo. E questo fenomeno si è accompagnato con quello increscioso del femminismo. Insomma, è chiaro che la secessione dei ricchi rischia di essere un progetto chimerico. Nonostante tutti gli sforzi per realizzare delle perfette gated community, c’è sempre un povero che rientra dalla finestra, perché c’è da pulire il cesso, tagliare l’erba, aggiustare le telecamere di sorveglianza. Bisogna inserire ora una terza componente per illustrare appieno il sogno neofascista che anima Trump e i suoi sostenitori: l’intelligenza artificiale. I soldi che Trump sottrae alla scienza, sospetta di fornire prove di realtà, li dirige, attraverso investimenti privati, nello sviluppo dell’Intelligenza artificiale (il piano “Stargate” prevede l’investimento di 500 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni per realizzare le infrastrutture che supporteranno i progressi nel campo dell’IA). E ha ben ragione: se si hanno piani irrealistici e catastrofici come la secessione dei ricchi, attraverso il consumo “per pochi” dell’intero pianeta, meglio dotarsi di schiavi “affidabili”. E su questo punto, almeno, Trump conserva un’innegabile lucidità: nonostante tutti siano intenti a elucubrare sul giorno in cui lo scenario Matrix si realizzerà, il presidente conosce uno per uno gli imprenditori che tengono la macchina dalla parte del manico (OpenI, Oracle, Microsoft, ecc.). L’IA, almeno per ora, ha dei padroni certi e precisi. E un giorno robottini docili potranno pulire i cessi, tagliare il prato e aggiustare le telecamere di sorveglianza, senza che mano di povero, di lavoratore o lavoratrice non qualificata, intervenga. L’obiettivo ultimo dell’intelligenza artificiale generale forse non è un super Einstein, che mi aiuti a investire in modo più fruttuoso qualche milione di euro nel mercato azionario mondiale o un super oncologo che mi liberi genialmente da un tumore maligno, ma una super Esmeralda che gestisca con efficacia assoluta tutti i miei bisogni e capricci domestici, quelli sessuali inclusi ça va sans dire. Disorganizzata la scienza, rimane da screditare il contropotere giornalistico dei media mainstream, che negli Stati Uniti, ricordiamolo, sono molto meno docili, prudenti e filogovernativi di molta stampa e TV europea. Anche su questo terreno Trump ha degli alleati “oggettivi”: le piattaforme e i social network che hanno aperto la strada a nuove forme di propaganda. Queste si basano su di un presupposto tipicamente populista: se i media di massa nascondono a volte delle cose, se mentono su alcune questioni (e non c’è dubbio, che sia così), allora i media di massa mentono sempre, nascondono tutto. La verità va cercata altrove, presso coloro che hanno il coraggio di gridarla e che ne sono i testimoni diretti. Qualsiasi sentore di mediazione, di articolazione discorsiva, di cautela, di pretesa neutralità e di messa a distanza del proprio oggetto d’interesse, viene percepito come la spia di una verità “debole”, poco affidabile. Più, invece, i propositi sono difesi violentemente, più sono autentici. Più l’opinione personale si esprime libera dal regime complesso della prova e dell’indagine, più essa è vicina al cuore pulsante della verità. In questo nuovo scenario, che vede prevalere l’intensità della comunicazione sull’ampiezza dell’informazione, l’estrema destra trionfa, favorita dagli algoritmi, dalla mancanza di moderazione, dall’uso spregiudicato dell’intelligenza artificiale. È la stessa Media Matters for America a confermarlo, una ONG statunitense fondata nel 2004. Uno studio recente ha sottolineato che alla propaganda più faziosa e apertamente politica, l’estrema destra ne affianca una più subdola, portata avanti da personalità che realizzano video, podcasts, trasmissioni di vario tipo in rete non apertamente politiche, ma sportive e d’intrattenimento. Esistono anche quelle orientate a sinistra, ma l’estrema destra vince in modo evidente la battaglia delle cifre. Essa raggiunge un numero molto maggiore di followers. In questi giorni, esimi economisti si sforzano di trovare o meno una coerenza nello scontro tra Trump e il resto del mondo sui dazi doganali. Quanto alla battaglia contro la ricerca scientifica e il giornalismo, essa presenta una rara coerenza. In ogni caso, nell’era (molto traballante) del “dominio senza egemonia” la tecnocrazia e la fabbricazione del consenso sono lussi che l’impero in declino non si può più permettere. La scommessa è la secessione dei ricchi verso un pianeta solo per loro. Ma perché il piano abbia successo, bisognerebbe che i poveri si limitassero, come fanno in parte ora, a sbranarsi fra di loro o a restare a casa impauriti di perdere quel poco di terreno che si sentono ancora sotto i piedi. Non è detto, però, che questo continui ad accadere. Non è detto che i movimenti sociali di contestazione, come hanno già fatto nel corso del Novecento, non siano in grado di guastare il delirio dei nuovi fascisti. [1] Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo, introduzione al testo di S. Mezzadra, nota al testo di A. Arrighi, Mimesis, 2024 (1999), p. 57. [2] Idem, p. 263. [3] Idem, p. 266. [4] Idem, p. 278. [5] Bruno Latour, Où atterir ? Comment s’orienter en politique, La Découverte, 2017, p. 51. * Glossa sul “neofascismo” Molti si lamentano dell’affievolirsi, nella cultura italiana, dello spirito antifascista che è iscritto nella nostra costituzione e che dovrebbe aver orientato il progetto di società, in Italia, nel Dopoguerra. Altri, in seguito a questa constatazione, hanno concluso che l’antifascismo è sorpassato, è una postura nostalgica o anacronistica. In principio è bene essere antifascisti, ma i problemi attuali poco c’entrano con il passato storico, con le vicende del Ventennio fascista. Quindi richiamarsi a quel fascismo, oggi, non ha vero impatto, né mobilita delle forze vive. È una strana concezione dell’antifascismo, in quanto lo vede in un’ottica fondamentalmente retrospettiva. Io non comprendo perché l’antifascismo inscritto nella nostra Costituzione democratica dovrebbe avere senso solo nei riguardi di una minaccia fascista che prendesse le stesse forme del fascismo italiano del Ventennio. Ho avuto una discussione proprio qui, su NI, con Giorgio Mascitelli intorno a questo punto. E continuo a sostenere che l’antifascismo dev’essere retrospettivo (lavoro di memoria sulla nostra storia nazionale) e prospettivo, ossia capace di guardare alle forme di regime antidemocratico, che possono emergere all’interno delle nostre democrazie incompiute e limitate, ma comunque democrazie. (Non affronto qui il discorso del rapporto tra oligarchia e democrazia. Alcune cose fondamentali sono state dette in proposito da Jacques Rancière in un libro del 2005, intitolato La haine de la démocratie (La Fabrique). Le oligarchie del Nord del mondo devono fare costantemente i conti con un progetto democratico, che s’incarna in una cultura diffusa e in una serie di lotte sociali che a quella cultura fanno riferimento e che, nello stesso tempo, ridefiniscono continuamente.) Tornando a Trump: una spia della tendenza neofascista è quella di trasformare chi contesta la sua politica e la sua visione ideologica, in nemici dello Stato e della Nazione, nemici quindi non riconosciuti né come avversari politici né come soggetti sociali legittimi con cui giungere a qualche forma di compromesso. Il nemico è una semplice minaccia da neutralizzare, in tutti i modi che la gestione del potere governativo e il monopolio della violenza rendono possibili. I limiti di questa gestione e di questo monopolio non dipendono più, in questo scenario, dalle istituzioni né dalle leggi, ma dalla semplice volontà del capo e dei suoi accoliti.