“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
21 settembre 2025
CONTRO LA PROPAGANDA BELLICISTA
SOCRATE PUO' AIUTARCI ANCORA
Simona
Forti
Filosofia, ultima difesa dal potere
La Stampa, 21 settembre 2025
Quali
risorse offre la filosofia per resistere al potere? O meglio, per resistere agli
eccessi di potere, considerato il fatto che non esistono isole felici di
assoluta libertà. Che cosa possiamo aspettarci da quella forma di sapere che ha
preso vita proprio intorno alla figura di un uomo – Socrate – il cui demone lo
ha dissuaso dal partecipare attivamente alle cariche pubbliche, ma lo ha
condotto ad accettare la condanna a morte? Sappiamo come Platone ha reagito al
trauma dell’ingiusta morte del suo maestro: se la città deve essere giusta, i
filosofi, cioè coloro che vivono secondo giustizia, devono governare, seguendo
un ordine ben preciso dell’anima e della polis. Eppure, paradossalmente, è
stato Socrate, non Platone, a rappresentare il modello esemplare della
saggezza, proprio grazie a quella sua virtù «senza contenuti» e senza ordine; a
quel sapere di non sapere che non offre risposte definitive, ma rimane segnato
da un’incessante inquietudine. Non c’è grande filosofo, o grande filosofa,
infatti, che non abbia fatto i conti con l’esemplarità socratica, tanto più
intensamente quanto più il contesto in cui viveva era politicamente difficile.
Non c’è
dubbio che stiamo vivendo in tempi bui e che avremmo bisogno più che mai del
coraggio di Socrate, del suo modo di ricercare la giustizia e la verità. Lo spazio dato oggi alla filosofia
nel discorso pubblico testimonia senz’altro di questo bisogno. E non saremo mai
abbastanza grati a chi organizza dibattiti e festival, a chi restituisce alle
piazze la loro funzione di far incontrare le persone, dove l’esercizio della
cittadinanza si riattiva e spesso si trasforma in ciò che Hannah Arendt
chiamava «felicità pubblica».
C’è
tuttavia un pericolo, ci avvertiva già Socrate, nell’eccessiva ricerca della
visibilità: quello di utilizzare la retorica, la parola efficace, per avere
successo, per imporre una «doxa» parziale, un’opinione di parte che sovrasti le
opinioni degli altri. Più
le occasioni di visibilità si moltiplicano più, potremmo dire col filosofo
ateniese, il rischio della sofistica aumenta. Quanti sono anche oggi i
«sofisti» che, senza disagio alcuno, esibiscono come dissidenti e
controcorrente prese di posizioni ideologiche, del tutto conformi ad un copione
già scritto? E che dire di tutti quelli che almanaccano per trovare il modo di
essere originali senza tuttavia rinunciare ad accontentare, a tutti i costi e
nel momento giusto, le aspettative del pubblico? In tutti questi casi, più che
con esempi di resistenza e critica al potere, abbiamo a che fare con una
esemplarità artificiosa, costruita, che vuole imporsi e stupire. Ma non è così
che l’esemplarità diventa tale. Essa non è la trasmissione volontaria di un
modello. È piuttosto simile ad un incontro, a un incrocio tra vettori di forze,
a un contagio, grazie a cui la vita di qualcuno cambia forse per sempre la
propria direzione. È l’esempio che ci scuote dalle nostre abitudini, che forse
attualizza un potenziale di liberazione e di libertà che non pensavamo di
avere.
Non è
infatti un caso che, nei momenti critici della storia, la filosofia si sia
rivolta all’esemplarità della «parresia» socratica* per trovare in essa la
forza viva di una resistenza autentica. Perché parresia non significa semplicemente libertà di
parola. Indica, si, un’attività verbale, ma in cui il parlante si lega alla
verità, o meglio si fa testimone della verità in cui crede, attraverso la
franchezza del suo modo di vivere, di un ethos a cui non viene meno, nonostante
i rischi a cui la sua scelta lo espone. In uno dei suoi ultimi testi prima
della morte, Michel Foucault scriveva: «Nella parresia il parlante fa uso della
sua libertà e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità
invece della falsità e del silenzio, il rischio di morte invece della
sicurezza, la critica invece dell’adulazione (…) o dell’apatia morale» (Discorso
e verità nella Grecia antica).
Non è
molto nota al pubblico una delle ragioni dell’interesse foucaultiano per questa
pratica antica. Lungi
dall’essere filologica o solo filosofica, l’attenzione per Il coraggio
della verità (come appunto si intitola la sua ultima serie di lezioni
dedicate alla parresia) muove da un contesto politico concreto: le nuove forme
di resistenza che stavano prendendo piede nei regimi dell’Est Europa. Tornare
oggi sul legame tra la parresia come pensata da Michel Foucault e la
«vita-nella-verità» come intesa dai cosiddetti dissidenti di Praga – in
particolare Jan Patočka e Vaclav Havel – non equivale dunque a riportare in
luce un particolare momento della storia della filosofia. È piuttosto un modo,
attraverso il loro socratismo, di far rivivere l’esemplarità di Socrate e,
sempre grazie a loro, far filtrare un po’ di luce in questi tempi oscuri.
Questo cercherò di fare a Modena oggi.
(*) La
parresia socratica si riferisce al coraggio di Socrate nel dire la verità senza
timore, anche a costo di provocare le ire di chi ascolta e di rischiare la
propria vita, come dimostrato dalla sua condanna a morte.
«La parresia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria
relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce
che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere
meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie il
parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del
silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica
invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o
dell’apatia morale». Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia
antica, Donzelli 2019.
17 settembre 2025
PAROLE E COSE NEL MONDO D'OGGI
Francesca Mannocchi
ediOriente, se anche le parole vanno in g
Francesca Mannocchi
Medio Oriente, se anche le parole vanno in guerra
La Stampa 16 settembre 2025
Ieri il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha pubblicato sui suoi social un video che mostra una torre bombardata nella Striscia di Gaza, e la didascalia: «la torre del terrore al Ghafri si schianta in mare. Stiamo soffocando i focolai di terrorismo». Il giorno prima aveva pubblicato un video che mostra la distruzione dell’Università Islamica a Gaza City, la cui didascalia recita: eliminare le fonti di incitamento e terrorismo.
L'esercito israeliano si prepara a un’occupazione su vasta scala di Gaza City, intensificando le operazioni nel cuore urbano della Striscia, distruggendo torri residenziali e sedi universitarie che fungevano da rifugio per gli sfollati, emerge con sempre maggiore chiarezza che anche il linguaggio usato dal governo israeliano è un tassello dell’arsenale.Un linguaggio che non si limita, cioè, ad accompagnare l’avanzata militare ma la precede, ne costruisce la narrazione, ne plasma la legittimità e ne previene il dissenso, un linguaggio che è dispositivo della guerra in grado di tradurre un’invasione annunciata in una misura difensiva, e la distruzione sistematica di un’intera città in un’operazione chirurgica di “sicurezza”. Un linguaggio per cui ogni crimine è nascosto dietro la retorica della guerra al terrore.
Sempre due giorni fa, sempre il ministro della Difesa Katz, pubblicando il video dell’ennesimo palazzo residenziale disintegrato dalle bombe israeliane, aveva scritto: «House of cards. The skyline of Gaza is changing». Il profilo urbano di Gaza, ci dice Katz, sta cambiando. Un messaggio (all’opinione pubblica interna e agli alleati) che va oltre la retorica bellica: Gaza non è più una città, ma un obiettivo da demolire, non più spazio urbano abitato, ma materiale da spianare. Quella che Katz chiama «trasformazione» è in realtà l’annientamento di Gaza City e il cambiamento dello «skyline» è la distruzione della sua identità.
«House of cards. The skyline of Gaza is changing» è una frase che sintetizza la brutalità della strategia militare, un lessico che non è un sottoprodotto della violenza, una sua conseguenza, al contrario è essa stessa azione bellica, non accidentale ma sofisticata, pervasiva. Precede l’attacco, lo legittima e lo spettacolarizza.
Chi controlla le parole, controlla la realtà percepita, lo sa bene Netanyahu come lo sapevano i suoi predecessori. Negli anni, ma con particolare spudoratezza negli ultimi 23 mesi, la politica israeliana - guidata da Benjamin Netanyahu e sostenuta da alcune delle frange più estreme del suo governo - ha operato una sistematica manipolazione linguistica con un obiettivo preciso: piegare il linguaggio per giustificare atti di occupazione, di repressione e sfollamento.
Questo uso strategico della parola, che non è neutro, rappresenta una forma sofisticata di violenza simbolica: serve cioè a ridefinire la realtà in termini accettabili per l'opinione pubblica interna ed esterna, dissimulando la portata morale e giuridica delle azioni compiute e – nel caso dell'offensiva a Gaza – cercando di mascherare i veri obiettivi della guerra, non liberare la Striscia da Hamas, ma occuparla militarmente e sfollare forzatamente i palestinesi che la abitano.
È sullo slittamento tra parole e realtà che si gioca da anni la legittimazione della condotta di Israele, uno slittamento che ha paralizzato la comunità internazionale, incapace troppo a lungo di trovare il coraggio per smascherare un inganno.
Nella narrazione israeliana dominante, da decenni, i territori palestinesi occupati sono territori “contesi”, così da delegittimare lo status giuridico dell’occupazione, le barriere di separazione sono “muri di sicurezza” per i cittadini israeliani, la detenzione senza processo diventa “arresto amministrativo” per rendere l’abuso un tecnicismo, le aggressioni dei coloni diventano incidenti per rimuovere la disparità di potere, celare la violenza unilaterale e creare l’impressione di una simmetria che, però, non esiste. La parola uccidere viene sostituita da “neutralizzare”, per disumanizzare l’avversario e rendere accettabile, persino neutro, l'uso della forza.
Per decenni questa torsione del linguaggio ha reso accettabile l'inaccettabile, trasformando la segregazione, l'annessione, gli abusi e l'uso sproporzionato della forza in necessità. Oggi Netanyahu, che si rivolge a due pubblici diversi - quello interno, sempre più radicalizzato, e quello internazionale, sempre più scettico - modula la sua retorica in modo bifronte.
Parla internamente di «diritto storico» di «conquista biblica» mentre all’esterno, ripete gli slogan della «lotta al terrorismo», della «legittima difesa». Ma entrambi i registri hanno lo stesso obiettivo: normalizzare l’eccezione, rendere dicibile l’indicibile e far apparire inevitabile ciò che è, in realtà, una scelta politica precisa: il controllo permanente di Gaza, la cancellazione della prospettiva di uno Stato palestinese, l’annientamento dell’autodeterminazione.
Le parole definiscono ciò che è normale, ciò che è deviante, ciò che è accettabile, ed è soprattutto in tempi di crisi che il potere accentua il controllo discorsivo, che non si limita a bombardare ma costruisce prima l’idea che ciò che sta bombardando sia il male assoluto. Così e solo così il campo semantico si può restringere (e con lui la morale), chi muore non è più un bambino ma un danno collaterale, chi fugge non più un profugo ma un potenziale scudo umano. Michel Foucault, filosofo della genealogia del sapere e del potere, ci ha insegnato che non c'è verità innocente, che ogni discorso è l’effetto di una relazione di potere, e che ciò che chiamiamo realtà è, spesso, una costruzione linguistica.
Questo vale anche - forse soprattutto - in tempo di guerra. Quando Netanyahu o i portavoce dell’Idf parlano di «zona umanitaria» per riferirsi a un’area bombardata e poi destinata a ricevere migliaia di civili sfollati, stanno manipolando il linguaggio: non è una zona umanitaria, è una zona di deportazione forzata, spesso non sicura.
Quando si parla di «migrazione volontaria» da Gaza, si omette deliberatamente che i civili vengono indotti con la minaccia della morte a lasciare le proprie case. Quando si definisce ogni struttura ospedaliera come «centro operativo terroristico», si disumanizza la funzione medica per legittimare il bombardamento. In questa cornice, Gaza City è stata recentemente descritta come un «rifugio di terroristi». In realtà, è una città con oltre mezzo milione di abitanti, molti dei quali civili, donne, bambini.
Definirla solo come un «nido di Hamas» serve a costruire una narrazione in cui ogni colpo sparato è giustificato. È la teoria foucaultiana del potere: si tratta di produrre una verità, una verità che autorizzi l’abuso, che neutralizzi il dissenso e che, venendo ai nostri giorni, trasformi una campagna militare in una missione moralmente legittima. Il linguaggio del potere agisce così: costruendo categorie morali, creando gerarchie di umanità, e distinguendo tra chi può essere ucciso e chi va protetto. È questo il cuore del potere discorsivo. E non metterlo in discussione significa esserne complici.
16 settembre 2025
LA VISIONE SCIASCIANA DEL POTERE COME FATTO CRIMINALE
La mia visione della storia italiana sotto specie
criminale ha radici più lontane, più indietro nel tempo, dell'Affaire Moro. Ma
non direi soltanto della storia italiana. Ho avuto sempre, forse legata a certi
fatti avvenuti negli anni della mia infanzia (per esempio: la fucilazione di
coloro che avevano intenzione - soltanto intenzione - di attentare alla vita di
Mussolini), una visione del potere come fatto criminale. Il potere statale. Il
potere mafioso. Il potere ecclesiastico per come poi mi si disvelò attraverso i
libri, quando cominciai a conoscere la storia dell'Inquisizione. Libri come
"Morte dell'inquisitore" e "I pugnalatori", prima di quello
sul caso Moro, dicono esplicitamente di questa visione, di questa
preoccupazione, di questa ossessione. Ma anche tutti gli altri, credo. Anche se
meno esplicitamente.
Leonardo Sciascia intervistato da Jean-Noël Schifano nel 1985.
BERNARDO MATTARELLA CONTROVERSO
Quindi, il povero Sciascia adesso sarebbe “un intellettuale malaccorto”? Con tanto di articolo su La Stampa nel 1976?
MARIA PIA FARINELLA
28 agosto 2025
DANILO DOLCI PER LA PACE
Nel dicembre del 1975 il
Presidente e il vicepresidente del "Peace Memorial Museum" di
Hiroshima, invitati da Danilo Dolci, mostrarono ai bambini del Centro Educativo
di Mirto (Partinico) alcuni reperti dell'esplosione atomica del 6 agosto 1945
che, per la prima volta, distrusse una intera città: "Abbiamo portato in
dono le prove di un crimine che tutti hanno voluto cancellare".
Il giornale L' ORA di
Palermo il 18 dicembre 1975 dedicò la prima pagina all'iniziativa di Danilo e
Alberto Spampinato, nelle pagine interne, scrisse un bellissimo articolo.
In quel periodo lavoravo a
tempo pieno nel Centro Studi e Iniziative di Danilo e toccò proprio a me
preparare il comunicato stampa che illustrava l'evento che prevedeva, tra
l'altro, nel pomeriggio - nella sala consiliare del Comune di Partinico - una
conferenza di Danilo sul tema "La lezione di Hiroshima e l'educazione alla
nonviolenza nelle scuole" e la partecipazione di Ignazio Buttitta.
Danilo Dolci, con Aldo
Capitini e Bertrand Russell, sono stati forse gli uomini più impegnati del 900
a promuovere il valore della nonviolenza e della Pace nel mondo.
Come è noto il massimo
teorico italiano della nonviolenza è stato Aldo Capitini (1899-1968) e si sa
che il pensiero e l’opera del filosofo perugino sono stati un punto di
riferimento costante per Dolci. Fin dal principio, infatti, Capitini gli è
stato accanto: dal suo primo digiuno nel 1952 a Trappeto, nel lettino del
bambino morto d’inedia, al famoso “sciopero alla rovescia” del 1956, Danilo ha
trovato nell’autore de Il potere di tutti (1969) uno dei suoi principali
sostenitori.
Dolci è rimasto fedele allo
spirito del suo insegnamento[1] persino quando ha dissentito da alcune sue
posizioni. Basti ricordare, per tutti, il modo in cui Danilo accolse nel 1958
il Premio Lenin per la Pace conferitogli dall’ URSS di Nikita Krusciov.[2]
Partiamo da Capitini allora, anche perché
il suo pensiero – per dirla con Hegel – è più noto che realmente conosciuto.
Esiste un’ ottima antologia sulla sua opera curata da Giovanni Cacioppo.
Peraltro devo a quest’ultimo il mio incontro nel 1975 con Danilo Dolci e la mia
successiva collaborazione con il suo
Centro durata due anni.
In un libro che gli dedica
nel 1958, Capitini scrive: “Danilo è costante nel portare le cose alte a
contatto degli ultimi. Le cose alte sono: l’apertura nonviolenta, le decisioni
esatte, la cultura, l’arte, la musica; egli ha fondato a Trappeto un’università
popolare, costituito una biblioteca ha eseguito con i dischi davanti a
fanciulli e pescatori musiche di Bach,
Vivaldi, Beethoven, Mozart, Brahms […].Gli ultimi sono quelli che non ce la
fanno, i malati, i deboli, i doloranti, i pazzi spesso per denutrizione, le
prostitute, gli sfruttati, le famiglie dei carcerati con i giovanissimi in
pericolo di buttarsi al banditismo, sono i banditi stessi, che Danilo frequenta
e conosce bene (dimostra che sono diventati tali per miseria e disperazione), sono gli analfabeti.
Egli vorrebbe che si cominciasse da loro”.
Danilo Dolci non lo
dimenticherà mai e lo ricorderà, dieci anni dopo la morte, con questi
bellissimi versi:
Aldo:
ne sento il vuoto –
impacciato a camminare
ma enormemente libero e attivo,
concentrato
ma aperto all’angoscia di ognuno,
non ammazzava una mosca
ma era veramente un rivoluzionario,
miope
ma profeta.
(Danilo Dolci, da
Creatura di creature, 1979)
Marco Grifo, in un suo recente lavoro
storico-critico sull’ opera del Dolci, superando nettamente i tratti agiografici che
hanno contrassegnato finora le pubblicazioni
sul Gandhi italiano, ha ben documentato i rapporti di Danilo con B. Russell per
il disarmo nucleare e contro l’ intervento americano nel Vietnam. Memorabile rimane, inoltre, la Marcia per la
Pace e lo sviluppo della Sicilia occidentale che si svolse nel marzo del 1967. Non
si può dimenticare, infine, quanto scrive, già ammalato in un letto di
ospedale, contro le basi NATO alla Maddalena, in Sardegna, sede di sommergibili
nucleari statunitensi, intorno alla quale vige un sistema di servilismo ed
omertà, perché il dominio del complesso militare-industriale agisce come “un
tipico esempio di sistema mafioso-clientelare (segreto parossistico e violento)
a livello internazionale” (Comunicare legge della vita, 1997), contro il
quale è necessario lottare ancora. Del resto, come aveva avvisato già nel 1971
“non è possibile prevedere se gli uomini sceglieranno di sopravvivere o di
suicidarsi: ma se sceglieranno la vita – per paura se non per amore – questa
scelta significherà l’invenzione sempre più scientificamente organica
dell’azione e della rivoluzione nonviolenta” (Non sentite l’odore del fumo?).
E’ troppo ricca la vicenda umana, sociale e
culturale di Danilo Dolci per poterla riassumere in poche righe. La cosa che mi colpì maggiormente di Danilo,
dopo i primi incontri, fu la sua straordinaria capacità di ascolto e di
comunicazione. Parlava poco ma le sue parole colpivano sempre nel segno.
Somigliava tanto il suo modo di comunicare a quello essenziale dei vecchi
contadini da cui Danilo ha appreso tanto ( vedi le sue Conversazioni
contadine, Einaudi 1962). Un elemento portante della sua opera,
generalmente trascurato dalla critica, va ricercato nell’attenzione particolare
prestata sempre, in modo non accademico, alle questioni linguistiche. Danilo ha
compreso immediatamente che - “PER ESSERE INTESO DA GENTE CHE SPESSO SI ESPRIME
PER PROVERBI (…) ED IN UNA LINGUA CHE E’
INSIEME CLASSICA E DIALETTALE” ( Il limone lunare, Laterza 1970, p. 5) - occorre saper parlare con la
stessa semplicità ed essenzialità dei vecchi contadini.
“CU
IOCA SULU ‘UN PERDI MAI”: è questo uno dei più
diffusi proverbi siciliani con cui cozza Dolci, appena arrivato in Sicilia, e
su cui riflette a lungo per capire la
psicologia e la storia del popolo siciliano. Non a caso lo utilizza per intitolare uno dei suoi libri in cui più apertamente affronta il nodo mafioso:
“CHI GIOCA SOLO”, Einaudi 1966.
Danilo sa che dietro al proverbio, oltre ad una concezione del mondo,
c’è la memoria delle sconfitte subite nella storia delle classi subalterne
meridionali, dai Fasci dell’ 800 alle più recenti lotte per il superamento del
feudo e la riforma agraria.
Dolci ha sempre creduto nella forza
liberatrice della parola. Oltre ad essere stato un grande comunicatore, Danilo
sapeva ascoltare e stimolare a parlare come pochi. Nei suoi gruppi di AUTOANALISI
– dai primi, con i contadini e i pescatori di Trappeto, agli ultimi con
i bambini di Mirto – l’esercizio espressivo ha occupato sempre un posto
centrale. Per Danilo ogni liberazione passa
attraverso la potenza espressiva della parola, la stessa scoperta di sé
e del mondo avviene grazie al linguaggio. Basti rileggere, da questa
prospettiva, i suoi libri per verificarlo. Soprattutto nei suoi primi libri
appare evidente come Danilo sia capace di valorizzare il dono naturale della
parola che hanno tutti, anche gli analfabeti: si ricordi, per tutti, la
testimonianza del giovane pastore
Vincenzo che Danilo incontra nel 1956
all’Ucciardone - dove viene rinchiuso per aver organizzato il famoso sciopero
alla rovescia per riparare una vecchia trazzera - e che, non a caso, trascrive e pone come
preambolo al suo famoso Processo
all’art. 4, Einaudi 1956 .
Danilo ha compreso bene la Sicilia e i
siciliani. E, soprattutto, quella parte del popolo che Gramsci chiamava “classi
subalterne”, di cui apprezzava le potenzialità creative. D’altra parte il suo
rapporto con la storia e le tradizioni del popolo siciliano è stato sempre
dialettico. Dolci amava la dialettica non meno dei vecchi braccianti che, come
Fifiddu Rubino, avevano partecipato all’occupazione delle terre incolte.
Ricordo che, conoscendo le mie simpatie per Gramsci e per il giovane Marx, mi
raccomandava sempre la lettura di un eretico marxista come Ernst Bloch. La sua
stessa originale teoria e pratica della nonviolenza ha preso le mosse da una
antica forma di lotta del movimento contadino: lo SCIOPERO ALLA ROVESCIA.
FRANCESCO
VIRGA aprile 2025
[1] Sul tavolo di lavoro di Danilo Dolci negli
anni settanta spiccava la bella antologia di scritti di Capitini, curata e
pubblicata nel 1977 da Giovanni Cacioppo: Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita,
Manduria.