21 settembre 2025

CONTRO LA PROPAGANDA BELLICISTA

 



La propaganda bellicista non si ferma e quando il nemico non c’è bisogna inventarlo. Ma io credo che i cieli d’Europa siano più pieni di marziani che di jet russi.

SOCRATE PUO' AIUTARCI ANCORA

 



Simona Forti 
Filosofia, ultima difesa dal potere
La Stampa, 21 settembre 2025

 

Quali risorse offre la filosofia per resistere al potere? O meglio, per resistere agli eccessi di potere, considerato il fatto che non esistono isole felici di assoluta libertà. Che cosa possiamo aspettarci da quella forma di sapere che ha preso vita proprio intorno alla figura di un uomo – Socrate – il cui demone lo ha dissuaso dal partecipare attivamente alle cariche pubbliche, ma lo ha condotto ad accettare la condanna a morte? Sappiamo come Platone ha reagito al trauma dell’ingiusta morte del suo maestro: se la città deve essere giusta, i filosofi, cioè coloro che vivono secondo giustizia, devono governare, seguendo un ordine ben preciso dell’anima e della polis. Eppure, paradossalmente, è stato Socrate, non Platone, a rappresentare il modello esemplare della saggezza, proprio grazie a quella sua virtù «senza contenuti» e senza ordine; a quel sapere di non sapere che non offre risposte definitive, ma rimane segnato da un’incessante inquietudine. Non c’è grande filosofo, o grande filosofa, infatti, che non abbia fatto i conti con l’esemplarità socratica, tanto più intensamente quanto più il contesto in cui viveva era politicamente difficile.

Non c’è dubbio che stiamo vivendo in tempi bui e che avremmo bisogno più che mai del coraggio di Socrate, del suo modo di ricercare la giustizia e la verità. Lo spazio dato oggi alla filosofia nel discorso pubblico testimonia senz’altro di questo bisogno. E non saremo mai abbastanza grati a chi organizza dibattiti e festival, a chi restituisce alle piazze la loro funzione di far incontrare le persone, dove l’esercizio della cittadinanza si riattiva e spesso si trasforma in ciò che Hannah Arendt chiamava «felicità pubblica».

C’è tuttavia un pericolo, ci avvertiva già Socrate, nell’eccessiva ricerca della visibilità: quello di utilizzare la retorica, la parola efficace, per avere successo, per imporre una «doxa» parziale, un’opinione di parte che sovrasti le opinioni degli altri. Più le occasioni di visibilità si moltiplicano più, potremmo dire col filosofo ateniese, il rischio della sofistica aumenta. Quanti sono anche oggi i «sofisti» che, senza disagio alcuno, esibiscono come dissidenti e controcorrente prese di posizioni ideologiche, del tutto conformi ad un copione già scritto? E che dire di tutti quelli che almanaccano per trovare il modo di essere originali senza tuttavia rinunciare ad accontentare, a tutti i costi e nel momento giusto, le aspettative del pubblico? In tutti questi casi, più che con esempi di resistenza e critica al potere, abbiamo a che fare con una esemplarità artificiosa, costruita, che vuole imporsi e stupire. Ma non è così che l’esemplarità diventa tale. Essa non è la trasmissione volontaria di un modello. È piuttosto simile ad un incontro, a un incrocio tra vettori di forze, a un contagio, grazie a cui la vita di qualcuno cambia forse per sempre la propria direzione. È l’esempio che ci scuote dalle nostre abitudini, che forse attualizza un potenziale di liberazione e di libertà che non pensavamo di avere.

Non è infatti un caso che, nei momenti critici della storia, la filosofia si sia rivolta all’esemplarità della «parresia» socratica* per trovare in essa la forza viva di una resistenza autentica. Perché parresia non significa semplicemente libertà di parola. Indica, si, un’attività verbale, ma in cui il parlante si lega alla verità, o meglio si fa testimone della verità in cui crede, attraverso la franchezza del suo modo di vivere, di un ethos a cui non viene meno, nonostante i rischi a cui la sua scelta lo espone. In uno dei suoi ultimi testi prima della morte, Michel Foucault scriveva: «Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità e del silenzio, il rischio di morte invece della sicurezza, la critica invece dell’adulazione (…) o dell’apatia morale» (Discorso e verità nella Grecia antica).

Non è molto nota al pubblico una delle ragioni dell’interesse foucaultiano per questa pratica antica. Lungi dall’essere filologica o solo filosofica, l’attenzione per Il coraggio della verità (come appunto si intitola la sua ultima serie di lezioni dedicate alla parresia) muove da un contesto politico concreto: le nuove forme di resistenza che stavano prendendo piede nei regimi dell’Est Europa. Tornare oggi sul legame tra la parresia come pensata da Michel Foucault e la «vita-nella-verità» come intesa dai cosiddetti dissidenti di Praga – in particolare Jan Patočka e Vaclav Havel – non equivale dunque a riportare in luce un particolare momento della storia della filosofia. È piuttosto un modo, attraverso il loro socratismo, di far rivivere l’esemplarità di Socrate e, sempre grazie a loro, far filtrare un po’ di luce in questi tempi oscuri. Questo cercherò di fare a Modena oggi.


(*) La parresia socratica si riferisce al coraggio di Socrate nel dire la verità senza timore, anche a costo di provocare le ire di chi ascolta e di rischiare la propria vita, come dimostrato dalla sua condanna a morte.
«La parresia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà, e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale». Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli 2019.

 

 


17 settembre 2025

PAROLE E COSE NEL MONDO D'OGGI

 


Gaza oggi


Francesca Mannocchi
ediOriente, se anche le parole vanno in g

Francesca Mannocchi
Medio Oriente, se anche le parole vanno in guerra

La Stampa 16 settembre 2025 

Ieri il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha pubblicato sui suoi social un video che mostra una torre bombardata nella Striscia di Gaza, e la didascalia: «la torre del terrore al Ghafri si schianta in mare. Stiamo soffocando i focolai di terrorismo». Il giorno prima aveva pubblicato un video che mostra la distruzione dell’Università Islamica a Gaza City, la cui didascalia recita: eliminare le fonti di incitamento e terrorismo.

L'esercito israeliano si prepara a un’occupazione su vasta scala di Gaza City, intensificando le operazioni nel cuore urbano della Striscia, distruggendo torri residenziali e sedi universitarie che fungevano da rifugio per gli sfollati, emerge con sempre maggiore chiarezza che anche il linguaggio usato dal governo israeliano è un tassello dell’arsenale.Un linguaggio che non si limita, cioè, ad accompagnare l’avanzata militare ma la precede, ne costruisce la narrazione, ne plasma la legittimità e ne previene il dissenso, un linguaggio che è dispositivo della guerra in grado di tradurre un’invasione annunciata in una misura difensiva, e la distruzione sistematica di un’intera città in un’operazione chirurgica di “sicurezza”. Un linguaggio per cui ogni crimine è nascosto dietro la retorica della guerra al terrore.

Sempre due giorni fa, sempre il ministro della Difesa Katz, pubblicando il video dell’ennesimo palazzo residenziale disintegrato dalle bombe israeliane, aveva scritto: «House of cards. The skyline of Gaza is changing». Il profilo urbano di Gaza, ci dice Katz, sta cambiando. Un messaggio (all’opinione pubblica interna e agli alleati) che va oltre la retorica bellica: Gaza non è più una città, ma un obiettivo da demolire, non più spazio urbano abitato, ma materiale da spianare. Quella che Katz chiama «trasformazione» è in realtà l’annientamento di Gaza City e il cambiamento dello «skyline» è la distruzione della sua identità.

«House of cards. The skyline of Gaza is changing» è una frase che sintetizza la brutalità della strategia militare, un lessico che non è un sottoprodotto della violenza, una sua conseguenza, al contrario è essa stessa azione bellica, non accidentale ma sofisticata, pervasiva. Precede l’attacco, lo legittima e lo spettacolarizza.

Chi controlla le parole, controlla la realtà percepita, lo sa bene Netanyahu come lo sapevano i suoi predecessori. Negli anni, ma con particolare spudoratezza negli ultimi 23 mesi, la politica israeliana - guidata da Benjamin Netanyahu e sostenuta da alcune delle frange più estreme del suo governo - ha operato una sistematica manipolazione linguistica con un obiettivo preciso: piegare il linguaggio per giustificare atti di occupazione, di repressione e sfollamento.

Questo uso strategico della parola, che non è neutro, rappresenta una forma sofisticata di violenza simbolica: serve cioè a ridefinire la realtà in termini accettabili per l'opinione pubblica interna ed esterna, dissimulando la portata morale e giuridica delle azioni compiute e – nel caso dell'offensiva a Gaza – cercando di mascherare i veri obiettivi della guerra, non liberare la Striscia da Hamas, ma occuparla militarmente e sfollare forzatamente i palestinesi che la abitano.

È sullo slittamento tra parole e realtà che si gioca da anni la legittimazione della condotta di Israele, uno slittamento che ha paralizzato la comunità internazionale, incapace troppo a lungo di trovare il coraggio per smascherare un inganno.

Nella narrazione israeliana dominante, da decenni, i territori palestinesi occupati sono territori “contesi”, così da delegittimare lo status giuridico dell’occupazione, le barriere di separazione sono “muri di sicurezza” per i cittadini israeliani, la detenzione senza processo diventa “arresto amministrativo” per rendere l’abuso un tecnicismo, le aggressioni dei coloni diventano incidenti per rimuovere la disparità di potere, celare la violenza unilaterale e creare l’impressione di una simmetria che, però, non esiste. La parola uccidere viene sostituita da “neutralizzare”, per disumanizzare l’avversario e rendere accettabile, persino neutro, l'uso della forza.

Per decenni questa torsione del linguaggio ha reso accettabile l'inaccettabile, trasformando la segregazione, l'annessione, gli abusi e l'uso sproporzionato della forza in necessità. Oggi Netanyahu, che si rivolge a due pubblici diversi - quello interno, sempre più radicalizzato, e quello internazionale, sempre più scettico - modula la sua retorica in modo bifronte.

Parla internamente di «diritto storico» di «conquista biblica» mentre all’esterno, ripete gli slogan della «lotta al terrorismo», della «legittima difesa». Ma entrambi i registri hanno lo stesso obiettivo: normalizzare l’eccezione, rendere dicibile l’indicibile e far apparire inevitabile ciò che è, in realtà, una scelta politica precisa: il controllo permanente di Gaza, la cancellazione della prospettiva di uno Stato palestinese, l’annientamento dell’autodeterminazione.

Le parole definiscono ciò che è normale, ciò che è deviante, ciò che è accettabile, ed è soprattutto in tempi di crisi che il potere accentua il controllo discorsivo, che non si limita a bombardare ma costruisce prima l’idea che ciò che sta bombardando sia il male assoluto. Così e solo così il campo semantico si può restringere (e con lui la morale), chi muore non è più un bambino ma un danno collaterale, chi fugge non più un profugo ma un potenziale scudo umano. Michel Foucault, filosofo della genealogia del sapere e del potere, ci ha insegnato che non c'è verità innocente, che ogni discorso è l’effetto di una relazione di potere, e che ciò che chiamiamo realtà è, spesso, una costruzione linguistica.

Questo vale anche - forse soprattutto - in tempo di guerra. Quando Netanyahu o i portavoce dell’Idf parlano di «zona umanitaria» per riferirsi a un’area bombardata e poi destinata a ricevere migliaia di civili sfollati, stanno manipolando il linguaggio: non è una zona umanitaria, è una zona di deportazione forzata, spesso non sicura.

Quando si parla di «migrazione volontaria» da Gaza, si omette deliberatamente che i civili vengono indotti con la minaccia della morte a lasciare le proprie case. Quando si definisce ogni struttura ospedaliera come «centro operativo terroristico», si disumanizza la funzione medica per legittimare il bombardamento. In questa cornice, Gaza City è stata recentemente descritta come un «rifugio di terroristi». In realtà, è una città con oltre mezzo milione di abitanti, molti dei quali civili, donne, bambini.

Definirla solo come un «nido di Hamas» serve a costruire una narrazione in cui ogni colpo sparato è giustificato. È la teoria foucaultiana del potere: si tratta di produrre una verità, una verità che autorizzi l’abuso, che neutralizzi il dissenso e che, venendo ai nostri giorni, trasformi una campagna militare in una missione moralmente legittima. Il linguaggio del potere agisce così: costruendo categorie morali, creando gerarchie di umanità, e distinguendo tra chi può essere ucciso e chi va protetto. È questo il cuore del potere discorsivo. E non metterlo in discussione significa esserne complici.

16 settembre 2025

LA VISIONE SCIASCIANA DEL POTERE COME FATTO CRIMINALE

 





La mia visione della storia italiana sotto specie criminale ha radici più lontane, più indietro nel tempo, dell'Affaire Moro. Ma non direi soltanto della storia italiana. Ho avuto sempre, forse legata a certi fatti avvenuti negli anni della mia infanzia (per esempio: la fucilazione di coloro che avevano intenzione - soltanto intenzione - di attentare alla vita di Mussolini), una visione del potere come fatto criminale. Il potere statale. Il potere mafioso. Il potere ecclesiastico per come poi mi si disvelò attraverso i libri, quando cominciai a conoscere la storia dell'Inquisizione. Libri come "Morte dell'inquisitore" e "I pugnalatori", prima di quello sul caso Moro, dicono esplicitamente di questa visione, di questa preoccupazione, di questa ossessione. Ma anche tutti gli altri, credo. Anche se meno esplicitamente.

Leonardo Sciascia intervistato da Jean-Noël Schifano nel 1985.

 


BERNARDO MATTARELLA CONTROVERSO


 Quindi, il povero Sciascia adesso sarebbe “un intellettuale malaccorto”? Con tanto di articolo su La Stampa nel 1976?

MARIA PIA FARINELLA







































CON SANTO QUALCHE ANNO FA


 

Con Santo Lombino qualche anno fa a Selinunte. 

28 agosto 2025

DANILO DOLCI PER LA PACE



                  

                     Nel dicembre del 1975 il Presidente e il vicepresidente del "Peace Memorial Museum" di Hiroshima, invitati da Danilo Dolci, mostrarono ai bambini del Centro Educativo di Mirto (Partinico) alcuni reperti dell'esplosione atomica del 6 agosto 1945 che, per la prima volta, distrusse una intera città: "Abbiamo portato in dono le prove di un crimine che tutti hanno voluto cancellare".

                   Il giornale L' ORA di Palermo il 18 dicembre 1975 dedicò la prima pagina all'iniziativa di Danilo e Alberto Spampinato, nelle pagine interne, scrisse un bellissimo articolo.

                   In quel periodo lavoravo a tempo pieno nel Centro Studi e Iniziative di Danilo e toccò proprio a me preparare il comunicato stampa che illustrava l'evento che prevedeva, tra l'altro, nel pomeriggio - nella sala consiliare del Comune di Partinico - una conferenza di Danilo sul tema "La lezione di Hiroshima e l'educazione alla nonviolenza nelle scuole" e la partecipazione di Ignazio Buttitta.

                   Danilo Dolci, con Aldo Capitini e Bertrand Russell, sono stati forse gli uomini più impegnati del 900 a promuovere il valore della nonviolenza e della Pace nel mondo.

                   Come è noto il massimo teorico italiano della nonviolenza è stato Aldo Capitini (1899-1968) e si sa che il pensiero e l’opera del filosofo perugino sono stati un punto di riferimento costante per Dolci. Fin dal principio, infatti, Capitini gli è stato accanto: dal suo primo digiuno nel 1952 a Trappeto, nel lettino del bambino morto d’inedia, al famoso “sciopero alla rovescia” del 1956, Danilo ha trovato nell’autore de Il potere di tutti (1969) uno dei suoi principali sostenitori.

                   Dolci è rimasto fedele allo spirito del suo insegnamento[1]  persino quando ha dissentito da alcune sue posizioni. Basti ricordare, per tutti, il modo in cui Danilo accolse nel 1958 il Premio Lenin per la Pace conferitogli dall’ URSS di Nikita Krusciov.[2]

                        Partiamo da Capitini allora, anche perché il suo pensiero – per dirla con Hegel – è più noto che realmente conosciuto. Esiste un’ ottima antologia sulla sua opera curata da Giovanni Cacioppo. Peraltro devo a quest’ultimo il mio incontro nel 1975 con Danilo Dolci e la mia successiva collaborazione  con il suo Centro  durata due anni.

                  In un libro che gli dedica nel 1958, Capitini scrive: “Danilo è costante nel portare le cose alte a contatto degli ultimi. Le cose alte sono: l’apertura nonviolenta, le decisioni esatte, la cultura, l’arte, la musica; egli ha fondato a Trappeto un’università popolare, costituito una biblioteca ha eseguito con i dischi davanti a fanciulli e pescatori  musiche di Bach, Vivaldi, Beethoven, Mozart, Brahms […].Gli ultimi sono quelli che non ce la fanno, i malati, i deboli, i doloranti, i pazzi spesso per denutrizione, le prostitute, gli sfruttati, le famiglie dei carcerati con i giovanissimi in pericolo di buttarsi al banditismo, sono i banditi stessi, che Danilo frequenta e conosce bene (dimostra che sono diventati tali per  miseria e disperazione), sono gli analfabeti. Egli vorrebbe che si cominciasse da loro”.

                   Danilo Dolci non lo dimenticherà mai e lo ricorderà, dieci anni dopo la morte, con questi bellissimi versi:

 

                     Aldo:

                     ne sento il vuoto –

                     impacciato a camminare
ma enormemente libero e attivo,
concentrato
ma aperto all’angoscia di ognuno,
non ammazzava una mosca
ma era veramente un rivoluzionario,
miope

                     ma profeta.

                     (Danilo Dolci, da Creatura di creature, 1979)

 

                            Marco Grifo, in un suo recente lavoro storico-critico sull’ opera del  Dolci,  superando nettamente i tratti agiografici che hanno  contrassegnato finora le pubblicazioni sul Gandhi italiano, ha ben documentato i rapporti di Danilo con B. Russell per il disarmo nucleare e contro l’ intervento americano nel Vietnam.  Memorabile rimane, inoltre, la Marcia per la Pace e lo sviluppo della Sicilia occidentale che si svolse nel marzo del 1967. Non si può dimenticare, infine, quanto scrive, già ammalato in un letto di ospedale, contro le basi NATO alla Maddalena, in Sardegna, sede di sommergibili nucleari statunitensi, intorno alla quale vige un sistema di servilismo ed omertà, perché il dominio del complesso militare-industriale agisce come “un tipico esempio di sistema mafioso-clientelare (segreto parossistico e violento) a livello internazionale” (Comunicare legge della vita, 1997), contro il quale è necessario lottare ancora. Del resto, come aveva avvisato già nel 1971 “non è possibile prevedere se gli uomini sceglieranno di sopravvivere o di suicidarsi: ma se sceglieranno la vita – per paura se non per amore – questa scelta significherà l’invenzione sempre più scientificamente organica dell’azione e della rivoluzione nonviolenta” (Non sentite l’odore del fumo?). 

                                E’ troppo ricca la vicenda umana, sociale e culturale di Danilo Dolci per poterla riassumere in poche righe.  La cosa che mi colpì maggiormente di Danilo, dopo i primi incontri, fu la sua straordinaria capacità di ascolto e di comunicazione. Parlava poco ma le sue parole colpivano sempre nel segno. Somigliava tanto il suo modo di comunicare a quello essenziale dei vecchi contadini da cui Danilo ha appreso tanto ( vedi le sue Conversazioni contadine, Einaudi 1962). Un elemento portante della sua opera, generalmente trascurato dalla critica, va ricercato nell’attenzione particolare prestata sempre, in modo non accademico, alle questioni linguistiche. Danilo ha compreso immediatamente che - “PER ESSERE INTESO DA GENTE CHE SPESSO SI ESPRIME PER PROVERBI (…) ED IN  UNA LINGUA CHE E’ INSIEME CLASSICA E DIALETTALE” ( Il limone lunare, Laterza  1970, p. 5) - occorre saper parlare con la stessa semplicità ed essenzialità dei vecchi contadini.

CU IOCA SULU ‘UN PERDI MAI”: è questo uno dei più diffusi proverbi siciliani con cui cozza Dolci, appena arrivato in Sicilia, e su cui  riflette a lungo per capire la psicologia e la storia del popolo siciliano. Non a caso lo utilizza  per intitolare uno dei suoi libri in cui  più apertamente affronta il nodo mafioso: “CHI  GIOCA SOLO”, Einaudi 1966.

 Danilo sa che dietro al  proverbio, oltre ad una concezione del mondo, c’è la memoria delle sconfitte subite nella storia delle classi subalterne meridionali, dai Fasci dell’ 800 alle più recenti lotte per il superamento del feudo e la riforma agraria.

 Dolci ha sempre creduto nella forza liberatrice della parola. Oltre ad essere stato un grande comunicatore, Danilo sapeva ascoltare e stimolare a parlare come pochi. Nei suoi gruppi di  AUTOANALISI  – dai primi, con i contadini e i pescatori di Trappeto, agli ultimi con i bambini di Mirto – l’esercizio espressivo ha occupato sempre un posto centrale. Per Danilo ogni liberazione passa  attraverso la potenza espressiva della parola, la stessa scoperta di sé e del mondo avviene grazie al linguaggio. Basti rileggere, da questa prospettiva, i suoi libri per verificarlo. Soprattutto nei suoi primi libri appare evidente come Danilo sia capace di valorizzare il dono naturale della parola che hanno tutti, anche gli analfabeti: si ricordi, per tutti, la testimonianza  del giovane pastore Vincenzo che Danilo incontra  nel 1956 all’Ucciardone - dove viene rinchiuso per aver organizzato il famoso sciopero alla rovescia per riparare una vecchia trazzera -   e che, non a caso, trascrive e pone come preambolo al suo famoso  Processo all’art. 4, Einaudi 1956 .

 Danilo ha compreso bene la Sicilia e i siciliani. E, soprattutto, quella parte del popolo che Gramsci chiamava “classi subalterne”, di cui apprezzava le potenzialità creative. D’altra parte il suo rapporto con la storia e le tradizioni del popolo siciliano è stato sempre dialettico. Dolci amava la dialettica non meno dei vecchi braccianti che, come Fifiddu Rubino, avevano partecipato all’occupazione delle terre incolte. Ricordo che, conoscendo le mie simpatie per Gramsci e per il giovane Marx, mi raccomandava sempre la lettura di un eretico marxista come Ernst Bloch. La sua stessa originale teoria e pratica della nonviolenza ha preso le mosse da una antica forma di lotta del movimento contadino: lo SCIOPERO ALLA ROVESCIA.

 

FRANCESCO VIRGA     aprile 2025

 

 

 

 

 

 

 



[1]  Sul tavolo di lavoro di Danilo Dolci negli anni settanta spiccava la bella antologia di scritti di Capitini, curata e pubblicata nel 1977 da Giovanni Cacioppo: Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria.

[2] Una attenta ricostruzione della storia di questo Premio e dell’animata discussione che Danilo ebbe nell’occasione sia con Capitini che con Ignazio Silone si può leggere in:  Stefano Raia, L’ideologia del nemico e il premio Lenin a Danilo Dolci, SEGNO, Anno XVI, n.117-118, settembre-ottobre1990, pp. 43-60.

26 maggio 2025

L' ANNIENTAMENTO DELLA PAROLA

L’ ANNIENTAMENTO DELLA PAROLA Pensiamo al potente discorso con cui si apre il Vangelo secondo Giovanni: “Nel principio era la Parola (il Logos) e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio”. Che cosa potremmo dire noi oggi: “Alla fine ci fu la parola e la parola era Nulla, e la parola cadeva nel Nulla”. Terribile segno dei tempi. La parola pronunciata dai grandi della Terra ha perso valore. Il presidente Trump ha sortito affermazioni che si è poi rimangiato un gran numero di volte. E così l’autocrate Putin. La parola dei nostri politici italiani non sembra avere un particolare peso, se è vero che viene rilanciata all’infinito dai mezzi di comunicazione e non produce nessun effetto. La partecipazione al voto continua a calare nell’indifferenza generale. Marek Halter ha appena fatto notare l’assenza di grandi voci autorevoli tra gli intellettuali dei nostri giorni. Ha nominato Albert Camus e Primo Levi. Grandi figure del passato. Di un passato recente, ma pur sempre passato. Come si esce da questo tunnel del discorso che si converte in rumore e assenza di significato? Qualcuno forse in un futuro non troppo lontano prenderà il posto delle attuali comparse sulla scena del mondo. E tuttavia sarebbe ingiusto credere che siamo condannati a una solitudine impotente. Intanto c’è la parola quotidiana, che non ha perso significato. “Buongiorno” vuole ancora dire buongiorno sulla bocca di molti tra noi comuni mortali. E poi si tratta di tendere l’orecchio e di aprire gli occhi. Tendere l’orecchio. Altri messaggi continuano ad essere trasmessi nella valanga delle informazioni comunicate al pubblico. Il nuovo papa, per esempio, sembra pesare le parole e rimette in circuito nozioni preziose, la speranza, la fraternità, lo spirito. La Cina non è più quella luce che veniva dall’Oriente e indicava la strada del futuro a una umanità smarrita. Si esprime in un linguaggio sommesso, niente tigre di carta, come usava il Grande Timoniere, ma riesce ad allineare considerazioni di buon senso, lasciando trasparire soprattutto una grande calma, virtù rara in questi tempi di furori recitati e poco convinti. Aprire gli occhi. La nostra è una civiltà dell’immagine, si dice. Trump e Putin e Netanyahu, le star mediatiche del momento non hanno parole per esprimere l’orrore che si consuma a Gaza, giorno dopo giorno. Eppure, basta accendere il televisore o aprire il computer, o il telefonino. Lo scandalo del martirio inflitto ai civili sulle sponde del Mediterraneo in un angolo della terra contesa tra israeliani e palestinesi si ripropone di continuo. La ressa degli affamati. Il paesaggio devastato. Le rovine a cielo aperto. La vergogna delle armi dispiegate per il contrasto ai civili inermi. Altro che pace disarmata e disarmante, come ha detto Leone XIV inaugurando la sua prelatura. Guerra armata e disperante. Guerra che uccide la speranza in un futuro umano. Guerra che prelude a un futuro di immemore sopraffazione. Il resort, la costa azzurra del Medio Oriente. Anche questo è stato detto dal principale attore della attuale tragedia. L’angelo della storia in Klee procedeva con le spalle volte al futuro e contemplava una sorta di inferno sulla terra. Walter Benjamin che amava quella immagine aveva un legame certo con la tradizione ebraica e con il misticismo da essa veicolato. Per una volta, sarebbe invece giusto voltare le spalle alla tradizione per affermare che solo il ritorno del Logos, della parola vera, può aprire le porte del futuro a una umanità decisa a vivere in pace. Lo Spirito positivo del mondo non chiede altro. Ognuno faccia la propria parte. Là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva, secondo la Parola e l’auspicio sacrosanto del poeta.

20 maggio 2025

IL PASOLINI DI P. DESOGUS

[E’ da poco uscito per La Nave di Teseo In difesa dell’umano. Pasolini tra passione e ideologia, di Paolo Desogus. Ne pubblichiamo la premessa]. PAOLO DESOGUS Una premessa per il presente Ogni passato […] può ottenere un grado di attualità più alto che al momento della sua esistenza. La sua configurazione in quanto superiore attualità spetta all’immagine in cui la comprensione lo riconosce e lo colloca. E questa compenetrazione dialettica e presentificazione di circostanze che appartengono al passato è la prova di verità dell’agire presente. Ovvero: essa accende la miccia del materiale esplosivo riposto nel ciò che è stato. W. Benjamin, I “passages” di Parigi Le pagine che seguono raccolgono e rielaborano il mio lavoro di ricerca sull’opera di Pier Paolo Pasolini e più precisamente sul tema della contraddizione, qui analizzato attraverso le sue diverse declinazioni e alla luce di quel processo di trasformazione culturale, sociale ed economico, ancora oggi in corso, chiamato negli Scritti corsari “mutazione antropologica”. Con questo libro vorrei infatti offrire al lettore un’indagine approfondita del corpus pasoliniano, mantenendo vivo il dialogo con il presente con l’obiettivo di restituire ai suoi testi e ai vari concetti chiave che vi compaiono quella “superiore attualità” necessaria per interpretare e agire sul nostro tempo. Soprattutto la contraddizione – tra “passione e ideologia”, “con te e contro te” –, coltivata sin dagli anni friulani e poi riproposta in modi diversi nelle opere più mature, mi pare aiuti a ritrovare nel lavoro poetico la sua facoltà di comprensione del mondo e quindi a recuperare quel legame tra ricerca espressiva e dimensione politica che ha permesso a Pasolini di interrogare l’umano, le sue forme simboliche e il suo rapporto con la storia. La premessa che ha guidato questo studio è che tra attività artistica e vita sociale vi è sempre un nesso che l’indagine critica deve sforzarsi di spiegare per evitare che l’espressione poetica, per dirla con Fortini, si degradi ad “aroma spirituale” o a “ipocrita ‘cuore di un mondo senza cuore’”, se non a vero e proprio “vino di servi”[1]. Tale legame è cruciale in Pasolini. Nella sua opera anche la più banale effrazione metrica, anche il più semplice innesto dialettale o la più elementare inquadratura svolge una funzione politica. E questo non perché sia convinto che le scelte stilistiche abbiano il potere di modificare la realtà, ma perché, nella sua ottica, ogni decisione rimanda ai modi in cui la coscienza poetica vive la propria contraddizione col mondo e dunque reagisce al suo contesto nel tentativo di comprenderlo e di verificare le condizioni di possibilità della sua trasformazione. La politicità di Pasolini, dunque, non risiede solo nelle prese di posizione e negli espliciti riferimenti alle questioni sociali. Né mi pare possa essere risolta ricorrendo alle etichette che si è dato, come ad esempio quella di intellettuale marxista. Tutti questi elementi hanno la loro grande importanza (non si può infatti pensare a Pasolini senza gli Scritti corsari e le Lettere luterane, né gli si può negare l’appartenenza al campo marxista), ma possono essere pienamente compresi solo nel quadro della lotta per l’espressività che ha combattuto sin dagli anni casar­sesi. Le arti e in particolare la letteratura sono state per Pasolini il luogo di analisi critica delle forme di oppressione e di studio delle relazioni tra il singolo, il suo bios, la collettività e i processi materiali. La stessa “mutazione antropologica”, elaborata negli ultimi anni corsari e maggiormente prossima al tema dell’uma­no, ha le sue radici nell’impossibilità che Pasolini vive in quan­to autore via via deprivato della materia espressiva dei dialetti, così come dei visi e dei gesti di quel corpo popolare raffigurato in molte sue opere. La manipolazione che dagli anni sessanta il mercato estende a ogni fascia sociale, incluso il sottoproletariato urbano raccontato nei romanzi romani e l’universo contadino delle poesie giovanili, toglie a Pasolini un aggancio al mondo, segna sia l’erosione della sua poetica che la perdita di realtà, cioè il progressivo smarrimento di quei dati estetici concreti che con­sentivano il confronto con il mondo esterno, con ciò che resiste alle convenzioni e alle forme di assoggettamento. La contraddizione, e negli ultimi anni la difesa della con­traddizione dalle mutazioni che promettono di sollevare l’umano dalla sua finitudine, dalla sua costitutiva incompletezza, è con­fluita nella riflessione politica e ha trovato un fortunato sviluppo nella critica alla società dei consumi che si è affermata in Italia negli anni del miracolo economico. Nella promessa di benesse­re per mezzo delle merci Pasolini vede infatti non l’esito di un nuovo progresso, ma il compimento di una forma di alienazio­ne capace di degradare l’individuo, di schiavizzarlo e di farne lo strumento di uno sfruttamento inedito, che attinge non più solo dal lavoro, come negli operai di Marx, o dal radicamento egemonico, come ha poi mostrato Gramsci, ma anche dalla sua più profonda intimità, ovvero dal suo desiderio, dall’“amor che move”2 che dà slancio alla vita, sostanzia i legami sociali e dà impulso alla costruzione delle forme simboliche. Come si osserva soprattutto nell’ultimo Pasolini, il falso progresso denunciato già dalla fine degli anni cinquanta si serve di questa forza vitale per estendere il progetto di sfruttamento capitalistico. Trasforma la contraddizione in omologazione, il desiderio di vita in desiderio di merce, l’eros in prestazione, le relazioni sociali in sfruttamento del prossimo, le comunità in campo di competizione e di autoaffermazione egoistica. Lo stesso “amor che move” dantesco[2] volge in agency priva di respiro comunitario, di apertura all’alterità e di riconoscimento della propria condizione esistenziale e politica in quella del prossimo. Il falso progresso neocapitalistico e le più recenti varianti neoliberali costituiscono in questo senso il punto più avanzato di mutazione. Esso si propone di sostituire l’umanesimo con la tecnica, l’arte con l’intrattenimento, l’amicizia con la competizione, la politica con il management, la democrazia con la governance, l’universale con il culto del frammento. La sua promessa è quella di saturare il desiderio, di eliminare il senso di contingenza, di incompletezza dell’umano, mediante l’illusione della crescita verticale dell’io, del godimento materiale illimitato e della rimozione di tutto ciò che si pone di fronte all’individuo come un ostacolo. La stessa esperienza della morte, come si rileva ancor più negli ultimi anni, è occultata da un vitalismo edonistico che nega ogni vincolo materiale, rimuove le fragilità del corpo, nasconde ogni traccia che rimandi alla precarietà ontologica del singolo e spinge alla performance continua. L’idea di limite è espulsa dal pensabile, sostituita dalla venerazione del consumo per il quale l’invecchiamento e la fine biologica dell’esistenza sono anomalie da correggere. Considerata l’eccezionale trasformazione prodotta dal capitali­smo nell’ultimo mezzo secolo e i tanti anni trascorsi dalla scomparsa di Pasolini è lecito chiedersi quanto siano attuali le sue riflessioni sulla mutazione antropologica e soprattutto se la sua critica al con­sumismo non sia in fondo il frutto dei timori personali di un autore essenzialmente antimoderno e nostalgico, che ha denunciato un avanzamento giunto a compiersi, su cui dunque occorre interrogarsi senza rimpiangere il vecchio umanesimo e le sue “lucciole”, legate invece a un mondo storico ancora prossimo a una natura oggi del tutto dominata. Questa estraneità al presente parrebbe del resto motivata dalle recenti acquisizioni tecnologiche, che hanno deter­minato nuovi rapporti di produzione dallo scrittore friulano intra­visti solo nel loro primissimo bagliore, senza dunque avere reale esperienza dei loro effetti sull’umano e sulle sue forme simboliche. La tesi di questo libro è che il valore e la “superiore attualità” di molte sue considerazioni sono in realtà dovuti all’esperienza di conflitto maturata con il proprio tempo, lungo un percorso ric­chissimo di cambiamenti, dall’avvento alla caduta del fascismo, dalla lotta di Liberazione e dalla rinascita del movimento operaio alla fine delle speranze di rivoluzione, dal sorgere del miracolo economico all’affermazione della nuova civiltà dei consumi che ha modificato la percezione dell’essere umano sul mondo e su se stesso. In Pasolini queste diverse fasi storiche convivono nelle sue narrazioni, nelle sue scelte stilistiche. Si sviluppano attra­verso il corpo a corpo con il suo tempo. E hanno dato forma al suo alfabeto politico, interagendo in modo fecondo con la sua poetica della contraddizione. Come infatti si riscontra in molti momenti della sua opera, arcaicità e modernità, sopravvivenza del passato e civiltà dei consumi si intrecciano, sono l’espressione di continue sovrapposizioni, di scambi conflittuali che mimano i contrasti tra essere e divenire, tra la creaturalità dell’umano e il pericolo della sua mercificazione. Quello che consente di tenere aperto il dialogo tra Pasolini e il presente sta allora proprio nella sua idea di contraddizione, da lui coltivata attraverso un itinerario poetico e intellettuale strettamente intrecciato al percorso della grande tradizione umanistica italiana ed europea, quella di Dante, Leopardi, Gramsci e de Martino, con aperture a Dostoevskij, a Proust e, negli ultimi, anni alle esperienze politico-filosofiche di Marcuse e di Horkheimer e Adorno, da cui ha tratto linfa la sua ragione impura per pensare l’umano fuori dalle concezioni aprioristiche della storia e della società. Questo cammino inizia a Casarsa, in Friuli, dove Pasolini compie le prime sperimentazioni letterarie, scopre la propria omosessualità e vive quella cruciale scissione tra sé e l’altro da sé, che nel passaggio a Roma diviene desiderio di desiderio, abbraccio collettivo, ricerca del proprio io nell’altro. Dopo Casarsa e Roma, negli anni sessanta, l’umanesimo di Pasolini trova i propri riferimenti oltre i confini nazionali. Soprattutto quando la sfida poetica e intellettuale si misura con la fine delle aspirazioni rivoluzionarie il suo sguardo matura e assume una consistenza intellettuale nuova, che gli consente di rinnovare la critica alla ragione neocapitalistica e di analizzare la sua capacità di fondare il proprio dominio non più solo per mezzo della forza, ma sulla spinta di una capacità egemonica inedita che crea consenso, costruisce un nuovo immaginario e allo stesso tempo si impossessa dei corpi per integrare il loro slancio di desiderio nella logica del consumo. Pasolini non ha conosciuto lo sviluppo economico, industria­le e tecnologico di cui oggi siamo testimoni e questo libro non ha certo la pretesa di farne un profeta moralisticamente ostile. Quello che consegno con queste pagine mi auguro possa però servire a comprendere il nostro tempo dall’ottica umanistica di Pasolini. Resto infatti persuaso che la sua vicenda poetica e intellettuale consenta di ripercorrere criticamente la traiettoria delle “magni­fiche sorti progressive” che collegano il passato al presente e che nel tratto che ora attraversiamo aspirano apertamente alla possi­bilità del superamento dell’umano per mezzo di dispositivi che allargano la percezione, distaccano sempre più dalla datità vitale e promettono di liberarlo dai suoi limiti esistenziali per farne un soggetto dotato di illusorie facoltà autopoietiche, dunque appa­rentemente capace di autodeterminarsi, di diventare imprendito­re e legislatore di se stesso al di fuori di qualsiasi “social catena”, sciolto dai vincoli con il prossimo e da ogni ideale comunitario. Tale prospettiva minaccia di alienare ulteriormente ogni slancio, ogni desiderio: non più desiderio di desiderio, sforzo collettivo per resistere alla finitudine o “amor che move”, ma brama di merce che dà compimento alla colonizzazione dell’umano, all’estremo superamento della contraddizione tra io e mondo mediante l’alie­nazione e lo sfruttamento. È questo l’esito transumanista, l’ultima variante della mutazione antropologica che spoglia il singolo di ogni legame sociale, di ogni progetto comunitario, e che aspira ad amministrare la vita secondo le regole del consumo, con l’o­biettivo di trasformare il desiderio in un moltiplicatore di potenza del capitale. Note [1] F. Fortini, Metrica e biografia, «Quaderni piacentini», n.s. 2, XX, 1981, p. 106. [2] La citazione riprende naturalmente un verso di Dante, ma si riferisce anche al bel titolo del volume di M. Gragnolati, Amor che move. Linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante, il Saggiatore, Milano 2013.