Balestrini e l’abolizione della punteggiatura e della sintassi
Balestrini: «La lingua abolisce la sintassi» Il fondatore del Gruppo 63: «Per cambiare la letteratura rinunciammo alle regole. Ma Twitter non è avanguardia»
Antonello Guerrera
Nel 1969 Vladimir Nabokov, in un’intervista al New York Times (poi raccolta in Intransigenze, Adelphi), disse: «Molte volte penso che dovrebbe esistere uno speciale segno tipografico per indicare un sorriso». Gli sms e i social network ci avrebbero travolto solo trent’anni dopo. Ma lo scrittore di Lolita aveva già immaginato l’emoticon. Nabokov fantasticava su una cosa del genere: “:–)”. Segni di interpunzione che dunque si animano, rompono le catene, vogliono la scena. Come i due punti che «spalancano la bocca: guai allo scrittore che non la riempie di cibo nutriente», scriveva Karl Kraus. O il punto esclamativo quale «indice minacciosamente alzato» di Theodor Adorno. Segni che oggi assumono sempre più valore semantico nella comunicazione che sfreccia in chat, su Facebook e Twitter. Del resto, persino Walter Siti, ultimo premio Strega, ha di recente ammesso di preferire, talvolta, il trattino al punto – perché meno tranchant. Allo stesso tempo, c’è chi ha rinunciato da anni alla punteggiatura, come lo scrittore Nanni Balestrini. «Ma io lo faccio per uno scopo ben preciso», dice lo storico esponente del Gruppo 63.
Quale, Balestrini?
«Io immagino sempre i miei testi narrati da una voce, che parla. E la mia preoccupazione è che il testo dia al lettore l’idea dell’oralità, non della scrittura. Per questo ho abolito la punteggiatura. La lingua parlata se ne frega della sintassi. Il lettore deve avere l’impressione di un vero parlato. Ricorda i “tre puntini” di Céline?».
Sì, i “binari emotivi” della sua scrittura.
«Esatto. Per me, anche se ci ho rinunciato, è lo stesso concetto. Poi, certo, è diverso quando scrivo saggi o articoli. Non me la sono mica dimenticata la punteggiatura. Ma in quel caso la uso per comunicare. La letteratura è qualcosa di diverso».
Sta dicendo che la letteratura non deve saper comunicare?
«C’è una grande differenza tra la scrittura per comunicare e quella per creare. Si tratta di due mondi diversi. La letteratura non deve essere messa in relazione con altro. Deve essere lasciata libera di esprimersi, anche senza punteggiatura».
Ma non crede che, in un’epoca come la nostra, travolta da flussi di notizie e informazioni, qualche punto in più possa dare ordine?
«Certo, con la punteggiatura si comunica meglio. E poi io non la rinnego in toto, nemmeno per i miei romanzi».
Cioè?
«Dovessi scrivere un romanzo in terza persona, in futuro, potrei ricominciare a utilizzarla. Perché no?».
Moravia – nella circostanza malato – scrisse Gli indifferenti senza punteggiatura, aggiunta solo in un secondo momento.
«Esatto. E lo stesso capitò con il Notturno di D’Annunzio, abbozzato su lunghe strisce di carta quando era momentaneamente cieco. Perché, sa, si fa molta fatica a scrivere senza virgole e punti. Paradossalmente, è molto più difficile».
E ammetterà che è più arduo anche per molti lettori alle prese con “flussi” come i suoi, o quelli di Joyce e Saramago.
«Ma io lo faccio perché voglio mettere il mio lettore in difficoltà. Non che mi ascoltino tutti. Mi bastano i miei di lettori».
Lei, da fondatore del Gruppo 63, non crede che le nuove accezioni della “punteggiatura da social network” possano rappresentare una sorta di neoavanguardia?
«No. La punteggiatura è materiale statico. Puro stile. Ci vuole altro per lasciare il segno. Le vere avanguardie hanno ben altra genesi e impatto. Negli ultimi anni con i romanzi si è invece andati indietro. Tutti gli esperimenti oramai sono stati ripresi. Non vedo niente di nuovo in giro. La punteggiatura e la narrativa stanno diventando sempre più piatte, piane, convenzionali. Ma la colpa non è solo della nostra epoca. Anche gli editori oggi rischiano molto di meno. Sono molto più conservatori che in passato».
Questo fenomeno del punto “freddo e aggressivo” è curioso, però.
«È degno dei nostri tempi. Ma non credo che investa la scrittura in generale».
Perché?
«Perché è un fenomeno legato allo specifico mezzo di comunicazione. Anche quando c’erano i telegrammi, si utilizzavano altre formule, un altro stile. Gli “stop”, gli spazi, ricorda? Ma tutto questo ha avuto poco a che fare con la lingua vera e propria».
Però, rispetto ai telegrammi, chat e social media oggi vengono utilizzati in misura decisamente più ampia.
«Sì, ma mi sembra esagerato dire che influenzino la scrittura in generale. C’è un’eccessiva infatuazione per questi nuovi media. Ma fa parte dell’esibizionismo e del narcisismo insiti in tali piattaforme».
Addirittura?
«Ma sì. Da quello che vedo io, Internet riunisce gruppetti, cerchie di persone, comunità. Ma, nel suo spezzettamento, è molto difficile che una novità linguistica attecchisca in un intero Paese. Come invece è successo con la televisione durante il boom economico, che ha cambiato e uniformato enormemente la lingua italiana. Il cambiamento non passa per Twitter e le chat».
Repubblica, 5 gennaio 2014,p. 41
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