«Wars on demand».
Dalla Rete ai nuovi sistemi di armamento, alle resistenze pacifiste
nell’area del Pacifico. Un volume collettivo sul nuovo complesso
militare-industriale
Simone Pieranni
Guerre a geografia
variabile
Sino a qualche
mese fa, era opinione diffusa che l’area del mondo più
a rischio fosse quella del Pacifico. La corsa agli
armamenti di Cina, Giappone e molti altri paesi
asiatici — a causa delle tante contese
territoriali — lasciava presagire il
rischio di una crisi, capace di rivoluzionare gli
assetti geopolitici della zona e non solo. Del
resto, in ogni occasione utile, la Cina ha sottolineato
i propri investimenti in droni e nella
cosiddetta «cyberwar», a testimonianza
dell’importanza attuale non solo delle armi.
Pechino aveva anche
istituito una zona di difesa aerea sulle isole contese (le
Diaoyu per i cinesi, Senkaku per i giapponesi),
che aveva finito per irritare Giappone, Taiwan,
Filippine e Vietnam e naturalmente
Obama e Washington. Proteste anti Pechino
avevano sconvolto Hanoi, mentre Tokyo sottolineava
la propria vocazione militare, con le visite dei suoi
politici ai santuari dei suoi combattenti in
guerra, criminali per Corea e Cina (e dimostrando
tutto il proprio vigore, ponendo in pieno centro della
capitale il proprio arsenale anti missilistico,
a seguito delle minacce della Corea del Nord). Era quella l’area
sulla quale si concentrava l’attenzione mondiale, la
zona del mondo, simbolo dell’ascesa della potenza cinese.
Il motivo – del resto — era molto semplice: ad un mondo guidato dall’imperialismo americano, da tempo si contrappongono potenze che nelle proprie aeree spingono per una nuova egemonia. Stati che nei confronti degli americani hanno un atteggiamento spavaldo e per niente deferente.
Da tutto questo, Washington risulta indebolita, nell’influenza e nella forza. E il Pacifico assumeva i contorni della prova del fuoco: la strategia americana di «pivot to Asia», è contrastata dalla Cina, creando una carambola di conseguenze dall’afflato mondiale.
Gli eventi di questi
ultimi mesi, hanno invece dimostrato che questa tendenza
non è solo asiatica, ma ormai mondiale e lo
scoppio quotidiano – o la ripresa — di
conflitti (Ucraina, Gaza, Iraq, Siria) dimostra che questa
modifica negli assetti globali è ormai nella sua fase
più attiva, non solo nelle zone vicine alla seconda potenza
mondiale, la Cina, e si manifesta nel mondo
consueto con cui si risolvono le crisi nel capitalismo:
attraverso le guerre.
Per questo Wars on demand, un libro a cura di «Vicenza libera dalle servitù militari» (Agenzia X, euro 13), è un volume fondamentale per interpretare e comprende quanto sta accadendo ed è per certi versi una sorta di anticipazione di tutto quanto potrebbe accadere nel più immediato futuro. Non a caso, gli autori degli interventi ospitati nel libro si concentrano soprattutto sull’area asiatica (isole contese e basi americani a Guam, in Giappone, ad esempio), ma le linee generali dimostrano – utilizzando spunti che vanno dall’uso dei droni, alla conquista «militare» dello spazio, fino alla nuova guerra informatica – questo cambiamento paradigmatico negli equilibri geopolitici.
Base USA a Vicenza |
Come scrivono nella
premessa Duccio Ellero, Vilma Mazza e Giuseppe
Zambon, «siamo dentro un passaggio
geopolitico da quella che era stata definita la
fase dell’Impero, in cui una sola potenza, gli Usa, imponeva
il proprio dominio anche tramite le strumento
guerra, a una in cui emergono con determinazione
potenze continentali che assumono un rapporto
politico, economico e militare,
decisamente conflittuale con la precedente
potenza egemone».
I fatti di queste ultime settimane lo dimostrano in pieno. Cosa è la guerra in Ucraina, se non uno scontro tra la Russia, che Putin vorrebbe riportare agli antichi fasti di dominio della sua area di influenza, tramite il riavvicinamento di quegli ex stati sovietici che gli permetterebbero di creare distanza tra Europa a occidente e Cina a oriente, e la Nato a guida Usa che prova a recuperare un paese che ha di fatto portato alla divisione e a lacerarsi con una guerra dall’esito ormai sempre più incerto (e dove muoiono, come in ogni conflitto che si rispetti, per lo più i civili)? Per altro il conflitto ucraino racconta anche un’altra cosa: che nonostante i droni e le moderne tecnologie, la guerra è ancora fatta con uso di artiglieria, a colpi di mortaio e con probabili missili terra– aria capaci di colpire anche aerei commerciali in volo sulle zone di conflitto.
Del resto anche la
recente guerra di Gaza, potrebbe venire interpretata come
una sorta di autonoma politica di potenza di Israele (non
a caso il rapporto con gli Usa può essere definito in
lieve crisi, ultimamente), a fronte anche di quanto
sta succedendo poco distante. Non tanto e non solo per
l’Iran e la sua influenza nell’area, quanto per la politica
di conquista, di «potere» (come ha spiegato ieri
sul Manifesto Giuliana Sgrena) dei
jihadisti del Califfato, usciti dal disastro
siriano. Scontri, geometrie, che manifestano
la decadenza di un impero (secondo i neocon ben
impersonata dalle incertezze di Obama in politica
estera) che ha trovato un suo momento simbolico nel
«fronte interno» americano, con i recenti scontri
— di classe, non solo razziali — a Ferguson,
in Missouri. L’emblema della crisi del gendarme del
mondo, che deve ormai guardarsi, a causa della crisi
economica, dal suo «fronte interno».
War on demands presenta dunque una carrellata di zone di guerra e di strumenti di guerra, indispensabile bussola nelle nuove aritmetiche di potenza attuali, a seguito del fallimento di quelle passate.
Basti pensare
all’Iraq. Come scrive Domenico Chirico di «Un ponte
per», dopo dieci anni dalla guerra americana «in uno dei
paesi più ricchi di petrolio al mondo, la maggioranza
della popolazione ha al massimo sei ore di
elettricità al giorno, uno su quattro non ha accesso
ad acqua potabile, il 20% della popolazione
è analfabeta, i casi di malformazione,
conseguenza del massiccio uso di armi chimiche
e uranio impoverito durante la guerra, sono in
continuo aumento con percentuali simili in alcune
aeree a quelle di Chernobyl».
In tutto questo
panorama, ci sono anche gli «imperialisti
straccioni», alla ricerca delle briciole di influenza
cadute dai tavoli dei «grandi», naturalmente. E i
casi delle lotte del movimento «No Dal Molin» e «No Muos»,
raccontano che l’Italia, come dimostrato dalla
recente decisione di armare i peshmerga in Iraq,
non è esclusa da questo «mondo in guerra».
Il Manifesto – 22
agosto 2014
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