07 ottobre 2014

CINEMA: L'AMORE DI FRANCES HA




Frances Ha e l’amore per le cose che sembrano errori

I like things that look like mistakes
Frances Ha (2012)

Ci si sente davvero felici quando, a una festa, si incrocia lo sguardo complice della persona che amiamo. La si guarda, indugiando o di sfuggita, e poi si torna a fare quel che si è interrotto: chiacchierare con una nuova conoscenza, versare da bere a uno sconosciuto capitato al tavolo degli alcolici nel nostro stesso momento oppure fumare una sigaretta alla finestra, confessandoci con un vecchio amico, mentre si valuta l’idea di ballare un po’. La nostra persona sarà dunque attraente e sicura e nulla di più appagante che vederla mentre è alle prese con risate e strette di mano, diversa da come è in privato e per questo ancora più luminosa e sensuale. Quell’occhiata fugace, scambiata fra due che nutrono fiducia reciproca e profonda adorazione, è il segnale tangibile dell’intesa amorosa, il sintomo inconfondibile dell’innamoramento avvenuto e consolidato.
Questo è ciò che, al termine di un’imbarazzante cena nell’Upper East Side, teorizza Frances Ha, la protagonista ventisettenne dell’omonimo film di Noah Baumbach (regista del Calamaro e la balena e sceneggiatore de Le avventure acquatiche di Steve Zissou), uscito in America nel 2012 e approdato in Italia lo scorso settembre, dopo aver peregrinato fra Toronto, Berlino, Torino fino al Telluride Film Festival.
Tale fortunata corrispondenza di sguardi, avvenuta durante il brindisi successivo a un saggio di danza, interesserà proprio Frances e la sua migliore amica, Sophie, la sua persona (“because that is your person in this life”), e questa scena, lasciata alla fine del film, sarà emblematica e andrà a corroborare le riflessioni che accompagnano la pellicola sin dal principio. Nella complessa e irrisolta amicizia con Sophie, storica compagna universitaria e poi coinquilina a New York, la protagonista – la cui fisionomia viene costruita con originalità, permettendoci di rimanere piacevolmente sorpresi di fronte a ogni sua scelta, dalla più capitale a quelle insulse di ogni giorno – esperisce, in scala minore, il suo rapporto con i ventisette anni, cifra che sembra non passare mai, e quindi con il compromesso richiesto dall’età matura.
Frances rifiuta la trasformazione e soprattutto la perdita dell’incanto e per questo si ostina nella danza, nonostante la sua insegnante garbatamente glielo sconsigli e i risultati tardino ad arrivare. È come se ballando lei riuscisse a conservare immutate utopie e aspirazioni, come se questo fosse il solo modo per non deludere la bambina che è stata, per non far vacillare l’ottimismo che la rappresenta. Il movimento e le coreografie sono il solo modo per esonerarsi dalla squallida trattativa con il presente.
Una commedia urbana che non vuole scomodare i grandi temi esistenziali ma si propone, e lo fa magistralmente, di raccontare la complicata parabola di una ragazza squattrinata, vicina ai trenta, a New York, sballottata da un civico all’altro, alle prese con una crisi personale scoperchiata in seguito al trasloco della sua amica, con cui aveva stabilito una simbiosi intelligente e forse un po’ morbosa. La partenza di Sophie non solo lascerà la nostra in uno stato di confusione e scollamento rispetto alla realtà ma avrà la funzione di svelare senza pietà il divario esistente fra le due che, pur avendo condiviso per anni lenzuola, frigo e segreti, hanno raggiunto un grado di maturità ben differente. Da una parte assistiamo alla presa di coscienza utile e conveniente che, pur passando attraverso dolori e nostalgie, conduce comunque alla meta prefissata, ovvero la sconfitta dell’emarginazione che tanto sgomenta, dapprima lavorando nell’editoria, pur non avendo una sincera passione per la letteratura, e poi sposando, senza amore, un uomo dalla ridente posizione economica.
Strategica e disillusa, Sophie, muterà espressione nel corso del film: dall’euforia briosa dell’inizio, quando si crogiola in gossip e confessioni erotiche con Frances, all’austera compostezza dell’epilogo, atteggiamento che ben si modella sui lineamenti duri del suo volto.  Dall’altra, Frances è invece l’eroina – o antieroina, fa lo stesso – di un’epoca che non conosce fallimento e non contempla il concetto di conflittualità o battaglia ideologica. Con così poco da perdere e ancor meno da guadagnare, che senso ha oggi affannarsi dietro un disegno razionale? Perché accettare un modello condiviso? Lei vaga, corre, scappa, è sempre in movimento ma senza andare da nessuna parte.
Frances Ha tallona per 86 minuti Frances mentre sgambetta per le strade di New York, piroetta al ritmo di Modern Love di David Bowie, danza con goffaggine fra ballerine delicate e dal plié controllato, si imbarca impulsivamente su un volo destinazione Parigi per concedersi un inutile e inconcludente weekend, smentita vivente di tutti quei viaggi che nel cinema vantano un compito catartico e risolutore. Che si tratti di una Parigi sfocata e avvelenata dal jet lag, di una casa a Chinatown condivisa con brillanti creativi di buona famiglia o di una visita natalizia a Sacramento, poco cambia. Senza mai sprofondare nella disperazione o nel cinismo nichilista – perché questo davvero colpisce in Frances Ha, l’assenza di stereotipi depressi, annoiati e devoti allo xanax – si ha la rassegnata certezza che questa società non ha più alcun posto libero.
La cena con gli amici bene di una delle sue inquiline transitorie è un momento che con ironia mette in luce la difficoltà di Frances, alla fine sbronza, di accordarsi ai codici e ai riti di una società inafferrabile, che pare possa essere decifrata solo attraverso l’uso massiccio di alcol e umorismo. Tanta dimestichezza infatti con la risata e la battuta mordace, espedienti che riescono ad attutire i colpi e a velare paure e disagi, creando delle volte una specie di sottotesto attraverso cui interpretare altri messaggi invece più seri. Il motteggio arguto e il riferimento erudito nascondono delle volte un sentimento non confessato, proprio come accade durante l’incontro in strada fra Frances e il vecchio inquilino, Benji (non a caso il Joe di Girls, serie tv HBO accostabile per alcuni aspetti a Frances Ha), durante il quale i due, da sempre un po’ predestinati e affini, si provocano con riferimenti ironici e affettuose frecciate, tagliando fuori da questo perimetro di complicità la ragazza di lui, che lì accanto sorride perplessa. Un film univocamente tarato sulla protagonista, il solo occhio che abbiamo su una New York in bianco e nero.
Le rimaniamo incollati sempre, la seguiamo in ogni angolo delle sue numerose case e ne conosciamo tic e nevrosi. Si guarda con frequenza allo specchio e una notte, demoralizzata e ubriaca, mentre è distesa a letto, fissa la sua immagine riflessa con un cenno di consapevolezza matura, che l’indomani svanirà. È tremendamente disordinata e dorme con i calzini ai piedi. La spiamo farsi una tisana e bruciarsi con il pentolino rovente, così come la troviamo che dorme pesantemente a Parigi, stordita dal fuso orario. Siamo trascinati nel   frenetico ritorno a casa per le vacanze natalizie, realizzato con un montaggio serrato, capace in pochi minuti di offrirci uno spaccato familiare esaustivo: alcune immagini frammentarie di quel soggiorno, chiuse fra una salita e una discesa nella scala mobile dell’aeroporto a sancire inizio e fine – partenza e ritorno, riescono a farci immaginare la sua adolescenza, la dolcezza della madre, l’educazione impartita e le tradizionali abitudini del loro Natale sulla West Coast.
Frances, che per centralità e ampiezza ricorda un po’ Diane Keaton o Anna Karina, è una figura dall’identità alquanto marcata e il suo profilo emotivo e caratteriale, così verosimile, è riconducibile non solo alle volontà artistiche del regista-sceneggiatore Baumbach, già noto per altri soggetti ben fatti e anticonformisti, ma anche al contributo fondamentale di Greta Gerwing, talentuosa attrice di cinema indipendente e non solo (ha una parte in To Rome with love di W. Allen), protagonista e co-sceneggiatrice di Frances Ha. La Gerwing, originaria di Sacramento, in California (nel film come nella realtà, infatti i genitori della pellicola sono i suoi veri genitori), dà vita a un personaggio chiamato a divenire generazionale, regalando un racconto di formazione, ovvero un campione di esperienza in cui possono ritrovarsi tutti coloro che ciondolano nell’offuscato limbo posto fra giovinezza e età adulta.
Il suo essere “undateable”, semplificato nel doppiaggio con l’aggettivo “infrequentabile”, non è solo un leitmotiv spassoso fra Frances e Benji, ma una condizione molto più radicata. Non riuscire a farsi  invitare a un appuntamento, o meglio non risultare idonea alle dinamiche di coppia e neppure troppo a suo agio in quelle sessuali, sono caratteristiche che riferiscono tutta la sua cronica incapacità a conformarsi al normario del vivere sociale, al funzionamento di quel mondo che lavora, produce, si sposa e ce la fa a sopravvivere.
Forse la colonna sonora studiata alla perfezione – una furbissima selezione che va dagli Hot Chocolate e David Bowie a Mozart – o forse l’espressività senza tempo del volto della Gerwing, che ricorda per intensità quello di Kate Winslet; la sceneggiatura che funziona sempre e la sofisticata fotografia in bianco e nero: dopo aver visto Frances Ha si ha quel buonumore soddisfatto di quando si è scelto il film giusto. Che ci si senta o no raccontati in questa storia newyorkese, che si condivida o si biasimi il metodo un po’ ingenuo della protagonista, foriero di continui passi falsi e disfatte, alla fine, nonostante tutto, si avrà meno paura del vuoto e per un attimo non sembrerà impossibile resistere al grande inganno. Per un attimo non sembrerà impossibile rimanere se stessi.

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