02 marzo 2015

AL CINEMA VIZIO DI FORMA (INHERENT VICE)











Il cinema classico in frammenti. Vizio di forma (Inherent Vice) di Paul Thomas Anderson


di Pietro Bianchi

Ogni volta che si deve parlare di un film di Paul Thomas Anderson è quasi inevitabile sentir accostare il suo cinema a quello di altri grandi americani contemporanei: Robert Altman, Martin Scorsese, i fratelli Coen, Gus Van Sant e così via. Al pari di questi e di pochi altri, il suo cinema è come se fosse già stato assurto al livello di classico contemporaneo della storiografia cinematografica a venire. La ragione è presto detta: a fronte di un’industria dell’intrattenimento, come quella di Hollywood, che a partire dagli anni Ottanta ha sostanzialmente annientato ogni tipo di riflessione esplicita sulla forma (pochi ormai quelli che riescono a sfruttare un “blockbuster” per un proprio percorso estetico autonomo, come Christopher Nolan o Michael Mann), è come se questi pochi registi fossero davvero rimasti gli ultimi a porsi ancora delle domande sulle ragioni profonde della messa in immagini della realtà.
Se è vero, come pensa Fredric Jameson, che la postmodernità si caratterizzi soprattutto per un processo di naturalizzazione del capitalismo – proprio perché il capitalismo ha nella sua natura quella di dissimulare se stesso e apparire in una forma invertita – risulta allora evidente come il cinema della più grande industria dell’intrattenimento mondiale abbia da sempre adempiuto in modo efficace a questo compito. Tuttavia, come sa chiunque abbia imparato ad amare il cinema di Hollywood, le ciambelle raramente escono col buco, e molto spesso la messa in forma di un’ideologia dice sempre qualcosa di più o qualcosa di meno di quello che il suo ruolo sociale o economico gli prescriverebbe. I registi sopra citati (l’elenco sarebbe evidentemente molto più lungo e discorso a parte andrebbe fatto per il cinema francese, dell’Estremo Oriente o di altre zone del mondo) sono allora tra i pochi che ad Hollywood riescono ancora ad abitare in modo problematico questo spazio di libertà formale sempre più angusto.
Tuttavia qui sarebbe interessante prendere nota delle differenze. I Coen ad esempio, hanno da sempre deciso di abbracciare la molteplicità in frammenti del mondo che ci circonda. Con uno sguardo ironico e cinico allo stesso tempo, compiaciuto nel mettersi a distanza dalla realtà, hanno fatto del loro cinema un cantico del mondo come pura combinatoria casuale, dove qualunque tipo di evento è solo il frutto dell’incontro insensato di mille frammenti marginali. Apologeti dell’assenza di un centro, il loro è un cinema che ha perso non solo ogni possibilità di enunciazione di una verità (sempre casuale, contingente e di fatto mai da prendere sul serio), ma anche ogni possibilità di tragedia e di conflitto di forze oppositive (significativa la totale assenza del peso simbolico della morte nei loro film). Gus Van Sant invece ha cercato di cogliere nei margini esclusi di un mondo in frammenti delle possibilità, seppur fugaci e limitate, di ri-sublimazione della realtà (Paranoid Park e Will Hunting, commercialmente così diversi, condividono questo stesso spirito). Mentre Scorsese ha sostituito alla pretesa di totalizzazione formale del cinema classico, il rapporto singolare che alcuni protagonisti del suo cinema hanno intrattenuto con la paradossalità perversa e carnale della Legge: come se a fronte di un mondo ridotto in frammenti egoisti, esistesse comunque la possibilità unificatrice del peccato (e della sua redenzione).
Quello che però manca a tutti è l’idea propriamente modernista di pensare alla forma cinematografica come annuncio di una possibile totalizzazione del mondo in frammenti del capitalismo (come nella comunità di My Darling Clementine di John Ford). È questa una delle contraddizioni fondamentali che ha attraversato la storia del cinema del ventesimo secolo: è la forma cinematografica la prefigurazione di un superamento della frammentazione del mondo moderno, o è invece la sua dissimulazione ideologica? Il cinema mette in forma d’immagine i contrasti e i conflitti del nostro mondo, o è invece ciò che ci impedisce di vederli? È una visione delle contraddizioni o è invece ciò che il sabato sera per un paio d’ore ci permette finalmente di non vederle?
Se è vero che il progetto modernista in questa fase storica pare essere stato messo definitivamente in scacco, non è detto che lo sia anche la domanda sulla sua possibilità. Nessuno oggi potrebbe fare un film come lo faceva John Ford nel suo periodo rooseveltiano, eppure non è detto che la memoria di quello sguardo debba essere completamente perduta.
È a partire da questo problema che possiamo misurare l’eccentricità che occupa il cinema di Paul Thomas Anderson, quanto meno a partire da The Master, il film in cui il regista di Los Angeles ha smesso definitivamente di essere l’ “Altman del futuro”, o il “nuovo Scorsese”, e ha raffinato il percorso di maturazione stilistico iniziato con le sue prime opere degli anni Novanta per portarlo in una direzione inedita e originale. Anderson infatti ha poco o niente a che spartire con chi si compiace della mancanza di un centro o della proliferazione di frammenti. Il suo potrebbe essere definito un cinema dove lo sguardo del classicismo hollywoodiano si posa sul mondo molteplice, centrifugo e caotico della postmodernità.
Lo vediamo già dal trattamento del romanzo Inherent Vice: nonostante la sceneggiatura sia di fatto composta da vere e proprie sezioni del libro di Pynchon, è significativo vedere quali siano gli interventi formali di P.T. Anderson, a partire dalle splendida sequenza d’apertura in cui Shasta piomba a casa di Doc Sportello a Gordita Beach dopo di anni d’assenza. Nel libro il dialogo è serrato, Pynchon usa un lessico su filo del grottesco, con molti neologismi e modi di dire insoliti anche per l’inglese colloquiale che viene usato nel racconto. Inoltre le osservazioni del narratore sono “doppiate” da Shasta stessa che commenta ironicamente le reazioni di Doc quasi come se fosse un secondo narratore, dando un ulteriore elemento di assurdità alla scena. Anderson mantenendo intatta la struttura del dialogo decide però di guardarlo a modo suo: rallenta la sequenza, la avvolge in una luce bluastra irreale con una ballad quasi indistinguibile in lontananza, e soprattutto sceglie di inquadrare i personaggi con dei piani per lo più stretti, spesso dei veri e propri primi piani. Vale lo stesso discorso qui che fece Roberto Manassero riguardo all’utilizzo del formato panoramico in The Master in una splendida recensione di qualche anno fa: “Anderson non è uno sprovveduto, e come Minnelli usava il formato panoramico per i melodrammi familiari, trasformando case borghesi anni cinquanta in praterie di solitudini, decide di sfruttare il grande formato non per allargarsi, ma per andare in profondità, per scavare nella testa dei personaggi”. Anche qui lo sguardo della macchina da presa entra in profondità, isola i personaggi dal contesto, li singolarizza. L’effetto è straniante, a maggior ragione in un film che fa della coralità dei molti personaggi coinvolti e della comicità ai limiti dell’assurdo uno dei suoi tratti caratteristici. Ma proprio per non fare di Inherent Vice una specie di Paura e delirio a Las Vegas, il registro grottesco e ironico è continuamente contrappuntato da momenti drammatici, sentimentali, finanche erotici. Il film è insomma attraversato da vistosi cambi di registro che sembrano vivere di una propria singolare intensità e coesistere gli uni accanto agli altri.
Inherent Vice è costruito attorno a una vicenda che ricorda la più classica delle detective story. Tuttavia il plot è così arzigogolato da far smarrire anche lo spettatore più attento (c’è bisogno di 2 o 3 visioni per riuscire a ricostruire anche solo i tratti essenziali della vicenda). Questo però non è un limite, ma è semplicemente l’approccio che il film chiede di assumere allo spettatore: non la ricostruzione della totalità della vicenda per riuscire ad illuminarne il senso generale, ma il passaggio da un particolare a un altro, da un frammento a un altro. Paul Thomas Anderson lo spiegava a proposito di Intrigo internazionale di Hitchcok: “Intrigo Internazionale? Spiegami com’è che è finito in mezzo a quel campo con un aereo che lo insegue? Non me lo ricordo. Com’è che è finito sul monte Rushmore? Non lo so, ma rimane bellissimo”.
Così allo stesso modo in Inherent Vice è come se passassimo continuamente da un film a un altro, che coesistono così nella loro singolarità: dall’ironia grottesca e leggera della prima mezz’ora, al dramma della sequenza dell’uccisione di Puck Beaverton e Adrian Prussia. Ma viviamo anche con un’intensità fugace e malinconica i ricordi della storia d’amore di Shasta e Doc quando li vediamo in flashback correre sotto la pioggia di Sunset Boulevard sulle note di Journey Through the Past di Neil Young, così come entriamo improvvisamente in un film erotico quando Shasta si fa trovare a casa di Doc completamente nuda in una delle più intense scene di seduzione di recente memoria. Inherent Vice è insomma apparentemente un film frammentato, e tuttavia lo è in una modalità assolutamente inedita. Non c’è qui nulla del compiacimento di chi vede i frammenti del nostro mondo dal punto di vista dell’esaurimento della forma modernista e della sua crisi (dove vi sono dei frammenti che si espongono in quanto frammenti). Inherent Vice ci mostra semmai dei frammenti come se fossero visti con lo sguardo del cinema classico, che riesce a inquadrarli nel paradigma del dramma, dell’epopea sentimentale, del racconto erotico. Ed in questo senso è un film capace nello stesso tempo di mostrare il massimo della disorganizzazione caotica, accanto al “ricordo” della forma totalizzante del cinema classico.
Quando la totalità come principio di organizzazione del molteplice del mondo non riesce più a darsi nel contemporaneo, è tuttavia possibile almeno questo: vedere i frammenti del nostro mondo senza alcun compiacimento, come se li guardassimo con gli occhi di una totalità oltre la sua stessa sparizione. Vuol dire che oltre la crisi della forma cinematografica classica, non esiste solo l’apologia della molteplice disordinato. È come se Paul Thomas Anderson riuscisse a conservare lo sguardo del cinema classico oltre la sua stessa morte. E in questo riesce a essere uno dei pochi oggi (forse l’unico) a saperlo davvero reinventare.

Da: http://www.leparoleelecose.it/ 1 marzo 2015

Nessun commento:

Posta un commento