01 marzo 2015

G. CERONETTI SULL'ARTE DIFFICILE DELLA SATIRA



Una riflessione sull'arte difficile (e pericolosa) di fare satira. E non solo oggi...

Guido Ceronetti
 
Il satirico nell’imbarazzo


Se mi fosse domandato di definire che tipo di scrittore sono, o sono stato, naturalmente risponderei: «Uno scrittore satirico». Ma la Satira, Dea di ogni tempo — occorre dirlo? — non ha che incidentalmente il fine di colpire persone del potere o genericamente la politica di un’epoca o di uno Stato (anche Città-Stato, esempio luminoso Atene).

Bevendo latte di Graecia capta la scrittura arcaica romana adotta fin dal principio il meraviglioso dramma satirico plautino, che istruisce il popolo tra le risate, e annuncia le vette satiriche di Molière e dei suoi comici. La straordinaria libertà del linguaggio plautino è figlio della commedia antica di Aristofane. Creazione, come la tragedia della democrazia ateniese, non certo così estesa e liberale come le nostre, repubblicane.

La lettura erudita, esoterica, dell’immenso Gulliver di Swift, ha rivelato un segreto ordito di allusioni politiche legate ai costumi del tempo e a storie di Corte, di cui in realtà ai lettori di trecento anni dopo non può importare niente. Sono le tappe di quei fantastici viaggi ad attrarci, scopertamente, e là tutte le acuminate frecce satiriche del Decano hanno per unico bersaglio l’uomo, la vanità dell’esistenza e della storia umana. In questo fu ineguagliabile e rimane solo.

Io credo di aver scoperto la mia vocazione satirica traducendo integralmente gli Epigrammi di Valerio Marziale e soprattutto le sedici Satire di Giunio Giovenale, il più cupo dei latini, il più prossimo in visione repulsiva del genere umano, di Swift, Bosch, Hogarth... La satira oraziana non dà ombre a Mecenate, e quella di Montale non inquietò Scelba; ma Giovenale scrisse il suo libro sotto Traiano, per poter alludere senza grane al precedente, nordcoreano, regime di Domiziano.

Ne avrebbe oggi, da noi, democrazia liberale, ma butterata dalla sua degenerazione, in libertà di stampa condizionata. Giovenale avendo graffiato un poco, e con stile, le donne, gli omosessuali, i mores invisi ai Romani degli Ebrei, verrebbe denunciato per omofobia e antisemitismo, deplorato duramente dai comitati di difesa, dalle associazioni, dagli editorialisti, uscirebbe dai dibattiti con qualche osso fracassato.

A Hogarth, che dipinge a tinte fosche i bevitori di gin (Gin Street) e loda le pance gonfie di birra (Beer Street) farebbero causa agli spacciatori di superacolici e manderebbero botti ogni capodanno delle loro schiume i birrai. Immane, violento, chiaroscurale satiro di avvocati, magistrati, predicatori politici, Honoré Daumier sarebbe perseguitato, al punto di dover emigrare in America, dalle loro corporazioni di unghioni lunghi.

Una mia raccolta di testi satirici, che scherzava con un po’ d’acido su Andreotti e Moro (ovviamente, prima del rapimento), “La Musa Ulcerosa”, sparì invenduta dopo pochissimo tempo e oggi è venduta all’asta sulla Rete. Gheddafi, il compianto colonnello di Giarabub, minacciò di far saltare “La Stampa” per una elegante canzonatura negli anni di Arrigo Levi, autori Fruttero e Lucentini.

— Cosa vuoi?, mi diceva un grande satirico come Ennio Flaiano, non si può più fare satira su niente, ti querelano subito, io ho una causa coi marziani di Roma! — Gli risposi che poco mancò io ne ricevessi una dai pizzaioli per aver scritto che la dieta italiana, fondata sulla pizza (e adesso associata all’indigesto kebab) è un cibo che fa ammalare. E adesso, dopo una redazione massacrata a Parigi, vuoi ancora scrivere satire, pover’uomo? Ahimè! La nostra Musa è più che mai ulcerosa ( the cankered Muse la chiama Alexander Pope), e la libertà di esserne devoti è molto incerta, dove prevale il cretino.

Charlie Hébdo , con troppa facilità e rimozione di paura ne siamo sgusciati via, e Papa Francesco, col suo parallelo degli insulti alla mamma ne ha rimpicciolito le dimensioni catastrofiche. Un guerrasantista d’oggi non esiterebbe, a un comandamento divino come quello che fa ad Abramo alzare il coltello sul suo Isacchino, a sacrificare sua madre.

E se un pugno è un pugno, Santità, un kalashnikov è un kalashnikov, una macchinetta per sterminare, e chi lo impugna per vendicare una negazione d’immagine, appartiene a una specie rara di psicopatia criminale. Ma per lo più non abbiamo definizioni che calzino davvero, queste apparizioni che si vanno riproducendo dappertutto scherniscono le nostre limitatissime percezioni razionaliste del Male. Altro freno, altre manette per il satirico che non sappia oltrepassare quei limiti. Posso dire, nel mio recinto d’impotenza, che confortava vedere alla marcia di Parigi la nobile barba del capo della Grande Moschea che c’è dietro al Jardin des Plantes.

Come direttore del settimanale non avrei pubblicato quelle vignette, per la loro bruttezza e volgarità essenzialmente, ma anche per consapevolezza responsabile dei rischi. Mettere così, ciecamente, la testa sul ceppo non è saggio né responsabile. Un vero satiro è un uomo avveduto, e il suo fine non è di sfidare un potere occulto che ignoriamo ma di castigare ridendo mores . Alla marcia avrei partecipato, conservando il diritto di riserve critiche di fondo.

La Repubblica – 13 febbraio 2015

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