03 novembre 2016

D. PASSANTINO, Appunti sulla questione meridionale


    



     Riprendo di seguito gli appunti di Domenico Passantino sulla questione meridionale pubblicata ieri sul suo sito che, anche se hanno bisogno di un ulteriore approfondimento ed aggiornamento, sono un utile punto di partenza (fv):



Appunti sulla cosiddetta “questione meridionale”

        Come è noto, si incomincia a parlare di questione meridionale già il giorno successivo all’unificazione politica della penisola italiana, quando i primi governi nazionali devono tenere conto, per forza di cose, della pesanti rivolte popolari del Sud, guidate dai briganti (generalmente ex soldati del Regno delle due Sicilie, ex combattenti dell’esercito meridiinale di Garibaldi, ma anche gente di imile estrazione sociale e banditi comuni che erano stati tali anche prima dell’unificazione italiana), rivolte che spesso sfociarono in episodi cruenti.
Fu per questo motivo che il governo, negli anni 1875-1876 deve un’inchiesta, in realtà puramente descrittiva, sul brigantaggio, come fenomeno sociale peculiare del Mezzogiorno, che aveva preso caratteristiche di lotta politica e di opposizione armata al governo.
L’anno seguente i docenti universitari Franchetti e Sonnino condussero anch’essi uno studio sul brigantaggio e sulle due possibili cause che riscontrarono nell’arretratezza del sistema economico basato prevalentalemente di un tipo di agricoltura con caratteristiche feudali e nella pressione fiscale del Nord nei confronti del Sud. D’altra parte anche altri studiosi meridionalisti, quali Giustino Fortunato e Pasquale Villari, videro nell’Unità d’Italia la rovina del Meridione.
Sotto il governo Giolitti (1901-1914) sono due le figure di spicco che si pongono di fronte la questione meridionale: Francesco Daverio Nitti e Gaetano Salvemini.
Nitti, sudioso della questione meridionale (sull’argomento scrisse: L’emigrazione italiana e i suoi avversari, 1888; Nord e Sud, 1889; L’Italia all’alba del xx secolo, 1901; Napoli e la questione meridionale, 1903) e deputato dal 1904 al 1924, analizzò le cause che avevano provocato l’arretratezza del Meridione e le aveva individuate nella politica dei governi dell’Italia post-unitaria, i quali avevano favorito l’industrializzazione del Nord: secondo la sua visione, i contadini del Sud pagavano tasse ingiuste e i proventi di questa imposte servivano a finanziare le infrastrutture della devono settentrionali. Nitti credeva che la soluzione dovesse arrivare dal governo centrale e, per questo motivo, forse poca importanza al peso politico che le masse contadine del Mezzogiorno dovevano conquistare(cfr.Spina, Federalismo ieri e oggi, p. 78).
Salvemini si oppose al governo di Giolitti,  definì quest’ultimo Il ministro della malavita (un suo scritto del 1910 si intitola proprio così!) e sostenne che l’Italia soffre tra malattie:
1)lo Stato addestratore e divoratore;
2)l’oppressione economica dell’Italia settentrionale sull’Italia meridionale (come già in Nitti);
3)la struttura semifeudale del Mezzogiorno.
Il rimedio a questa condizione debilitata del sud-Italia era, a suo parere, l’alleanza tra o contadini del Meridione e gli operai del Settentrione.
Tuttavia, propugnando e sostenendo un federalismo fiscale ante litteram (Il federalismo fiscale non era previsto nella Costituzione italiana del 1948, ma viene espresso formalmente nella modifica dell’articolo 119 del 2001 e applicato dalla Legge 42/2009 del ministro del governo Berlusconi Calderoli, appartenente, vedo caso alla Lega Nord!), affinché il sistema tributario fosse più equo e proporzionato in tutta Italia, lasciando libera la Regioni di trovare la soluzione ottimale per la riscossione delle imposte, in realtà infuse odio nei contadini meridionali contro gli operai settentrionali, visti come sfruttatori, borghesi e ricchi, da persone provenienti da luoghi dove ancora la borghesia e gli operai non esistono, dal momento che la società è composta da latifondisti e mezzadri (gli intelletuali, politici e preti, componenti parimenti della società meridionale saranno presi in esame più avanti). Interessante, a questo proposito, è quanto racconta Gramsci a p. 112, 113 e 117, nell’antologia di scritti che va dal 1916 al 1935 sotto il nome di La questione meridionale; egli nota da un lato che l’ideologia secondo la quale “il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapido progressi allo sviluppo d’Italia(…)è stata diffusa in modo capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione”(Gramsci, op.cit., p.112); dall’altro lato  dice che le affermazioni e le accuse di Salvemini “nella massa lavoratrice del Mezzogiorno, diventavano causa di odio contro il proletariato industriale nel suo complesso” (ivi, p.113): più avanti, infatti, alle pp.116-117, Gramsci racconta di un episodio avvenuto nel 1917, quando la brigata Sassari, composta quasi totalmente da Sardi, partecipa alla repressione del moto insurrezionale di Torino; un operaio conciacapelli che viveva a Torino, ma proveniente da Sassari, si avvicina ad un soldato sardo, un contadino giovane compaesano, a gli chiede cosa sono venuto a fare a Torino della Sardegna; quest’ultimo gli risponde che sono venuti “per sparare contro i signori che fanno lo sciopero”: il conciacapelli prontamente ribatte che non sono i signori a fare lo sciopero, ma operai poveri e il contadino dove che “qui sono tutto sognori,: hanno tutti colletti e cravatta; guadagnano el l’ora al giorno (…) tutti gli zappatori siamo poveri e guadagniamo 1,50 lire al giorno.”
Gramsci, analizzando la società meridionale  (op.cit.p.126), dice che essa può essere definita come una “grande disgregazione”, “un grande blocco agrario, costituito di tre strati sociali: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali”.
Continua poi Gramsci dicendo che gli intellettuali meridionali sono tra i più importanti nella vita nazionale: infatti i 3/5 della burocrazia statale è costituita da meridionali (ivi p.127). Gli intellettuali del Sud sono diversi dagli intellettuali della regioni industrializzate, perché in queste l’intellettuale coincide con l’organizzatore tecnico, mentre “nei paesi dove l’agricoltura esercita ancora un ruolo preponderante, è rimasto in prevalenza il vecchio tipo (…) che nel villaggio e nel borgo rurale, esercita la funzione di intermediario tra il contadino e l’amministrazione in generale”. Questo tipo di intellettuale è “democratico nella faccia contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo, politicante, corrotto, sleale”. Inoltre anche il clero appartiene al gruppo sociale degli intellettuali e il prete nel Meridione di presenta al contadino come un amministratore di terre, come un usuraio e, infine, come “un uomo sottoposto alle passioni comuni “(ivi p.129). “L’atteggiamento popolare del contadino verso il clero”, chiosa Gramsci,”è riassunto nel celebre detto popolare:<Il prete è prete sull’altare; fuori è un uomo come tutti gli altri>. A me fa ricordare il proverbio siciliano:<Monachi e parrini: taliaci a missa e stoccaci i rini (monaci e preti:guardabla loro messa, per il resto spezza loro la schiena )>. Il proverbio siciliano tuttora in uso la dice lunga sull’acutezza dell’indagine gramsciana.
Andiamo avanti.
“La Sicilia e il Piemonte sono le due regioni che hanno dato il maggior numero di dirigenti politici allo Stato italiano…”(p.130).
Viene da chiedersi allora: perché questa condizione di arretratezza?
Gramsci vede la risposta nel cosiddetto “blocco agrario”, cioè nel legame che intercorre tra il contadino e il proprietario terriero, che ha come tramite l’intellettuale sopra descritto: questa situazione nel complesso funziona da “sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche. Il suo unico scopo è quello di conservare lo status quo”. Anche i grandi intellettuali, quali Giustino Fortunato e Benedetto Croce, hanno fatto in modo che “l’impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certo limiti, non diventasse rivoluzionaria” (p. 134). In questo senso e su questa scia, quindi, gli intellettuali  meridionalisti  si sono allontanati, in realtà, dal vero problema è hanno anzi favorito e fomentato il blocco agrario, per il fatto che, in breve, hanno definito la questione come meramente meridionale e non nazionale come è in effetti.
A proposito degli intellettuali meridionali al governo non si può non pensare ai gattopardi, come fa notare Nando dalla Chiesa nell’ampia introduzione a La questione meridionale di Gramsci: la classe dominante meridionale (specialmente quella siciliana) ha partecipato direzione dello Stato; è stata ed è, quindi, classe dirigente: lo era stata al tempo dei Borboni e ha continuato ad esserlo con l’Italia unita, facendosi mediatrice prima degli oppressori borbonici (e indietro nella storia dei Greci, dei Romani, degli Arabi, dei Normanni, degli Angioini, degli Svevi) e poi del capitalismo industriale settentrionale “come se la classe dominante della nazione di dividesse in due, una parte (quella del Nord) e dettare le linee dell’economia e l’altra (quella del Sud) a garantirne l’osservanza per assicurarsi le condizioni su cui lucrare potere: miseria, ignoranza, sottosviluppo, bisogno, dipendenza”. (op.cit.p.49).
La mafia, la criminalità organizzata, come fenomeno peculiare del Meridione non viene trattata chiaramente da Gramsci, eppure della sua analisi ne ne deduce l’esistenza pur senza nominarla esplicitamente. Essa è in buona sostanza la ragnatela, ma trama che incatena e lega stretti i grandi proprietari, gli intellettuali dirigenti politici da essi manipolati, i contadini disorganizzati e incoesi alle grandi lobbies finanziarie del Settentrione (si potrebbe dire gruppi invece di usare l’inglese lobbies, ma questa è una questione di lingua…anche se rimbombano alla mente le pagine di Pasolini sulla questione dellla lingua italiana in Empirismo eretico!).
D’altra parte anche lo storico ciminnese Francesco Brancato, in un saggio pubblicato su Nuovi quaderni del Meridione, luglio-dicembre 1984, intitolato “Anche Verre mafioso?”, scrive che l’origine del fenomeno mafioso non si può vedere,  per esempio, nel I secolo a.C., nella persona di Verre, che pure  “fu accusato di malversazione e di profitti personali d’ufficio, e morto poi, come il suo accusatore Cicerone, di pugnale che oggi diremmo mafioso”, perché qualsiasi tentativo di trovare un’analogia tra la mafia di oggi e quella di ieri approderebbe ad una analogia antistorica (cfr. Francesco Brancato, Uno storico per la verità, 2012, p.66).
Brancato chiude dicendo che “nel passato più o meno lontano si possono trovare i presupposti che fanno nascere la mafia, ma essi non sono ancora mafia”.
Si potrebbe dire in ugual modo, facendo eco a Brancato e a Gramsci, che nel passato del Meridione si possono trovare i presupposti per una questione meridionale, ma essi non sono ancora questione meridionale, perché non sono questione nazionale, e rischiano di non diventarlo nemmeno oggi, se si continua a pensare che il problema sia solo meridionale, poiché il blocco agrario e il blocco intellettuale, che caratterizzano il Sud, fanno da contraltare e sono l’altra faccia della medaglia di un capitalismo sfrenato che trae sostentamento proprio dal perpetuarsi di questo stato di cose.

Nessun commento:

Posta un commento