Per cambiare il mondo
occorre prima pensarne uno differente. In questo sta il carattere
profetico del pensiero utopico. Ma oggi chi è in grado di pensare un
futuro che non sia la ripetizione in peggio del presente? Un saggio di
Massimo Cacciari e Paolo Prodi (recentemente scomparso) analizza la
crisi della società
attraverso il declino proprio delle categorie di “profezia” e
“utopia”
Roberto Esposito
Guida al nuovo occidente che ha perduto l’idea di futuro
In molti oggi parlano
di crisi dell’Europa e dell’Occidente. Ma ben pochi risalgono
alla sua origine scavando tanto a fondo nel corpo della nostra
tradizione, come fanno Massimo Cacciari e Paolo Prodi nel loro
Occidente senza utopie (il Mulino). Ciò che, pur nella diversità
degli strumenti, incrocia i loro sguardi è da un lato il rifiuto di
categorie lineari come quella di laicizzazione; dall’altra il
coraggio di dichiarare il fallimento del progetto moderno. La grande
tradizione che è nata dalla tensione tra Atene e Gerusalemme e che,
attraverso Roma, è sfociata nel diritto pubblico europeo, è
arrivata a termine e non è possibile riattivarla, se non passando
per la piena consapevolezza di quanto è accaduto. Se non si ha la
forza, come scrive Paul Valéry, di fissare gli spettri che ci
lasciamo alle spalle, non basteranno incontri di vertice o
rifondazioni istituzionali per riprendere quel cammino interrotto.
I due paradigmi su cui gli autori misurano la distanza che separa il presente dalle sue radici, sono quelli di profezia e di utopia. Senza la potenza critica che hanno sprigionato nei secoli, alla nostra civiltà mancherebbe un lievito decisivo. Eppure il loro orizzonte è stato profondamente diverso. La profezia – al centro del saggio di Prodi – ha espresso una critica del potere che ha aperto lo spazio di libertà per la creazione della democrazia. È lo spirito profetico che per la prima volta, in Israele, ha separato il sacro dal politico, rompendo l’identificazione teologico- politica tra potere e legge. Profeta è colui che, da un punto marginale, ha l’autorità per contestare il potere regale e sacerdotale.
Il divieto ebraico di
pronunciare il nome di Dio va inteso anche come difesa da ogni
indebita sacralizzazione del potere. Ma anche la distinzione
cristiana tra quel che è di Cesare e quel che è di Dio conserva,
fino a un certo momento, la distinzione. Tuttavia la figura del
profeta non resiste a lungo. Già ridotta nel Medioevo a quella del
predicatore, è presto espulsa fuori dall’“accampamento”
cristiano, nelle frange ereticali. Tradotta in un impossibile
progetto politico da Savonarola, a partire da fine Settecento si fa
da un lato anelito rivoluzionario e dall’altro contatto personale
con Dio. Dopo la parentesi dei totalitarismi, interpretabili come
forme perverse di religione politica, nell’attuale dominio della
finanza globale sembra venuto meno ogni impulso profetico. E con esso
l’anima stessa dell’Occidente.
Un percorso diverso, ma altrettanto esaurito, quello dell’utopia, ricostruito genealogicamente da Cacciari. Intanto essa non va confusa con le mitologie, antiche e medioevali, di ritorno alle origini. L’utopia si strappa dal passato per radicarsi nel proprio tempo con la potenza di un progetto volto al futuro. Da qui il rilievo che in essa hanno la scienza e la tecnica. Se si passa dall’Utopia di Moro alla Città del sole di Campanella, alla Nuova Atlantide di Bacone, questo elemento costruttivo, sistematico, viene sempre più in primo piano.
Organizzazione economica,
incremento del sapere e tolleranza religiosa sono le precondizioni di
una società armonica e pacifica. Ma è proprio questo progetto di
neutralizzazione dei conflitti a entrare presto in contrasto con la
realtà altamente conflittuale dell’Europa moderna. Non solo la
politica, ma anche lo sviluppo dell’economia e della scienza
passano per un continuo susseguirsi di crisi che rompono ogni
immagine di armonia.
Se le utopie ottocentesche di Fourier e Proudhon presuppongono la crisi della forma-Stato, Marx mette impietosamente a nudo il carattere ideologico dell’utopia. Mentre ancora Bloch persegue una proiezione salvifica verso il futuro, Benjamin revoca in causa ogni modello progressivo. Contro il principio- speranza di Bloch e la coscienza di classe di Lukács, egli nega che la redenzione possa passare per la prassi. Solo l’irrompere del divino nella storia può produrre novità radicale.
Ormai l’idea di
rivoluzione implode su se stessa insieme a quella di riforma. La via
per il futuro è sbarrata. E dunque cosa resta da fare? La risposta
di Cacciari, già da tempo avanzata, è quella di un dualismo
assoluto. Autonomia del politico, sempre più ridotto a tecnica
amministrativa, da un lato. E attesa di un Dio impossibile
dall’altro. Weber e Wittgenstein: limpidezza dello sguardo e
sobrietà delle parole. Tra i due, l’ascolto dei segni enigmatici
con cui il Nuovo può sempre annunciarsi.
La Repubblica – 13
settembre 2016
Massimo Cacciari e Paolo Prodi
Occidente senza utopie
il Mulino
euro 14
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