Questo pomeriggio, a partire dalle ore 15.30, nella splendida cornice del Teatro delle Arti, presso la sede succursale del Liceo Umberto (in via Perpignano, angolo viale della Regione Siciliana), si svolgeranno i lavori (aperti a tutti) della seconda giornata del Convegno Umbertino.
Anticipo di seguito una parte della relazione che esporrò:
LA SICILIA DI LEONARDO SCIASCIA
Francesco Virga
Un documento importante, per capire con quali occhi Leonardo Sciascia ha guardato la sua isola, si trova in Feste religiose in Sicilia: un libro di fotografie di Ferdinando Scianna, ormai introvabile, pubblicato dall’editore Leonardo da Vinci di Bari nel 1965. Per capire meglio il testo introduttivo al volume, curato da Sciascia, ci vorrebbero anche le foto. Scaturiscono infatti anche dall’attenta osservazione di queste ultime le affermazioni dello scrittore sulla scarsa religiosità del popolo siciliano.
Sciascia ironicamente prende le mosse dal “più grande errore di governo” compiuto nel 1783 dal viceré Domenico Caracciolo, nel tentativo di ridurre da cinque a tre i giorni di festa che la città di Palermo era solita celebrare in onore di santa Rosalia. Il viceré riformatore, che era riuscito ad annientare il Tribunale dell’Inquisizione e si accingeva a scardinare i privilegi feudali, appena osò toccare i fasti di santa Rosalia, di colpo si trovò a perdere il favore di tutti i ceti popolari e i nobili subito ne approfittarono per assumere il patrocinio della massiccia reazione. Con la sua tagliente ironia lo scrittore chiosa così l’episodio:
"La cultura siciliana (quella che Giovanni Gentile caratterizza e definisce nel saggio Il tramonto della cultura siciliana) pure contribuì con alti lai, con rampogne e satire; e persino in sede storica, per tutto il secolo successivo ed oltre, non fu risparmiato al Caracciolo,[…], biasimo e vituperio. […]. E il Pitrè, cent’anni dopo, gode dello scorno di Caracciolo […]. Né con minore irritazione ricorda l’episodio lo storico Isidoro La Lumia […]. Ed è curioso vedere questi due ultimi studiosi, risorgimentali e presumibilmente massoni, levarsi in postuma indignazione contro una disposizione, motivata e giustificata, che tendeva più a ridurre, come misura di contingenza, un dispendio che ad abolire una tradizione. Tutto sommato, più sereno è il giudizio del benedettino Giovanni Evangelista Di Blasi, testimone diretto della vicenda: e ne parla come di un errore politico […]. Quest’errore, comunque, si sono ben guardati dal ripeterlo i successivi viceré e luogotenenti, i prefetti savoiardi e della Repubblica, i gerarchi fascisti, i massoni, i radicali, i socialisti, i comunisti. I cortei dei Fasci Siciliani si aprivano con le bandiere dell’Internazionale e le immagini dei santi patroni; e i comunisti sono sempre stati, nei paesi, tra i primi e più zelanti sostenitori delle feste religiose”.
Sciascia, subito dopo, ricostruisce brevemente le vicende attraverso cui Santa Rosalia si afferma come patrona di Palermo e si sofferma a spiegare illuministicamente le ragioni per cui i ceti popolari hanno da sempre privilegiato il rapporto coi Santi rispetto a quello con Dio:
“Che i santi avessero, tutti, uguale potere di intercessione e che il Redentore fosse il più potente di tutti, non era nozione che potesse aver corso in un popolo vessato da una particolare feudalità. Sulla quale […] veniva esemplata la gerarchia celeste: e come i gabelloti, gli sbirri, i famigli erano, per la loro stessa vicinanza e presenza, più potenti del feudatario chiuso nella sua dorata dimora cittadina o nel castello inaccessibile; come il viceré era effettualmente più potente del re (un antico proverbio dice ‘ncapu a lu re c’è lu viceré), così i santi, più vicini alla terra per il fatto di essere stati mortali, dovevano indubbiamente essere più potenti di Dio”
A questo punto lo scrittore utilizza due gustosi racconti – uno di Serafino Amabile Guastella, definito “acuto studioso di costumi popolari”, ed uno di Giovanni Verga – per arrivare ed esporre le tesi principali sostenute nel saggio. Secondo Sciascia la cultura siciliana, intesa in senso antropologico, mostra una “totale refrattarietà a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica”:
"Già il Gentile notava come il materialismo fosse il carattere originale e peculiare della cultura siciliana: ma fermava il suo discorso alla cultura espressa, per così dire, in opere d’inchiostro; non spingeva la sua indagine alla cultura degli strati popolari infimi"
Sciascia, oltre che dalla osservazione diretta del modo in cui il popolo siciliano partecipa alle feste religiose, di cui le foto di Scianna sono documento, sembra trarre gran parte delle sue conclusioni da Le parità e le storie morali dei nostri villani pubblicate dal barone Serafino Amabile Guastella nel 1884. Il libro è un vero e proprio antivangelo, una summa della refrattarietà del popolo siciliano al cristianesimo.
Occorre ricordare che, anche per questo suo scritto, Sciascia venne violentemente attaccato dalla gerarchia cattolica siciliana del tempo, guidata dal Cardinale Ruffini. Da quì la replica garbata e ironica dello scrittore che si trova nello stesso testo:
"a noi i siciliani non sembrano nemmeno cattolici: ma forse abbiamo, del cattolicesimo, una visione più rigorosa di quella che ne hanno gli alti prelati, i quali proclamano ( e fino all’anno scorso, da parte del cardinale arcivescovo di Palermo, in una lettera pastorale largamente discussa dalla stampa) cattolicissima la Sicilia. Certo è, comunque, che cristiana la Sicilia non può dirsi."
Mentre sulle pagine de L’ORA è molto più duro:
Imbattendosi in certe mie pagine in cui considero la refrattarietà dei siciliani alla religione, qualche imbecille ritiene che io ne tragga chi sa quale fierezza e godimento, mentre il presupposto della mia indagine è questo: che dove non c’è religione non ci sono rivoluzioni religiose: e un popolo che non ha fatto una rivoluzione religiosa difficilmente farà una rivoluzione civile. E la storia e la condizione della Sicilia l’abbiamo sotto gli occhi: per come volevasi dimostrare #
Ma gli attacchi subiti negli anni sessanta da parte della gerarchia cattolica hanno lasciato il segno nella memoria dello scrittore. Così circa quindici anni dopo del Cardinale Ruffini ci lascerà un ritratto feroce, anche se corrispondente alla realtà, che non possiamo dimenticare:
“Il Cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo, è stato probabilmente l’ultima forte personalità chiamata a gestire le cose della Chiesa secondo il vecchio stile; e l’ha fatto intervenendo in tutti i campi, rivendicando proprietà che, da certi documenti in suo possesso, dovevano tornare alla Chiesa; costruendo luoghi di culto ovunque gli sembrasse opportuno(…); intervenendo nella formazione delle liste della DC; non esitando mai a dire la sua in occasione di assegnazioni di cariche pubbliche e nella nomina di professori universitari; infine dando sulla voce a tutti coloro che parlavano di mafia, di cui giungeva al punto di negarne l’esistenza. Un vero cardinale del Rinascimento: Nativo di Mantova, è perfettamente riuscito a darsi una mentalità siculo-mafiosa” (da La Sicilia come metafora)
Francesco Virga
P.S. : Il testo integrale del saggio è stato pubblicato nel 1° numero della rivista nuovabusambra nel giugno del 2012. Una copia integrale del saggio si trova in rete in questo sito: https://150anniinsieme.blogspot.it/2012/10/la-sicilia-di-sciascia.html
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