18 ottobre 2024

IL TEMPO CHE CI VUOLE

 




IL TEMPO CHE CI VUOLE
Roberto Chiesi

È molto difficile che la ricostruzione di un set cinematografico, in un film, sia così emozionante da far sembrare il set fittizio un set reale e quelle immagini, sequenze di un documentario rubato dal vivo della realtà: è ciò che accade in "Il tempo che ci vuole" (2024) quando Francesca Comencini rievoca alcuni momenti della lavorazione del meraviglioso "Le avventure di Pinocchio" (1972) di suo padre Luigi. Ritroviamo la stessa fisicità, la stessa luce delle strade, delle pietre, della terra dell'Italia povera e contadina e un riflesso credibile ed emozionante della magia arcaica, non solo collodiana, che si sprigionava dall'artigianato di quel film. Un discorso analogo vale per il ritratto della personalità dell'autore di "Tutti a casa" che è uno degli elementi centrali del film: un narratore integro e integerrimo che non si prendeva sul serio e che aveva a cuore, anzitutto, l'umanità e la dignità dell'uomo: esemplare, in questo senso, la sequenza in cui riprende un suo aiuto-regista che si era rivolto con arroganza ad una contadina, "colpevole" di abitare proprio nella strada dove stavano girando una scena del film. Comencini ricorda al suo collaboratore che prima del film, viene la vita, ossia il rispetto delle persone. La sequenza, che in altre mani sarebbe stata retorica, è bella perché sincera e brusca, come era il carattere di Luigi Comencini, cui Fabrizio Gifuni conferisce uno spessore, un'autorevolezza, anche un'angoscia, indimenticabili. L'angoscia nasce quando Comencini scopre che la figlia (la brava Romana Maggiora Vergano), fragile vittima delle debolezze della sua generazione, gli sta nascondendo di drogarsi. Così Francesca Comencini traccia un autoritratto alla luce dell'aiuto, del soccorso, dell'amore e della protezione che suo padre le ha donato per salvarla: un aiuto non cercato e non voluto, quindi a lungo respinto con ingratitudine. L'autrice non risparmia i risvolti più aspri e tristi delle dinamiche che tormentarono lei e suo padre, trascinato dalla figlia in una situazione difficile che egli affrontò con un altruismo e una dedizione assoluti. Il primo film di Francesca, "Pianoforte" (1984), diviene la catarsi cercata e voluta e la figlia, con estrema onestà, mostra le riserve del padre, che non amava l'autobiografismo, che si commuoveva guardando "Paisà" di Rossellini, che si impegnò, con il fratello e Alberto Lattuada per salvare i film muti dalla distruzione e che si rifiuta di vedere il film sull'esperienza con la droga della figlia dopo averla vissuta in prima persona.
Il racconto è interamente concentrato su padre e figlia e lascia fuori le altre sorelle proprio per sottolineare quanto grave fosse il pericolo corso da Francesca. Poi diviene anche la narrazione del declino fisico del padre ed è un dramma in cui la figlia può tentare di aiutarlo ma non potrà mai sperare di salvarlo.
Unico neo: la sequenza finale del film, che un po' artificiosamente ricorre all'onirico e al fantastico per esorcizzare la morte. Ma per tutto il resto "Il tempo che ci vuole" è un intenso romanzo familiare e, al tempo stesso, un vivido ritratto di un grande regista del cinema italiano.

Nessun commento:

Posta un commento