Il saggio seguente fa parte del volume C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi (Mimesis) a cura di Enrico Donaggio. Il sito da cui lo prendiamo http://www.leparoleelecose.it/ ne ha già parlato qui.
Investire se stessi. Capitalismo e servitù volontaria
di Camilla Emmenegger, Francesco Gallino, Daniele Gorgone
Una definizione minima
La categoria di servitù volontaria nasce
dallo stupore del giovanissimo Étienne de la Boétie (1530-1563) verso
la situazione del popolo francese, sottoposto a una tirannia durissima e
spietata. Di fronte a questo spettacolo, nel suo Discorso della servitù
volontaria, egli si pone la domanda più elementare: come può un uomo
solo sottometterne milioni? La risposta schiude un orizzonte
problematico osceno: non certo per forza propria, ma contando piuttosto
sul sostegno attivo dei sudditi (affamati, derubati, stuprati, mandati a
morire in guerra). Quel che a prima vista appare un rapporto di
costrizione, si rovescia nel suo contrario: sono i sottomessi a
istituire e mantenere in vita il dominio da cui pure vengono
terribilmente danneggiati. Con la semplice interruzione degli atti che
riproducono quel potere si vedrebbe il tiranno, “come un grande colosso
cui sia stata tolta la base, […] precipitare sotto il suo peso e andare
in frantumi”.[i] La facilità con cui i servi potrebbero liberarsi (“per avere la libertà basta desiderarla”)[ii]
conduce La Boétie a una constatazione paradossale: se gli individui non
sono liberi, significa che non vogliono esserlo. Sono loro a causare,
volontariamente e attivamente, la propria sofferenza.
È possibile che […] la categoria
cinquecentesca di servitù volontaria abbia oggi ancora qualcosa da dire?
Aiutando forse – se correttamente applicata – la critica del
capitalismo a illuminare alcuni punti altrimenti oscuri dell’attuale
sistema economico-sociale? È questa un’ipotesi che, nell’ultimo
decennio, ha suscitato interesse crescente, animando in particolare il
dibattito francese sul nuovo sistema di produzione e organizzazione del
lavoro; un dibattito che, tuttavia, ha rischiato talvolta di non
cogliere la sostanza della tesi laboetiana, smarrendone l’acume
diagnostico e il potenziale critico. La servitù volontaria non è infatti
un fenomeno di cui andare a caccia, né una malattia da debellare. È
invece un reagente capace di far emergere contraddizioni altrimenti
invisibili; schiudendo forse – in modi inaspettati e tortuosi – nuove
prospettive d’emancipazione.
Una definizione ‘pura’ della categoria
richiede dunque anzitutto di specificarne i minimi caratteri
fondamentali. Il concetto deve mantenere la sua strutturale
paradossalità e, nel contempo, sciogliersi dal contesto storico-politico
in cui ha preso forma, per diventare un proficuo strumento di analisi
del mondo sociale contemporaneo. Sotto questo rispetto, i caratteri che
lo connotano in modo proprio sono:
- subalternità: la servitù presuppone la condizione di sottomissione a un potere;
- consapevolezza: la servitù è
il risultato di una scelta degli asserviti; non può quindi essere
ridotta a un inganno da parte del potere o a un errore di calcolo dei
sottomessi;[iii]
- svantaggiosità: libertà e
felicità sono inscindibilmente legate (non può esistere un servo felice,
anche perché il potere, in quanto arbitrario, è sempre potenzialmente
dannoso), e dunque il motivo dell’asservimento non può consistere nei
benefici derivanti da esso; per contro, uscire dalla servitù significa
smettere di infliggere dolore a se stessi;
- facile astenibilità: se sono i
servi stessi a ridursi e mantenersi in schiavitù, per liberarsi è
sufficiente smettere di compiere quei gesti che producono e perpetuano
l’assoggettamento.
Il dibattito francese su new management e flux tendu
Un tentativo di riattualizzare la
categoria di servitù volontaria sta caratterizzando da un decennio a
questa parte il dibattito francese in materia di organizzazione del
lavoro. Gli autori che animano la discussione – che attraversa la
sociologia del lavoro (Jean-Pierre Durand), la filosofia (Michela
Marzano, Eric Hamraoui), l’economia (Frédéric Lordon) e la psicodinamica
o psicopatologia del lavoro (Cristophe Dejours, Roland Gori) – pongono
al centro dei loro interventi il nuovo sistema produttivo capitalistico.
A differenza del precedente (fordista-taylorista), questo avrebbe come
obiettivo e motore fondamentale del suo funzionamento il consenso e
l’adesione attiva dei salariati. Proprio su questo punto molti autori
riprendono il concetto di servitù volontaria.
[…]
Se [però] si raffronta l’utilizzo della
categoria presente in questi studi con la definizione pura e minima
proposta nelle pagine d’apertura, emerge una caratteristica specifica e
poco compatibile con il nostro modello. Per tutti questi autori,
infatti, il sostegno deriva sempre da una costrizione sistemica o da un
armamentario ideologico in grado di ‘produrre l’adesione volontaria’.
L’equivoco è particolarmente evidente nel caso di Marzano: parlare di
‘servitù volontaria per manipolazione’[iv] significa certamente evocare La Boétie. Ma per descrivere un fenomeno confinabile invece nel classico ambito degli arcana dominii:
la servitù, ‘apparentemente volontaria’, è in realtà ‘estorta’ grazie a
un miglioramento qualitativo dei dispositivi sistemici (mancano,
volendo semplificare, due dei quattro caratteri sopra individuati:
consapevolezza e facile astenibilità). Impiegata in questo modo la
categoria perde di senso; inoltre, viene meno la possibilità di
utilizzarla in vista di una proposta emancipativa: se i lavoratori sono
costretti o indotti ad aderire, non possono liberarsi semplicemente
volendolo.
Più che una nuova forma di servitù
volontaria, questi autori identificano dunque un funzionale strumento
attraverso cui il capitalismo ottiene maggiore efficienza e stabilità: i
servi forgiano entusiasticamente le proprie catene, ma è il sistema
che, in ultima analisi, li induce a farlo.
Una proposta di applicazione
La proposta, che si sta qui avanzando,
di un utilizzo minimo della categoria di servitù volontaria per
analizzare il capitalismo contemporaneo deve ora passare dalla critica
alla parte propositiva. Occorre anzitutto rispondere a una possibile
obiezione: così rigidamente ristretta entro criteri definiti –
subalternità, consapevolezza, svantaggiosità, facile astenibilità – la
categoria risulta ancora suscettibile di un’applicazione pratica? O non
si è invece finito per costruire uno strumento analiticamente
inappuntabile, ma empiricamente inservibile?
La domanda si lega a un problema di
fondo. Il cuore del ragionamento laboetiano – senza il sostegno attivo e
autolesionistico del popolo, il potere del tiranno cadrebbe
istantaneamente – funziona, in questa forma radicale e quasi magica,
solo se si prende in esame una società nel suo insieme. Non vale però se
applicato ad ambiti più circoscritti: nella gran parte delle
circostanze concrete, infatti, elementi di assoggettamento sistemico, di
costrizione e oppressione sono presenti e gravano sensibilmente sui
sottomessi.
Quale utilità può dunque avere, in
simili situazioni, la categoria di servitù volontaria? A nostro avviso,
quella di una sorta di ‘setaccio’: di strumento metodologico e critico
per filtrare, separare e rimuovere nel comportamento degli attori
sociali gli atti autolesionistici cui non sono esteriormente costretti e
dalla cui cessazione trarrebbero soltanto benefici. Eliminata così la
quota di servitù volontaria presente nei loro gesti, nel setaccio
dovrebbe restare soltanto la pura oppressione sistemica di cui sono
vittima: la quale risulterà, a seconda delle situazioni, più o meno
immodificabile.
Un esempio di applicazione di questo metodo è offerto dal testo di Dejours L’ingranaggio siamo noi[v].
Tra gli spunti più interessanti, vi è infatti una descrizione del
fenomeno dello ‘zelo’. L’organizzazione del lavoro non si fonda quasi
mai sulla mera esecuzione di ordini e prescrizioni: se i lavoratori si
limitassero a osservare scrupolosamente le direttive ricevute, la
produzione collasserebbe all’istante. Ciò che mantiene in vita il
sistema – fonte di estrema dolorosità per tutte le figure coinvolte – è
invece la “mobilitazione delle intelligenze”[vi]
degli stessi lavoratori; i quali, contravvenendo spontaneamente ai
regolamenti, elaborano stratagemmi che consentono all’apparato di
perpetuarsi. L’abolizione di un dispositivo aberrante, della cui
dolorosità tutti sono consapevoli, non richiederebbe dunque un gesto di
disobbedienza, forse troppo eclatante e oneroso. Per sabotare
l’organizzazione che li danneggia basterebbe invece limitarsi a obbedire
agli ordini ricevuti; cioè, in termini laboetiani, astenersi dal
compiere azioni a cui non si è costretti e che risultano lesive per i
soggetti che le intraprendono. Un simile gesto (lo ‘sciopero dello
zelo’, una forma di sciopero bianco) non basterebbe a liberare quei
salariati da tutti gli aspetti dolorosi o oppressivi della loro
attività. Ma metterebbe in imbarazzo i reali beneficiari del loro
lavoro: per mantenere in vita quella forma di organizzazione, al netto
della quota di servitù volontaria che la sorregge, dovrebbero infatti
ricorrere a un aumento della coercizione diretta; spostando così la
lotta su un piano molto più palese e, per questa ragione, più difficile
da gestire sulla lunga durata.
Cosa succederebbe se si applicasse il
metodo del setaccio alla situazione lavorativa dei giovani laureati
italiani? All’esperienza di chi ha trovato lavori ben pagati e adeguati
al proprio percorso di studi, come a quella di chi vive tra
disoccupazione, precariato e tirocini infiniti.
Per il primo aspetto prendiamo un caso
esemplare. Quello di Lorenzo, 27 anni, un ingegnere nucleare che lavora
in Veneto presso una multinazionale di consulenza finanziaria, dopo aver
rifiutato varie offerte (tra cui un dottorato di prestigio in
Germania). Il contratto prevede un orario di 8 ore; la giornata
lavorativa, però, non è quasi mai inferiore alle 11 ore; nei periodi di
chiusura dei progetti supera le 20, anche per più giorni consecutivi.[vii]
Gli straordinari non vengono pagati, e lo stipendio – di per sé ottimo –
se calcolato a tariffa oraria non oltrepassa in realtà i 10 €. I
vertici a livello europeo della multinazionale sono (ufficialmente)
contrari a questi ritmi: Lorenzo e i suoi colleghi hanno la possibilità
reale (della quale tuttavia non usufruiscono mai) di appellarsi alla
sezione risorse umane della sede centrale.
Come spinta motivazionale Lorenzo ha la
prospettiva di una brillante carriera, oltre che ragioni etiche
sorprendentemente valide;[viii]
nel contempo, però, la dolorosità del ritmo di lavoro è palesemente
percepita, raggiungendo nei picchi di attività (con sonno ridotto a meno
di un’ora per notte) livelli di conclamata insopportabilità. Da un
lato, dunque, Lorenzo ha ottime motivazioni (economiche e di
riconoscimento) per accettare l’organizzazione del lavoro cui è
sottoposto; sarebbe ingenuo domandarsi perché non esiga il rispetto
delle 8 ore contrattuali. Nel contempo, però, lui e i suoi colleghi si
trovano in una relativa posizione di forza verso l’azienda: molto
competenti, con un contratto favorevole e altre offerte di lavoro
ricevute. Setacciando questa situazione con il filtro della versione
minima di servitù volontaria da noi proposta, ciò che scivola via sono
proprio quei picchi di dolorosità chiaramente percepita: l’onere di una
sospensione collettiva dei gesti che la producono (esigendo per esempio
un numero minimo di ore di sonno) sembra davvero irrisorio.
L’altra faccia della medaglia è
costituita da giovani neolaureati che svolgono stage, praticantati,
tirocini o altre forme di lavoro gratuito o del tutto sottopagato. Una
situazione inedita, almeno quantitativamente, soltanto pochi anni fa.[ix] Un esercito di almeno mezzo milione di persone ogni anno[x] che, talvolta con la speranza di una futura assunzione,[xi]
accetta volontariamente condizioni non così dissimili dalla schiavitù.
Gli ambiti professionali sono molteplici, e comprendono posizioni
altamente specializzate (medici), pubbliche (Inps), e altre in cui il
lavoro gratuito è proibito dal codice deontologico (avvocati), o in cui
l’ipotesi di venire ripagati in termini di migliore apprendimento del
mestiere è poco plausibile (colf, cassieri, commessi, spazzini). È
innegabile che elementi socio-economici, politici, legislativi e
psicologici incentivino i giovani precari ad accettare condizioni di
lavoro grottesche. E tuttavia sembrerebbe davvero poco onerosa almeno la
più banale forma di emancipazione: il rifiuto di lavorare gratis.
Astenersi dall’impiegare le proprie energie al servizio di uno
sfruttamento plateale, dal quale peraltro non si ricava nulla, sarebbe
un mero sottrarsi all’autolesionismo; un gesto che, però, ridisegnerebbe
almeno in parte il mercato del lavoro italiano.[xii]
Perché serviamo? Sottomissione, complicità, diniego
Una seconda domanda riguarda la
plausibilità della servitù volontaria nella forma pura delineata nelle
pagine precedenti. La si potrebbe formulare in questi termini: cosa può
spingere una persona, o addirittura una collettività, a un atteggiamento
tanto autolesionistico? Senza una risposta accettabile a un simile
quesito, qualsiasi tentativo di applicazione pratica della categoria di
servitù volontaria resta puramente velleitario.
Senza pretendere di scoprire o fornire
spiegazioni definitive di questo enigma sociale posto al cuore del
capitalismo contemporaneo, ci confronteremo ora con delle analisi,
empiriche e speculative, che hanno dimostrato in modo convincente
l’esistenza di qualcosa di simile alla servitù volontaria pura.
Le teorie a cui faremo riferimento
pongono tutte al centro il rifiuto di prendere coscienza di qualcosa di
cui pure si è in parte consapevoli. Questo tema è alla base della
categoria di ‘diniego’, analizzata tra gli altri da Stanley Cohen.
Oggetto del suo studio è la paradossale condizione di chi,
contemporaneamente, ‘sa e non sa'; quei casi in cui cioè, posti di
fronte a “informazioni troppo inquietanti, minacciose o anomale”,[xiii] reagiamo (come singoli e come collettività) negandole a noi stessi, in toto
o nelle loro implicazioni negative. Si tratta di un processo almeno in
parte cosciente: contrariamente alla rimozione – processo di difesa
essenzialmente inconscio – il diniego è infatti caratterizzato dalla
paradossale coesistenza di consapevolezza e negazione.
Un fenomeno simile al diniego, ma di
carattere espressamente socio-politico, è oggetto della System
Justification Theory (SJT). Al centro della sua analisi vi sono “i
processi tramite i quali le strutture [arrangements] sociali vengono legittimate, anche a spese degli interessi personali e di gruppo”.[xiv]
“La gerarchia” – sottolineano i ricercatori – “è mantenuta [...] anche
dalla complicità di membri di gruppi subordinati, molti dei quali
perpetuano la diseguaglianza tramite meccanismi di outgroup favoritism”.[xv]
Questo atteggiamento non è frutto di coercizione, né di mero
adeguamento di fronte a un sistema immutabile (c’è dunque almeno una
quota di astenibilità), ed è svantaggioso sia sul piano economico che su
quello psichico: l’interiorizzazione dell’ideologia (specialmente di
quella “particolarmente efficace [...] nei sistemi democratici
post-totalitari di libero mercato: la meritocrazia”)[xvi]
richiede infatti che i soggetti si concepiscano come responsabili della
propria condizione svantaggiata. Il che genera a sua volta bassa stima
di sé, nevrosi, depressione.
Come spiegarlo, dunque? I teorici della SJT deducono che esso “faccia sentire meglio le persone in altri modi”;[xvii]
e conferiscono così al desiderio di ‘avere un’immagine positiva’ del
mondo in cui si vive (di ‘tifare per la squadra che vince’) lo statuto
di un vero e proprio bisogno umano. Un bisogno che, spesso, sopravanza
le esigenze di riconoscimento individuale e di gruppo (ego e group favoritism): in questi casi sono proprio gli ‘sconfitti’ a rallegrarsi della legittima vittoria delle classi avvantaggiate.
Le riflessioni dei teorici della SJT
consentono di porre direttamente in connessione il tema del diniego e la
categoria laboetiana. Il diniego può cioè spiegare perché la servitù
volontaria sia instaurata e costantemente replicata dai sottomessi.
Secondo questa lettura, noi difendiamo e perpetriamo il sistema di
potere in cui viviamo, benché ci provochi dolore, per non dover prendere
coscienza della sua ingiustizia. Se non riconosciamo che il sistema è
ingiusto (razionalizzando anche il nostro dolore, come congruo o
inevitabile: there is no alternative) non tentiamo di migliorarlo; ma anzi, ci impegniamo ancor di più nella sua difesa, per meglio tutelare il nostro diniego.
Ma perché questa verità in apparenza
banale – l’ingiustizia del sistema – dovrebbe essere così inaccettabile?
Un suggerimento non molto confortante ci viene da Dejours: per via
della nostra connivenza con il sistema. Ritenere inevitabile, naturale o
neutrale, la sofferenza sociale altro non è se non un meccanismo di
“difesa contro la dolorosa consapevolezza della propria complicità,
della propria collaborazione nella crescita dell’ingiustizia sociale”.[xviii]
È così possibile aggiungere un tassello
alla tesi della servitù volontaria per diniego. Prendere coscienza
dell’ingiustizia del sistema, e dunque lottare per abolirla,
implicherebbe che noi ammettessimo di essere complici di un potere
iniquo: e dunque – in uno scenario in cui il ruolo di vittima sfuma
inquietantemente in quello di carnefice – coartefici del dolore da esso
inflitto tanto agli altri quanto a noi stessi. Piuttosto che
riconoscerci tali (come elettori, lavoratori, consumatori), preferiamo
continuare a difendere quel sistema come giusto, e quel male come
accidentale o inevitabile.
La servitù volontaria assume perciò i
tratti di un circolo vizioso. Smettere di supportare il sistema (di
essere servi volontari) richiederebbe di riconoscerlo come ingiusto; ma
questo riconoscimento implicherebbe il dire a noi stessi che abbiamo
speso tutta la vita a causare, a noi e agli altri, del male. Non siamo
disposti ad ammetterlo, e dunque preferiamo continuare a servire.
Conclusione
L’analisi sin qui condotta si attesta
essenzialmente su un livello diagnostico: è ora necessario soffermarsi
rapidamente sulle possibili prognosi. Si tratta, cioè, di chiedersi se e
come l’ipotesi della servitù volontaria, oltre a illuminare alcuni
aspetti altrimenti poco visibili del capitalismo contemporaneo, schiuda
anche nuove percorribili vie emancipative.
Ciò, però, è tutt’altro che scontato: è
evidente infatti come alla servitù volontaria sia intimamente connesso
un certo pessimismo. Ammettere che i soggetti, pur potendo, non si
liberano, significa constatare che non vogliono farlo, o che – nella
migliore delle ipotesi – hanno valide ragioni per non farlo: ma se è
così, su quali basi dovremmo attenderci una loro uscita dall’attuale
sistema economico? In realtà, proprio da quella constatazione può
prendere le mosse una duplice exit strategy.
In primo luogo, l’analisi dei concreti
contesti di lavoro setacciati tramite i ‘quattro caratteri’ (ma il
medesimo discorso andrebbe posto sui piani del consumo, della
diseguaglianza economica, degli investimenti finanziari) permette di
tracciare, nella superficie apparentemente monolitica dello status quo,
piccole e ben delineate sfere di un’emancipazione possibile. Ogni volta,
cioè, in cui la mera astensione da atti auto-assoggettanti risulterà
per i soggetti coinvolti allo stesso tempo possibile e benefica, si
aprirà loro la possibilità concreta di migliorare immediatamente la
propria condizione, riducendo la sofferenza che causano a se stessi:
dormire un numero accettabile di ore, ottenere un compenso per il
proprio lavoro, ridurre il rischio che i propri cari siano sfrattati. Un
gesto che, al contempo, sottrae al sistema nel suo complesso una quota
(per quanto piccola) di sostegno: contribuendo così a rendere più
visibili – e quindi, forse, più direttamente attaccabili – cooptazione,
coercizione, manipolazione.
Inoltre, proprio l’analisi delle spinte –
soggettive e collettive alla sottomissione svantaggiosa può indicare le
direzioni da intraprendere per favorire l’uscita da una condizione di
autosfruttamento e sofferenza. Sotto questo aspetto il meccanismo del
diniego, esaminato in precedenza, non è certo l’unica ipotesi valida (e
del resto nulla esclude che all’origine della sottomissione volontaria
vi siano di volta in volta dinamiche differenti); ma è un’ipotesi che ha
il pregio di non essere paralizzante a fini emancipativi. Essa
suggerisce, in particolare, l’esigenza di rendere più tollerabile, ai
‘carnefici di se stessi’, lo sguardo sulla propria condizione: ciò
permetterebbe di disarmare gradualmente il cortocircuito del diniego, in
base al quale proprio l’impossibilità di ammettere il dolore
inflitto(si) annichilisce il superamento di quest’ultimo.
Da ognuno di questi approcci, in ogni
caso, emerge una constatazione di fondo: che proprio nel dedicarsi anima
e corpo a un sistema di lavoro che li danneggia, i lavoratori
occidentali rivelano di possedere un serbatoio di energia immenso. Il
loro impegno infatti è solo in parte riconducibile a manipolazione e
coercizione, o – all’opposto – alla speranza in un ritorno economico o
di riconoscimento: c’è dell’altro. Una quota ‘x’ leggibile sia in
positivo (come capacità aspirativa, desiderio di felicità, spinta
utopica) sia in negativo (secondo le categorie del diniego,
dell’insostenibilità della vita libera, di una brama sottomissiva e
autolesionistica), ma comunque tutt’altro che passiva, estorta o
eterodiretta. È qui che sembra innestarsi la via per un’emancipazione
possibile: tentare di riconvertire quella stessa energia,
reindirizzandola verso fini al tempo stesso meno dolorosi e più umani.
Note
[i] É. de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, Feltrinelli, Milano 2014, p. 37.
[ii] Ivi, p. 34.
[iii] In
particolare, gli individui che compiono costantemente atti che li
pongono in situazione di servitù svantaggiosa sono almeno consapevoli di
un’alternativa possibile minima: l’astensione da quegli atti.
[iv] M. Marzano, Estensione del dominio della manipolazione. Dall’azienda alla vita privata, Mondadori, Milano 2010.
[v] C. Dejours, L’ingranaggio siamo noi. La sofferenza economica nella vita di ogni giorno, Il saggiatore, Milano 2000.
[vi] Ivi, p. 76.
[vii]
Si attestavano su ritmi simili i carichi di lavoro che nell’agosto 2013
hanno portato alla morte lo stagista Moritz Erhardt; cfr. P. Gallagher,
Slavery in the City, in «The Indipendent», 28 Agosto 2013: http://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/slavery-in-the-city-death-of-21yearold-intern-moritz-erhardt-at-merrill-lynch-sparks-furore-over-long-hours-and-macho-culture-at-banks-8775917.html
[viii] Connesse alle importanti ricadute del suo lavoro sull’economia reale italiana in termini di liquidità erogata.
[ix] E
in parte conclusasi con la Riforma del Lavoro Fornero (legge n.
92/2012), la quale, tra le altre cose, applicando un decreto europeo ha
messo fuori legge lo stage gratuito, imponendo un rimborso spese minimo
di 300 euro (legge che però deve essere attuata tramite decreto
amministrativo da parte delle singole regioni e che non riguarda i
tirocini degli studenti universitari né i praticantati professionali):
cfr. http://www.pmi.it/impresa/normativa/articolo/61861/riforma-di-stage-e-tirocini-compenso-e-requisiti-2013.html
[x] Cfr. E. Voltolina, La repubblica degli stagisti, Laterza, Roma-Bari 2010.
[xi] Speranza spesso vana, dato che la percentuale di assunzione dopo uno stage è di circa il 9,4%, meno di uno stagista su 10.
[xii]
Potremmo individuare un caso positivo di applicazione del ‘setaccio’
nel rifiuto, messo in atto dall’Associazione dei fabbri di Pamplona
nell’inverno 2012-2013, di partecipare agli interventi di sfratto
(moltiplicatisi con la crisi): cfr.
https://sites.google.com/site/cerrajerosdepamplona/. La semplice
astensione dal sostituire le serrature ha inceppato per mesi l’intero
sistema dei pignoramenti. Il loro gesto è inoltre servito da modello: la
protesta non solo è stata appoggiata da un importante sindacato
spagnolo (l’Unione dei fabbri di sicurezza), ma si è anche estesa ad
altre categorie di lavoratori; cfr.
http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2013/02/130221_bomberos_cerrajeros_desahucios_ap.shtml
[xiii] S. Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, Carocci, Roma 2002, p. 23.
[xiv] J. T. Jost, M. R. Banaji, The Role of Stereotyping in System-Justification and the Production of False Consciousness, in «British Journal of Social Psychology», n. 33, 1994, p. 2.
[xv] J. T. Jost, M. R. Banaji, B. A. Nosek, A Decade of System Justification Theory: Accumulated Evidence on Conscious and Unconscious Bolstering of the Status Quo,
in «Political Psychology», vol. 25, n. 6, 2004, p. 885. Con ‘outgroup
favoritism’ ci si riferisce a “preferenze valutative per i membri di un
gruppo a cui non si appartiene”: ivi, p. 891; le indagini
condotte dai teorici della SJT si concentrano in particolare su
afroamericani, persone a reddito basso e omosessuali, tendenti a
condividere rispettivamente i pregiudizi di bianchi, ricchi e
eterosessuali.
[xvi] J. T. Jost, O. Hundady, The Psychology of System Justification and the Palliative Function of Ideology, Research Paper Series, Stanford Graduate School of Business 2002, p. 33.
[xvii] Ibid.
[xviii] C. Dejours, L’ingranaggio siamo noi, cit., pp. 23-24.
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