06 luglio 2024

UN RICORDO DI W. FAULKNER

 


6 LUGLIO: UN RICORDO DI WILLIAM FAULKNER

di Adele Errico

“Se deve esserci il dolore, esso non sia che pioggia,/e solo dolore squillante per il piacere di soffrire,/se questi boschi verdi sognano di risvegliarsi/nel mio cuore,/se io mi risvegliassi./Ma io dormirò, perché come potrà esistere la morte/finché affonderò come un albero in queste azzurre colline/assopite sopra di me? Anche quando sarò morto,/questa terra che mi lega mi troverà vivente”: questi versi appartengono a un giovane William Faulkner che, prima di scoprire nella prosa il proprio destino di artista, sognava di essere un poeta.

È l’ultima poesia della raccolta Un ramo verde e sembra anticipare un dolore che non sarebbe stato solo il suo ma anche quello dei personaggi dei suoi romanzi che diverrà, tuttavia, molto più fitto del cadere della pioggia, dolore antico, lacerante, che travolge e abbatte come le acque del Mississippi. Ma in queste parole non solo il dolore sembra essere lieve, ma anche l’idea di morte rappresentata. Assomiglia  al prospettarsi di un momento di pace, di un agognato ricongiungimento alla natura, di un ritorno alla terra, in un confondersi con la polvere nella quale gli alberi affondano le proprie radici.

Nella morte William Faulkner sembra immaginarsi come uno degli abitanti defunti di Spoon River. Ma se i nomi di quei defunti risulteranno sconosciuti al viandante che passeggia tra le tombe del cimitero che sorge sul fiume, il nome dello scrittore che riposa sul lieve pendio tra due enormi querce a Oxford, città del Mississippi, è ancora oggi ricordato da tutti. Quando Faulkner morì era il 6 luglio del 1959, nove anni dopo aver vinto il premio Nobel. Era caduto cavalcando tra i boschi, fratturandosi una clavicola. La morte era avvenuta, però, qualche giorno dopo, a causa di una crisi cardiaca. Aveva sessantuno anni. Le giornate d’estate sono torride in Mississippi. Una bara veniva trasportata per le strade di Oxford fino al cimitero e, tra caldo e insetti, un lungo corteo la seguiva, al quale molti dei suoi concittadini si erano aggregati forse più per affetto dell’uomo che per riconoscimento della grandezza dello scrittore, del quale avevano letto poco.

Non avevano intuito, forse, che Faulkner avesse parlato proprio di loro nei suoi romanzi. Del Sud e della sua gente. “Tra il dolore e il nulla, scelgo il dolore” dichiara un personaggio del romanzo Le palme selvagge. E lo stesso aveva fatto il suo autore: aveva scelto il dolore della sua terra, quella in cui era nato, quella di cui era il risultato, quella nella quale aveva scelto di restare, dalla quale non poteva allontanarsi. Perché in quei volti trovava un senso, in quelle rughe, in quelle fatiche, in quegli occhi di bianchi e di neri che vivevano nello stesso luogo: nella terra dell’odio e dell’amore viscerali, delle colpe dei padri che ricadono sui figli, della condanna e del perdono, del cupo rigore del Vecchio Testamento increspato dai bagliori del Nuovo.

Il dovere del poeta, dello scrittore è di “aiutare l’uomo a resistere, facendone più leggero il cuore” dichiarava Faulkner nel discorso di accettazione del Nobel. Faulkner si rifiutava di accettare la fine dell’uomo. L’uomo non può avere fine per un semplice motivo: perché ha voce. E la voce è proprio quella di chi come lui raccontava e finché anche un solo uomo racconterà il dolore, la compassione, il sacrificio, la sopportazione, tutti gli altri saranno salvi. A Faulkner interessava raccontare il vero, per questo non ci sono nei suoi romanzi personaggi stereotipati ma solo personaggi fatti di carne che sanguinano tra le pagine, lasciandosi dietro scie lunghe secoli, che si trascinano di generazione in generazione.

Sherwood Anderson, suo amico e mentore, gli aveva fatto comprendere che se avesse voluto fare lo scrittore avrebbe dovuto raccontare il suo piccolo mondo e farne di esso il ritratto dell’America. Così Faulkner si guarda intorno, nelle strade, nei negozi della sua città facendosi osservatore nascosto dei destini dei suoi simili, voyeur delle loro disgrazie, sezionando e smembrando le vite degli abitanti del Mississippi per ricucirle su misura per i personaggi delle sue storie. Così nascono i Bundren e i Compson e i Sartoris, stirpi che sorgono e crollano, dissolvendosi perduti come i grani di un rosario che si spezza si spargono sul pavimento.

Sono mossi da qualcosa i personaggi faulkneriani: da una inesorabile, ininterrotta caduta, calamitati e attratti verso il baratro. Ma non è la caduta in sé che interessa allo scrittore: “Che essi vadano a fondo non ha nessuna importanza; è come affondano che conta”, spiegava Faulkner in un’intervista nel 1955. Il lavoro dello scrittore, allora, è quello di un burattinaio che muove i fili delle sue marionette assecondando il crollo inevitabile oltre la soglia del teatrino di carta.

Ci sono atmosfere in Faulkner che ricordano quelle della tragedia greca, nelle quali manca, però, un elemento che nella tragedia, invece, prende il sopravvento, coprendo come un immenso mantello le umane turpitudini e gli umani eroismi, spazzando via gli uomini che non sono più statue irremovibili, forti sotto le intemperie dell’esistenza, ma manichini e bambole rotte: il fato. Nell’universo faulkneriano la caduta non è determinata dall’intervento di una forza cieca che regoli le esistenze umane. Sono sempre gli uomini a determinarla, con la loro natura, assommandosi per generazioni, riproducendosi in un proliferare di disgrazie: alla fine l’uomo non è che “la somma di tutte la sue disgrazie”, dichiarava il barbarico Jason dell’Urlo e il furore. Delle proprie e di quelle dei suoi antenati.

Ma chi sa leggere Faulkner, chi sa abbandonarsi al dolore irreparabile di questo corteo di donne e uomini di un Sud perduto, macchiato, intriso di peccato, intravede, come nel fondo del vaso di Pandora, che oltre tutti i mali che aggrediscono queste esistenze rimane una flebile speranza. Chi scrive impara a non lasciare “spazio alcuno nel suo laboratorio a nulla che non siano le vecchie verità e certezze del cuore, le vecchie verità universali prova delle quali ogni storia è effimera e destinata a fallire: amore e compassione e pietà e orgoglio e compassione e sacrificio”. Sul fondo di tutte le storie, scavando tra le zolle di questa nera terra del Sud, Faulkner, con la sua mitologia, riscrive un antico messaggio: “Amatevi gli uni con gli altri”. È un messaggio che è rivolto, però, più ai suoi lettori che ai suoi personaggi che restano, inevitabilmente, incagliati. Essi – sgualdrine, assassini, oppressori, fratelli incestuosi e stupratori blasfemi che sembrano uscire dal Vangelo e vagare per le strade degli Stati Uniti del Sud – per quanto si sforzino, non sono in grado di rispettare l’insegnamento del Cristo perché sono lontanissimi dall’amarsi gli uni con gli altri. Non riescono neppure ad amare se stessi, a perdonarsi. Possono solo aspettare di morire, di andare sotto terra. In una torrida giornata d’estate, in Mississippi.

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