24 maggio 2024

ARTI AFRICANE

 





LE ARTI AFRICANE DAGLI SPIRITI DELLE FORESTE AI MUSEI

di Aldo Tagliaferri

 

[E’ da poco uscito per Argolibri Le arti africane dagli spiriti delle foreste ai musei di Aldo Tagliaferri (nella collana “Fuori catalogo”, diretta da Fabio Orecchini). Ne proponiamo la Premessa].

 

PREMESSA

Sensi vietati

 

Nel 1965 mi venne offerta, senza che me l’aspettassi, l’occasione di stabilire un primo contatto diretto con l’Africa subsahariana dalla quale provenivano sculture che avevo incominciato ad apprezzare quando, studente, nell’estate del 1953 ero diventato un frequentatore assiduo del British Museum. Avrei accompagnato un mercante diretto a visitare i suoi fornitori seguendo un tracciato che, partendo da Douala e passando per Yaoundé, avrebbe attraversato il Camerun verticalmente fino al lago Ciad e infine raggiunto la Nigeria. Non senza un buon grado di leggerezza, decisi di cogliere l’attimo fuggente. Tra gli episodi che costellarono il tortuoso viaggio vorrei qui soffermarmi brevemente su uno. Muovendoci da Douala per inoltrarci sulle piste che attraversano la fitta foresta, a volte ci fermavamo perché così era richiesto dal programma, oppure per sottrarci agli incessanti scuotimenti cui ci inchiodava il viaggio e ammirare lo spettacolo di una natura straripante e molto varia, soprattutto per chi procede lungo i meridiani.

 

Un giorno ci fermammo perché d’improvviso avevamo udito canti corali accompagnati da battiti di tamburi alla nostra destra, dove la foresta, che si stava facendo meno fitta, accennava a una salita dal cui culmine giungevano echi della sarabanda.

Abbandonata la vettura, ci inerpicammo con la nostra guida-autista, lieti di poter sgranchire le gambe e desiderosi di incontrare la comunità all’origine dell’imprevisto concerto.

 

Giunti al punto più elevato, godemmo di uno spettacolo inatteso. In un largo spiazzo sotto di noi si estendeva un villaggio di notevoli dimensioni dove una folla si snodava incolonnata cantando e formando una serpentina per sfilare di fronte a un personaggio dall’aria solenne che, in piedi di fronte a una capanna, sembrava presiedere a una cerimonia.

 

L’accompagnamento dei tamburi, assordante quando superammo il crinale, rendeva l’atmosfera festosa e solenne al contempo. D’improvviso un uomo, munito di una lancia come molti dei convenuti, indicò la nostra presenza con un gesto della mano e mandò un grido acutissimo che ebbe l’effetto di zittire tutti e di far calare sulla scena una immobilità e un silenzio assoluti, mentre tutti gli sguardi si rivolgevano verso di noi. Seguirono grida concitate e incrociate mentre alcuni si mossero verso di noi, che però non li attendemmo per presentarci ufficialmente e, approfittando del cammino in discesa, tornammo di corsa alla vettura e ci dileguammo.

 

Vissuto da me, l’episodio non differisce, sostanzialmente, da quello ricostruito da Mario Meneghini nel suo libro di memorie, dove egli narra come fummo arrestati da militari liberiani, il 10 gennaio 1972, per essere entrati abusivamente in una zona in cui si estraevano diamanti, in Lofa County. Anche in Liberia, dopo che ci rendemmo conto di esserci messi nei guai per il fatto stesso di trovarci d’improvviso in mezzo a africani che setacciavano il terriccio in una insenatura del fiume sotto l’occhio vigile di guardiani, ci fu di mezzo una ritirata che avrebbe potuto allontanarci da un posto in cui non eravamo attesi. Imboccammo un sentiero che attraverso una fitta vegetazione ci portò a un punto, lungo il fiume, dove ci era stato detto che avremmo trovato antichi glifi incisi sulle rocce.

 

Le mie esperienze mi hanno indotto a credere che, se ci si muove con una guida attendibile, la foresta, benché ricca di insidie, rende possibili circuiti alternativi più del deserto, come ho avuto modo di constatare in alcuni luoghi prima dell’introduzione dei droni, ma in quell’occasione ignoravamo quanto fosse strategico l’insediamento dal quale provenivamo e al quale riconducevano i sentieri circostanti, compreso quello che stavamo percorrendo. Difatti trovammo le rocce con i glifi ma sulla via del ritorno non riuscimmo ad evitare di incappare nei temuti rappresentanti della legge, che da quelle parti era militare.

 

In Liberia l’infrazione era palese e la nostra fortuna fu di essere giudicati secondo la tradizionale procedura palaver, di fronte all’intero villaggio di Bela Camp, da un capo Vai che si dimostrò benevolo nel valutare le testimonianze e riconoscere che ci trovavamo in quella regione perché cercavamo informazioni circa la possibile sopravvivenza di sculture prodotte da quelle parti in tempi antichi.

Respinta la richiesta di un militare che avrebbe voluto portarci come prigionieri in una caserma, fummo condannati a pagare una multa e ci venne concesso di dissetarci e imposto di lasciare immediatamente la zona interdetta. Secondo un copione, molto africano, ancora possibile in tempi felici, la dea bendata guidò il nostro ritorno a Monrovia, benché non disponessimo più di una vettura. Se ci avessero catturato vent’anni dopo nelle stesse circostanze, scoppiate le guerre civili, ci avrebbero fatto a pezzi.

 

L’episodio camerunese mi restò impresso nella memoria più di altri perché, sebbene non fosse accaduto nulla di drammatico, mi aveva turbato dover fuggire come un malvivente preso in flagrante.

Era ipotizzabile che ci fosse di mezzo un equivoco, ma restava il fatto che, giunti come per assistere a uno spettacolo teatrale, ce ne eravamo andati come se avessimo profanato un luogo sacro. Si ponevano questioni che meritavano di essere indagate nei loro problematici risvolti. Mi sono chiesto, negli anni successivi, quanto fosse profondo e distruttivo l’attentato compiuto dagli europei contro i valori africani per spiegare una tale reattività, tenuto conto della relativa brevità dell’epoca coloniale europea rispetto alla storia millenaria dei regni sorti in tante parti del continente; e quanto ampio lo spazio mentale che occorre percorrere per potersi accostare alla polimorfa realtà che l’Occidente si propose di sottomettere e dalla quale provennero oggetti destinati ad essere eletti, dopo un tortuoso vaglio, al rango di opere d’arte.

 

Il testo che qui segue ricostruisce tappe di un percorso con molte pietre d’inciampo, fatto di incontri e di ipotesi ermeneutiche attraverso le quali propongo risposte a quei quesiti. È un testo in progress che si è andato configurando come un labirinto caratterizzato dalle classiche anse che costringono chi lo percorre a tornare sui propri passi e a rivisitare luoghi già familiari ma arricchiti di nuove connotazioni e diramazioni possibili.

Fin dai tempi più antichi sono state escogitate vie d’uscita dal labirinto, come dalla proverbiale selva oscura, e quanto abbiamo appreso ci indica che non è possibile concepire una via d’uscita attendibile senza aver prima saggiato le giravolte e le brusche inversioni di rotta imposte dall’impresa.

 

Al centro del presente testo si situa una indagine circa il ruolo e la natura degli spiriti che hanno suscitato l’interesse per le arti africane nella cultura occidentale tra l’Ottocento e il Novecento, dunque entro le coordinate storiche di un evento violento e polimorfo, l’epoca delle conquiste e delle spartizioni coloniali, le cui conseguenze siamo ancora chiamati a interpretare. L’interrogazione si articola investendo la questione della sede e delle modalità di esposizione più idonee per accogliere arti realizzate presupponendo la presenza di quegli spiriti.

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