02 dicembre 2014

UN' INTERVISTA A AMOS GITAI



Amos Gitai e la tessitura di storie per continuare a credere nel dialogo.Una intervista con il grande regista israeliano. (Le foto sono tratte dalla mostra)


Viviana Mazza

La filosofia del tappeto



«Uno dei miei primi ricordi d’infanzia — racconta Amos Gitai — sono i biglietti ferroviari del viaggio di nozze di mia madre messi in mostra su una mensola in cucina». Dicevano semplicemente: «Haifa-Beirut». Ma erano gli Anni 50 e, dopo la guerra del ’48 e la chiusura dei confini, quel viaggio era ormai impossibile. Perciò il regista israeliano, allora bambino, chiese alla mamma perché mai esponesse quei biglietti di «un Paese nemico». «Se è stato possibile in passato — rispose lei — potrebbe esserlo in futuro».

Ora nella penombra della Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale di Milano, tra i riflessi di specchi antichi e le statue ferite dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale, Gitai ci guida attraverso la sua mostra Strade/Ways . «È un dialogo con questa sala, ed è un dialogo di video, foto, tappeti», dice laconico. Tutta la mostra è una tessitura di storie rumorose, un metaforico tappeto, un tentativo di dialogo sul Medio Oriente. Ed è anche un modo di prendere appunti per il suo prossimo film, Carpet , un thriller che ha per protagonista un tappeto, nel cui disegno si nasconde la mappa di una centrale nucleare iraniana che il Mossad vuole bombardare.

Prima di parlare, il regista ci fa sedere a guardare uno dei suo corti più recenti, Il Libro di Amos — tappa fondamentale della mostra -, ambientato nella moderna Tel Aviv con attori ebrei e arabi che recitano un testo biblico sull’avidità e la corruzione. Dieci minuti di un unico piano sequenza: la lentezza senza tagli è il suo antidoto alla «realtà presentata dai media, ovunque nel mondo, in un modo demagogico e frammentario che può solo accentuare la mentalità fanatica anziché portare alla comprensione».

Poi ci conduce in mezzo alla sala, lungo un’esposizione di tappeti appesi accanto a foto da lui scattate in un lungo viaggio da Istanbul a Baku. C’è il monte Ararat, c’è il confine Turchia-Iran: «Qui sono nati i tappeti». Paesaggi militarizzati, spezzati da barriere, deturpati «dall’inquinamento, dal capitalismo eccessivo. Ma trovo che i confini imposti dagli esseri umani siano molto superficiali. Quando arrivi nel nord d’Israele, ti sembra naturale continuare il cammino, ma ti bloccano questi stupidi confini, questi campi minati fisici e mentali che sono un pretesto per politiche megalomani di incitamento all’odio».

Sotto la superficie delle barriere emergono intrecci più profondi. «Nel nordest dell’Iran, tradizionalmente sono le donne musulmane a tessere i tappeti. Invece le donne della comunità ebraica si occupano della tintura, mentre parte del commercio è in mano ai cristiani. Tre religioni monoteiste intrecciate in un modo creativo».
 
 
 

Il regista israeliano, non sempre capito in patria e «ferito» dalla propria regione (vive tra Haifa e Parigi), nota che «l’intero Medio Oriente sta diventando l’arena di una guerra, di una grande competizione per gli armamenti. Credo che si sia perso anche il motivo. Il conflitto è accelerato da tutti i partecipanti, nessuno è innocente.

Tutti i Paesi del Medio Oriente hanno un qualche tipo di fanatismo nutrito dall’idea che solo un gruppo abbia ragione. Gli estremisti si sono sempre aiutati l’un l’altro: l’Isis, i fondamentalisti palestinesi, l’ultradestra israeliana forniscono giustificazioni gli uni agli altri. Per questo io cerco di mostrare le contraddizioni: fa capire che, se in qualche modo ognuno ha ragione, invece in altri modi non ce l’ha».

L’artista per Gitai è un guaritore, come quelli che danzano per la pioggia, solo che lui vuol farci pensare. Ammette che l’arte non è il metodo più efficiente. «La mitragliatrice lo è di più. Ma qual è l’alternativa? Il nichilismo? Unirsi a Netanyahu e alle sue proposte xenofobe?», chiede riferendosi a una recente proposta di legge del suo premier, che definisce il carattere ebraico dello Stato d’Israele mettendo a rischio i diritti dei cittadini palestinesi.

Ci avverte comunque che non siamo nella migliore posizione per giudicare: «L’Europa ha dovuto bruciare l’intero continente per arrivare alla semplice conclusione che non c’era bisogno di uccidere. Sono sicuro che un giorno ci arriveremo anche noi, spero presto». Ci ricorda di non sottovalutare le utopie: «Dalla Bibbia al Marxismo hanno cambiato il mondo».

Il Corriere della sera - 2 dicembre 2014

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