CESIM - Centro Studi e Iniziative di Marineo
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
14 aprile 2025
COLPO DI STATO NEL PAESE PIU' POTENTE DEL MONDO?
COLPO DI STATO NEL PAESE PIU' POTENTE
di Sergio Benvenuto
A leggere la stampa italiana, ci si fa l’idea che i dazi di Trump siano iniziativa di un pazzo che non capisce nulla d’economia e che porterà all’inflazione e al declino economico del proprio paese. Dietro la tracotante guerra commerciale ci sarebbe solo un’operazione demagogica populista che ignora ogni buon senso economico.
Ahimè, Trump è un ignorante nel senso accademico del termine, ma non è un pazzo e nemmeno un idiota, e conosce bene il business. Anche quello politico.
L’imposizione di dazi a destra e a manca, anche all’interno del proprio paese, è a mio avviso solo la prima fase di una strategia che dovrebbe portare a un regime molto simile a quello autocratico della Russia di Putin. La seconda fase verrà con le esenzioni ed eccezioni: gli alti dazi si applicheranno non a tutti, alcuni non saranno tenuti a pagarli. Ovviamente saranno coloro che andranno a Canossa da Trump e da Musk, i quali diranno loro: “se sei con noi, allora sarai exception”. E cosa significa “essere con noi”? Significa assecondare i progetti politici della presidenza, anche quelli più ripugnanti. Con questo ricatto il governo si assicura un pieno appoggio di industriali e imprenditori, ma non solo.
Qualche esempio. Si potrebbe costringere una grande impresa ad assumere meno neri e meno “etnici”. Oppure costringere la stessa impresa a non investire in certi paesi sgraditi che si oppongono alla linea Trump-Musk. O finanziare campagne di odio razziale o di demonizzazione degli LGBTQ+. Togliere i finanziamenti ai media di opposizione, come è già accaduto con il Washington Post. E così via.
Per poter portare a termine il colpo di stato che la banda Trump sta perpetrando oggi, occorre assicurarsi il controllo dei grandi poteri che contano oggi: le grandi imprese, i media, la giustizia e… per quanto alcuni non vogliano sentirlo, il consenso della popolazione. Con le grandi imprese e i media vale il sistema delle eccezioni ad hoc, come abbiamo detto. Forse il tandem Trump-Musk non avrà bisogno di ricorrere alla rozzezza della mafiocrazia putiniana, potrà non ricorrere alla cupezza dei processi simil-staliniani contro chiunque non si allinei al potere, né a far volare dalla finestra chi ostacolerà la strada del potere. Basterà il ricatto economico.
Mettiamo che Meloni voglia seguire la strada di Trump e che intenda sottomettere del tutto l’informazione televisiva al proprio esecutivo. Si tratterà così di spegnere la sola TV che ancora alberga voci di opposizione, La7, dato che la RAI e Mediaset sono già acquisite. Basterà imporre a tutte le reti private un minimo irrisorio di pubblicità. Ora, le tv private senza pubblicità muoiono presto. Basterà emanare un decreto che faccia eccezione per le reti Mediaset e per tutte le altre reti che diventino megafono del regime. Questa tattica vale per ogni impresa che abbia basi commerciali.
Così, i paesi europei che prenderanno una posizione dissidente rispetto allo “spirito europeo”, che insomma si metteranno fuori dell’Europa per seguire le fisime di Trump, verranno premiati con eccezioni. Siccome gran parte dell’economia europea vive dell’esportazione verso gli USA, i paesi o le aziende che verranno graziate dal governo USA avranno il privilegio di poter ancora esportare in America. Mentre gli altri… Questo Meloni lo sa, da qui la sua oscillazione: sta aspettando i risultati del golpe trumpiano. Se questo riesce, non avrà più dubbi: mollare l’Europa e divenire un satellite di Trump, come la Bielorussia è con la Russia oggi.
Quanto alla magistratura, Trump domina già la Supreme Court federale. Se tutti gli avvocati o i giudici conservatori d’America si appellassero in ultima istanza alla Corte Suprema, l’avrebbero sempre vinta. Quanto agli stati riottosi – che sono i più ricchi e culturalmente importanti del paese, dalla California a New York – li si potrà ridurre alla ragione togliendo i fondi federali che comunque permettono in parte il loro funzionamento.
Avremmo insomma l’esatto rovescio del tanto criticato neo-liberalismo, che voleva ridurre al minimo la politica per dare massimo spazio alla spontaneità del mercato: avremo un dominio politico sull’economia. Ovvero, la banda Musk-Trump deciderà anche della strategia industriale del paese.
Quanto all’appoggio della popolazione, non bisogna farsi illusioni. Certo, conquistare il consenso popolare è un’operazione lunga, ma se la si fa bene questo consenso è assicurato.
Nel corso di una ventina d’anni ho potuto seguire l’evolversi della popolarità di Putin in Russia. Mi colpiva il fatto che non solo la gente comune, anche intellettuali, scrittori, psicoanalisti… finissero per pensare che Putin avesse sempre ragione. “La Russia è Putin” finivano col dire. Certo c’è un 20% circa dei russi che resta anti-Putin, e sono molto amico di alcuni di questi. Costoro mi dicono che nel corso degli anni i media russi controllati dal regime hanno sviluppato una campagna di convinzione e di coesione patriottica a un livello molto sofisticato, che ha finito col convincere anche parte dell’intellighèntzia. I media danno ai russi l’immagine di un paese assolutamente libero e amichevole, minacciato però da un Occidente geloso dei propri privilegi, che puntella un regime ucraino anti-democratico e retto da nostalgici fascisti figli o nipoti dei nazionalisti ucraini che si schierarono con i tedeschi contro l’Unione Sovietica.
Del resto è stato sempre così. Tutti gli storici sono concordi nel dire che il regime hitleriano ha goduto di ampio appoggio da parte della popolazione almeno fino agli inizi dei rovesci della guerra. E anche gli anti-fascisti italiani più tenaci hanno sempre ammesso che per alcuni anni, dalla proclamazione dell’Impero fino a guerra avanzata, il regime di Mussolini ha goduto di un consenso assolutamente “bulgaro”. E così possiamo dire della Cina di oggi, e di altri paesi del tutto soddisfatti dei dispotismi che li dominano. Tranne ovviamente le solite minoranze intellettualoidi di bastian contrari, snob irrilevanti per le masse popolari.
Per esempio, c’è stato un ampio consenso al comunismo in Unione Sovietica fino alla fine degli anni 1970. Poi, per ragioni misteriose che nessuno veramente riesce a spiegare, questo consenso è caduto nel corso degli anni 1980. Prima la Perestrojka di Gorbachev, quindi il crollo del comunismo con Eltsin, sono gli effetti di questo declino dell’adesione al sistema, per cui in un certo senso il crollo del comunismo nel 1991 è stato “democratico”. Le dittature durano perché creano consenso nella massa.
Da secoli si analizzano le ragioni profonde per cui i popoli accettano di buon grado i dispotismi, almeno fin quando questi appaiono vincenti. Cominciò già nel XVI° secolo Etienne de la Boétie con La servitù volontaria, e poi via via fino alle analisi del totalitarismo di Hanna Arendt, Georges Bataille, T.W. Adorno… fino a Crozier e Huntington e oltre.
Si dirà: l’America è un paese troppo abituato al pluralismo delle idee e alla democrazia per lasciarsi imprigionare in una cultura di regime a cui si opporrebbe solo una manciata disarmata di intellettuali isolati dal comune sentire. E’ impensabile un’America che, nata all’insegna del freedom, finisca in un’autocrazia di tipo russo. Ora, questa impossibilità era data per scontata anche per la Germania negli anni 1930, il paese più ricco e colto d’Europa all’epoca, la nazione che aveva inventato la teoria della relatività e la meccanica quantistica, che godeva del pensiero filosofico e della produzione teatrale e cinematografica più fiorenti. Si pensava impossibile che fosse in breve tempo imbavagliata da una banda di fanatici esaltati e da “un imbianchino”, come veniva chiamato Hitler, un pittore fallito. Lo si pensò impossibile fino al febbraio del 1933.
ROSELLA CORRADO SULL' EREDITA' di FRANCESCO CARBONE
Pubblico di seguito il testo dell'intervento svolto ieri da ROSELLA CORRADO, al Castello di Marineo, in occasione della presentazione del libro dedicato alla memoria di Francesco Carbone:
QUALE EREDITA’ DA FRANCESCO CARBONE?
Il Convegno svoltosi all’ARS l’1 dicembre 2023, organizzato dal Centro Studi e Iniziative Marineo di Franco Virga e dal Museo delle Spartenze di Villafrati di Santo Lombino, (preceduto da altri due convegni svoltisi il primo a Villafrati il secondo a Marineo) ha contribuito a far conoscere molteplici aspetti della personalità di Francesco Carbone, della sua vita, del suo lavoro di intellettuale, artista, critico d’arte, promotore culturale, antropologo, ricercatore, organizzatore teatrale e regista di teatro sperimentale. Attività inscritte tutte in una dimensione politica dell’operare, politica intesa nel senso più alto e lato del termine, poiché l’operare di Carbone era tutto rivolto alla presa di coscienza e alla crescita civile degli abitanti del Territorio di Busambra.
Per me il Convegno è stato particolarmente importante. Quando per via ereditaria io e mio marito abbiamo ricevuto un quadro di Francesco (Il pastello Tramonto ai Tropici), l’ho consegnato al corniciaio per sostituirne la cornice. In questa circostanza sono stati rinvenuti, sotto il pastello, quattro dipinti, due su tavola, due su cartoncino. Grande è stato lo stupore, l’emozione, la gioia di questa scoperta inaspettata, che ho comunicato subito alle amiche invitandole a venire a vederli, ma un pensiero mi rattristava: questi quadri non sarebbero mai stati conosciuti fuori dalla mia cerchia familiare ed anche la modalità del ritrovamento, così singolare, sarebbe rimasta soltanto un bel ricordo: per me.
Accade poi che Franco Virga, incontrandomi un giorno in portineria mi dice sbrigativo: il convegno su Ciccio si farà, scrivi un pezzo sui quadri che hai trovato.
Così nel raccontare la meraviglia del ritrovamento ho voluto offrire una mia lettura della fase pittorica figurativa di Francesco, risalente ai primi anni Sessanta, attraverso i dipinti, sette in tutto, a me pervenuti. I quadri sono legati al soggiorno in Africa e in Sudamerica di Ciccio e di quelle terre recano i colori forti e contrastanti ma rivelano anche il vissuto doloroso di Francesco e la sua inquietudine, mai rassegnata. Mentre raccontavo e descrivevo i quadri è sorta in me l’esigenza di capire le ragioni, qualora ce ne fossero, del nascondimento – casuale o voluto? – operato dall’artista.
Queste ragioni vengono riprese e citate da Ketty Giannilivigni nella bella recensione intitolata QUALE ALBA PER GODRANOPOLI? dedicata al volume FRANCESCO CARBONE in memoria. E’ alla sua interpretazione di quell’occultamento che è bene prestare attenzione: .
Continua Ketty: nascondere i primordi creativi nella melanconia di un tramonto appare di per sé un’operazione artistica; anzi, a una rilettura attenta della figura di Francesco Carbone, mediante gli scritti presenti nel volume, questo occultamento può svelare i tratti di un modo di vivere ed operare nel mondo di qualità non comune e conclude dicendo che forse l’intera eredità materiale, immateriale e spirituale di Carbone andrebbe riletta in quel gesto di affidamento al Tramonto ai Tropici delle opere sepolte al di sotto del quadro incorniciato. Un gesto da considerare alla stregua di un messaggio all’interno di una bottiglia dato in custodia alle acque da un naufrago. Ma ci sarà qualcuna/o che rinverrà la bottiglia e il messaggio al suo interno? E nel caso in cui ciò avvenisse questi sarebbe in grado di interpretare la missiva?
Ebbene, io credo che i 15 relatori del Convegno tenutosi all’ARS abbiano dimostrato che l’eredità - umana morale artistica civile e politica - di Ciccio non è andata dispersa, anche se l’eredità più grande contenuta, concentrata, nel Museo etnoantropologico della Civiltà agropastorale e contadina GODRANOPOLI non è ancora stata del tutto raccolta e fatta rivivere come merita.
Il Convegno dell’ARS però ha acceso i riflettori su Godranopoli, il Museo è stato già acquisito dal Comune di Godrano e la Regione Sicilia ha stanziato un finanziamento per il suo recupero edilizio e funzionale. E’ un’opportunità che la giunta comunale godranese ha colto comprendendo bene che Godranopoli è un fattore identitario per il piccolo paese di Godrano. Per Francesco Carbone GODRANOPOLI era un IMPERATIVO TERRITORIALE e L’imperativo territoriale è un’esigenza che appartiene al luogo di origine come è scritto nel cartiglio del bellissimo Manifesto di cui Ciccio mi fece prezioso dono alla fine degli anni Ottanta.
All’interno di un elaborato cartiglio dell’Università degli studi di Palermo (con timbro e firma del direttore dell’Opera universitaria) una imperiosa freccia indirizza verso Godrano e il Centro Studi e documentazione Godranopoli. GODRANOPOLI campeggia nella parte inferiore del manifesto con le parole chiave: “Immagini segni e momenti della comunicazione territoriale”. Il timbro del Centro e la firma autografa di Francesco Carbone sono posti accanto all’impronta digitale e al segno di croce di tal … Giuseppe fu Francesco residente a Godrano, la cui identità è attestata da Carbone.
Questo manifesto mi sembra una sintesi perfetta dell’idea di Cultura di Carbone, senza barriere e compartimenti stagni, senza gerarchie, ma basata sulla comunicazione, la circolarità e la interconnessione dei saperi.
Questa è forse l’eredità più importante di Carbone che solo il Museo Godranopoli aperto sul territorio, così come Francesco lo aveva concepito, potrebbe mantenere in vita.
Quale vita futura per Godranopoli, vorrei che fosse oggetto di dibattito.
ROSELLA CORRADO
13 aprile 2025
12 aprile 2025
LA FABBRICA DI ADRIANO OLIVETTI
“Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare”.
Così sosteneva l’imprenditore "illuminato" Adriano Olivetti, nato a Ivrea l’11 aprile 1901 (e scomparso prematuramente nel 1960), che riuscì a costruire una fabbrica a misura d’uomo, dove gli operai avevano uno stipendio più alto del 20-40 per cento rispetto alla paga sindacale e potevano disporre di servizi sociali (compresi asili nido), sanitari e trasporti.
Adriano Olivetti fu anche uno dei primi finanziatori del Centro Studi e Iniziative di Danilo Dolci. (fv)
FREUD e MAHLER
FREUD E MAHLER
Gustav Mahler è stato uno dei più grandi musicisti e compositori di ogni tempo. La sua musica, elegante e carica di pathos, è ancora oggi capace di suscitare intense emozioni.
Artista precoce e dal grande talento, visse una vita tormentata e carica di dolore.
Figlio di un padre brutale e di una madre malata, nato con ben 9 fratelli, ben 5 morirono precocemente, uno di loro morì a 13 anni, uno sì suicidò a 22 anni e infine uno dei pochi sopravvissuti venne rinchiuso in manicomio. Il carattere di Mahler era descritto dagli amici come ossessivo e carico di malinconia; forse a testimonianza di questi vissuti, in una sua composizione, l’artista scrive: “dunkel ist das Leben, ist der Tod” - “oscura è la vita, è la morte”, alla fin di ogni strofa del primo dei 6 “Lieder del Das Lied von der Erde”.
Inoltre, Mahler soffriva per le discriminazioni legate alla sua origine ebraica:
“Sono tre volte senza patria: un boemo tra gli austriaci, un austriaco tra i tedeschi e un ebreo tra i popoli di tutto il mondo.”
Oltre all’infanzia difficile, Mahler, secondo la moglie Alma Schindler, subì “3 colpi di scure del destino”: il lutto senza fine per Putzli, la figlioletta Maria (morta a 5 anni nel 1907 di scarlattina e difterite, dopo il fallito tentativo di salvarla con una laringectomia), la diagnosi di un grave vizio cardiaco ed infine la cacciata dall’Opera di Vienna (per entrare nella quale aveva accettato di diventare cattolico).
Su tutto questo, si abbatté la notizia del tradimento di Alma: oramai stanca di tollerare l’impotenza e il nevroticismo di Mahler, Alma cercò le attenzioni di uno sconosciuto architetto di 27 anni, Walter Gropius, conosciuto ai bagni di Tobelbad (Graz) dove Alma era andata “per curarsi i nervi”.
Il tradimento venne scoperto in modo buffo e maldestro: il giovane amante, come in un lapsus, scrisse l’indirizzo di Mahler in una lettera per Alma e il musicista ricevette la lettera al posto della moglie, cadendo nella disperazione più nera.
A questo punto, Mahler decise di chiedere aiuto a Sigmund Freud, il padre della Psicoanalisi.
Abbiamo alcune testimonianze dell’incontro tra Freud e Mahler: l’artista, divorato da dubbi e incertezze, aveva domandato e disdetto l’appuntamento per ben tre volte, mettendo alla prova la pazienza di Freud. Alla fine, i due si incontrarono.
La terapia consta in un’unica lunghissima seduta, di ben quattro ore, avvenuta a Leida, il 26 o il 27 agosto 1910, durante le vacanze estive di Freud. Il messaggero tra i due era Nepallek, parente di Alma. I due passeggiarono lungo la città: Mahler si raccontò a Freud, esplorando i suoi vissuti verso Alma e raccontandosi senza riserve.
Abbiamo delle tracce di questa seduta così particolare, poco “ortodossa”, da diverse fonti: da Freud stesso, in una lettera a Reik, da Mahler, in alcuni telegrammi alla moglie, da Alma stessa e da Ernest Jones, biografo di Freud.
In una lettera di molti anni dopo (1935), Freud scriverà di ricordare di aver colto una sorta di “Mariencomplex” (fissazione materna) in Mahler e il suo totale “ritiro della libido” dalla relazione con Alma. La musica sarebbe stata uno strumento per tentare di ricomporre un oggetto idealizzato materno, per sempre perduto.
Freud rassicurò Mahler che la sua età non fosse un ostacolo per amare la moglie: egli avrebbe cercato la propria madre Maria, nella moglie Alma Maria, che egli chiamva a volte solo Maria. Secondo quanto ne disse Freud, Mahler avrebbe confermato la bontà di questa interpretazione.
Nella sua lettera Freud raccontò della stima maturata per Mahler: nonostante la singola seduta non avesse potuto “scalfire la nevrosi ossessiva”, Freud vide in Mahler un “uomo di genio”, con una sorprendente “capacità di comprensione psicologica”: è come se “un singolo raggio di luce fosse trapelato da un misterioso edificio” commentò Freud.
Mahler raccontò con entusiamo ad Alma di questa seduta: egli scrisse un telegramma che recita: “bin frölich unterredung interessant aus strohhalm balken geworden” (“sono felice, colloquio interessante, la paglia è diventata una trave”).
In una messaggio successivo: “in proposito ho fatto una strana scoperta: vedi, che sedessi alla mia scrivania o pensassi solo a te mentre ero lontano, era sempre lo stesso struggente desiderio nostalgico. Era sempre latente in me questa dipendenza da te -Freud ha proprio ragione - tu eri costantemente per me la luce e il punto centrale!”.
Jones, nella sua biografia di Freud, racconta come “Mahler” soffra “di folie de doute a causa della sua nevrosi ossessiva”.
Nelle proprie memorie, anche Alma racconta la sua “versione dei fatti”: Mahler è descritto come un marito devoto, ma spinto dal desiderio di idealizzare la moglie, impedendo ogni sua forma di realizzazione artistica e personale. Messa su un piedistallo, Mahler l’avrebbe considerata un essere intoccabile.
L’articolo completo è disponibile sul sito.
Per approfondire:
-Albano Lucilla - Il divano di Freud. Mahler, l'Uomo dei Lupi, Hilda Doolittle e altri. I pazienti raccontano il fondatore della psicoanalisi;
-Alessandro Zignani – Il canto della terra. Mahler, Freud e l’America: il romanzo degli addii;
-Ernest Jones – Vita e opere di Sigmund Freud.
PERCHE' CI SI ALZA LA MATTINA?
PERCHÉ CI SI ALZA LA MATTINA?
di Rocco Ronchi
Ci sono delle buone ragioni per sperare? Oppure, detto più prosaicamente ma anche in modo maledettamente più concreto, “perché ci si alza la mattina?”. Se nella notte ci si è rigirati insonni nel letto era proprio perché quella domanda non sembrava trovare risposta. La speranza in certe ore notturne è proprio come morta. “Perché ci si alza allora la mattina?” chiede il filosofo Ernst Bloch nella sua conversazione del 1964 con Theodor W. Adorno, da lui chiamato amichevolmente Teddy (Qualcosa manca… sulla contraddizione dell’anelito utopico contenuta in Ernst Bloch, Speranza e utopia, Conversazioni 1964-1975, a cura di R. Traub e H. Wieser, Mimesis, Milano 2022). Quali sono le radici metafisiche di quella folle speranza in un giorno migliore senza la quale l’esistenza sarebbe intollerabile? Il curatore italiano del libro Eliano Zigiotto, come Laura Boella, che lo correda con una breve e intensa post-fazione (dal titolo: Il coraggio di sperare e di disperare) insistono nel “datare” queste conversazioni: sono, ripetono, di cinquanta – sessanta anni fa quando il mondo era profondamente diverso, quando la guerra fredda imperava e la filosofia era praticata come atto critico e sovversivo.
Bloch e Adorno (per non parlare di György Lukács, compagno di studi filosofici del giovane Ernst, anche lui fugacemente presente in questi dialoghi) erano filosofi che nell’hegelo-marxismo avevano il loro orizzonte di riferimento teorico e nel socialismo quello pratico. Le loro strade certo divergono, anche drammaticamente, ma tutti condividono la speranza in una trasformazione radicale dello stato di cose, anzi il loro dissidio nasce proprio dai diversi modi in cui questa comune speranza può essere declinata.
Ora, quel mondo è indubbiamente tramontato al punto che nemmeno chi si propone di rinnovare la malmessa sinistra italiana osa pronunciare quella parola, “socialismo”, che per Ernst come per Teddy era pressoché un’ovvietà. “Socialismo” era per loro “il sogno di una cosa” latente nel “processo storico”, di cui si poteva discutere la praticabilità ma non certo la “necessità”.
Eppure quella domanda, “perché ci si alza la mattina?”, rimbomba più che mai nella nostra testa frastornata. Ciò si deve, forse, al fatto che quella domanda non ha a che fare con il tempo lineare degli eventi, piuttosto va alla radice del tempo, chiede di qualcosa che non è più tempo, qualcosa che se ne sta fuori dal tempo, come il celebre exaiphnes di cui parlava il Parmenide immaginato da Platone, un “improvviso” (così bisognerebbe tradurlo) che del cambiamento è l’origine senza essere parte del tempo (per questo la sua traduzione con “istante” è fuorviante).
Nella prima delle conversazioni raccolte nel volume (anch’essa del 1964), l’intervistatore Jurgen Rühle fa una domanda a bruciapelo a Bloch. Una vera domanda “giornalistica”. Gli chiede: lei che ha scritto Il Principio speranza (1959), lei che ha rimesso in circolazione la necessità dell’utopia, una nozione che gli stessi marxisti, volendo essere “scientifici”, disprezzavano, lei ci sa dire in due parole “qual è l’idea di fondo della sua filosofia?”.
Bloch non esita a rispondere. Da vero filosofo sa che ogni pensiero vivente si nutre di una sola intuizione sebbene occorrano migliaia di pagine e un’intera esistenza di ricerca per comunicare al mondo la sua ineffabilità di principio. Quel punto, dice, è l’“oscurità dell’attimo vissuto”, quel punto è la strana natura del presente, del “qui e ora”. Non bisogna alzare gli occhi al cielo per cercare il mistero. Ciò che è massimamente vicino, perché io lo sono, adesso, è in realtà l’enigma.
L’immediato, come lo chiamano i filosofi, è l’enigma, l’immediato è la sorgente costante dello stupore. “Una vita” denota il tempo speso nel tentativo di decifrarlo e la “storia degli uomini”, con i suoi conflitti, con le sue catastrofi e con le sue rivoluzioni, è il succedersi degli “esperimenti”, quasi sempre fallimentari, con cui l’umanità ha cercato di risolvere quella X incognita nell’equazione del presente vissuto. Il presente, a ben considerarlo, ha infatti una ben strana natura. Il presente è intimamente aporetico, è un vicolo cieco.
Ad esso non posso sottrarmi – provatevi, se ci riuscite, a fuoriuscire dal suo orizzonte claustrofobico… –, in esso tutto passa e, tuttavia, il presente resta a me, mentre lo sono, ignoto: per vedere qualcosa, per sentire qualcosa, per sapere qualcosa non bisogna forse fare sempre un passo indietro, articolare una distanza, esiliarsi in un “punto di vista” necessariamente esterno alla “cosa” che si ha di fronte? Come recita il proverbio tedesco, ai piedi del faro che illumina il mare c’è il buio e la visione, spiegano i fisiologi, è debitrice di una macchia cieca al fondo della retina. “Utopia” è allora il nome “preciso” che la speranza umana ha dato al momento apicale in cui quell’equazione sarà finalmente risolta, all’attimo immenso in cui il presente potrà dirsi veramente vissuto in pienezza. È un nome “preciso” perché utopia significa al contempo nessun luogo (ou-topos) e il luogo del bene (eu-topos).
continua e si conclude qui: https://www.doppiozero.com/ernst-bloch-perche-ci-si-alza...
Iscriviti a:
Post (Atom)