26 maggio 2025

L' ANNIENTAMENTO DELLA PAROLA

L’ ANNIENTAMENTO DELLA PAROLA Pensiamo al potente discorso con cui si apre il Vangelo secondo Giovanni: “Nel principio era la Parola (il Logos) e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio”. Che cosa potremmo dire noi oggi: “Alla fine ci fu la parola e la parola era Nulla, e la parola cadeva nel Nulla”. Terribile segno dei tempi. La parola pronunciata dai grandi della Terra ha perso valore. Il presidente Trump ha sortito affermazioni che si è poi rimangiato un gran numero di volte. E così l’autocrate Putin. La parola dei nostri politici italiani non sembra avere un particolare peso, se è vero che viene rilanciata all’infinito dai mezzi di comunicazione e non produce nessun effetto. La partecipazione al voto continua a calare nell’indifferenza generale. Marek Halter ha appena fatto notare l’assenza di grandi voci autorevoli tra gli intellettuali dei nostri giorni. Ha nominato Albert Camus e Primo Levi. Grandi figure del passato. Di un passato recente, ma pur sempre passato. Come si esce da questo tunnel del discorso che si converte in rumore e assenza di significato? Qualcuno forse in un futuro non troppo lontano prenderà il posto delle attuali comparse sulla scena del mondo. E tuttavia sarebbe ingiusto credere che siamo condannati a una solitudine impotente. Intanto c’è la parola quotidiana, che non ha perso significato. “Buongiorno” vuole ancora dire buongiorno sulla bocca di molti tra noi comuni mortali. E poi si tratta di tendere l’orecchio e di aprire gli occhi. Tendere l’orecchio. Altri messaggi continuano ad essere trasmessi nella valanga delle informazioni comunicate al pubblico. Il nuovo papa, per esempio, sembra pesare le parole e rimette in circuito nozioni preziose, la speranza, la fraternità, lo spirito. La Cina non è più quella luce che veniva dall’Oriente e indicava la strada del futuro a una umanità smarrita. Si esprime in un linguaggio sommesso, niente tigre di carta, come usava il Grande Timoniere, ma riesce ad allineare considerazioni di buon senso, lasciando trasparire soprattutto una grande calma, virtù rara in questi tempi di furori recitati e poco convinti. Aprire gli occhi. La nostra è una civiltà dell’immagine, si dice. Trump e Putin e Netanyahu, le star mediatiche del momento non hanno parole per esprimere l’orrore che si consuma a Gaza, giorno dopo giorno. Eppure, basta accendere il televisore o aprire il computer, o il telefonino. Lo scandalo del martirio inflitto ai civili sulle sponde del Mediterraneo in un angolo della terra contesa tra israeliani e palestinesi si ripropone di continuo. La ressa degli affamati. Il paesaggio devastato. Le rovine a cielo aperto. La vergogna delle armi dispiegate per il contrasto ai civili inermi. Altro che pace disarmata e disarmante, come ha detto Leone XIV inaugurando la sua prelatura. Guerra armata e disperante. Guerra che uccide la speranza in un futuro umano. Guerra che prelude a un futuro di immemore sopraffazione. Il resort, la costa azzurra del Medio Oriente. Anche questo è stato detto dal principale attore della attuale tragedia. L’angelo della storia in Klee procedeva con le spalle volte al futuro e contemplava una sorta di inferno sulla terra. Walter Benjamin che amava quella immagine aveva un legame certo con la tradizione ebraica e con il misticismo da essa veicolato. Per una volta, sarebbe invece giusto voltare le spalle alla tradizione per affermare che solo il ritorno del Logos, della parola vera, può aprire le porte del futuro a una umanità decisa a vivere in pace. Lo Spirito positivo del mondo non chiede altro. Ognuno faccia la propria parte. Là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva, secondo la Parola e l’auspicio sacrosanto del poeta.

20 maggio 2025

IL PASOLINI DI P. DESOGUS

[E’ da poco uscito per La Nave di Teseo In difesa dell’umano. Pasolini tra passione e ideologia, di Paolo Desogus. Ne pubblichiamo la premessa]. PAOLO DESOGUS Una premessa per il presente Ogni passato […] può ottenere un grado di attualità più alto che al momento della sua esistenza. La sua configurazione in quanto superiore attualità spetta all’immagine in cui la comprensione lo riconosce e lo colloca. E questa compenetrazione dialettica e presentificazione di circostanze che appartengono al passato è la prova di verità dell’agire presente. Ovvero: essa accende la miccia del materiale esplosivo riposto nel ciò che è stato. W. Benjamin, I “passages” di Parigi Le pagine che seguono raccolgono e rielaborano il mio lavoro di ricerca sull’opera di Pier Paolo Pasolini e più precisamente sul tema della contraddizione, qui analizzato attraverso le sue diverse declinazioni e alla luce di quel processo di trasformazione culturale, sociale ed economico, ancora oggi in corso, chiamato negli Scritti corsari “mutazione antropologica”. Con questo libro vorrei infatti offrire al lettore un’indagine approfondita del corpus pasoliniano, mantenendo vivo il dialogo con il presente con l’obiettivo di restituire ai suoi testi e ai vari concetti chiave che vi compaiono quella “superiore attualità” necessaria per interpretare e agire sul nostro tempo. Soprattutto la contraddizione – tra “passione e ideologia”, “con te e contro te” –, coltivata sin dagli anni friulani e poi riproposta in modi diversi nelle opere più mature, mi pare aiuti a ritrovare nel lavoro poetico la sua facoltà di comprensione del mondo e quindi a recuperare quel legame tra ricerca espressiva e dimensione politica che ha permesso a Pasolini di interrogare l’umano, le sue forme simboliche e il suo rapporto con la storia. La premessa che ha guidato questo studio è che tra attività artistica e vita sociale vi è sempre un nesso che l’indagine critica deve sforzarsi di spiegare per evitare che l’espressione poetica, per dirla con Fortini, si degradi ad “aroma spirituale” o a “ipocrita ‘cuore di un mondo senza cuore’”, se non a vero e proprio “vino di servi”[1]. Tale legame è cruciale in Pasolini. Nella sua opera anche la più banale effrazione metrica, anche il più semplice innesto dialettale o la più elementare inquadratura svolge una funzione politica. E questo non perché sia convinto che le scelte stilistiche abbiano il potere di modificare la realtà, ma perché, nella sua ottica, ogni decisione rimanda ai modi in cui la coscienza poetica vive la propria contraddizione col mondo e dunque reagisce al suo contesto nel tentativo di comprenderlo e di verificare le condizioni di possibilità della sua trasformazione. La politicità di Pasolini, dunque, non risiede solo nelle prese di posizione e negli espliciti riferimenti alle questioni sociali. Né mi pare possa essere risolta ricorrendo alle etichette che si è dato, come ad esempio quella di intellettuale marxista. Tutti questi elementi hanno la loro grande importanza (non si può infatti pensare a Pasolini senza gli Scritti corsari e le Lettere luterane, né gli si può negare l’appartenenza al campo marxista), ma possono essere pienamente compresi solo nel quadro della lotta per l’espressività che ha combattuto sin dagli anni casar­sesi. Le arti e in particolare la letteratura sono state per Pasolini il luogo di analisi critica delle forme di oppressione e di studio delle relazioni tra il singolo, il suo bios, la collettività e i processi materiali. La stessa “mutazione antropologica”, elaborata negli ultimi anni corsari e maggiormente prossima al tema dell’uma­no, ha le sue radici nell’impossibilità che Pasolini vive in quan­to autore via via deprivato della materia espressiva dei dialetti, così come dei visi e dei gesti di quel corpo popolare raffigurato in molte sue opere. La manipolazione che dagli anni sessanta il mercato estende a ogni fascia sociale, incluso il sottoproletariato urbano raccontato nei romanzi romani e l’universo contadino delle poesie giovanili, toglie a Pasolini un aggancio al mondo, segna sia l’erosione della sua poetica che la perdita di realtà, cioè il progressivo smarrimento di quei dati estetici concreti che con­sentivano il confronto con il mondo esterno, con ciò che resiste alle convenzioni e alle forme di assoggettamento. La contraddizione, e negli ultimi anni la difesa della con­traddizione dalle mutazioni che promettono di sollevare l’umano dalla sua finitudine, dalla sua costitutiva incompletezza, è con­fluita nella riflessione politica e ha trovato un fortunato sviluppo nella critica alla società dei consumi che si è affermata in Italia negli anni del miracolo economico. Nella promessa di benesse­re per mezzo delle merci Pasolini vede infatti non l’esito di un nuovo progresso, ma il compimento di una forma di alienazio­ne capace di degradare l’individuo, di schiavizzarlo e di farne lo strumento di uno sfruttamento inedito, che attinge non più solo dal lavoro, come negli operai di Marx, o dal radicamento egemonico, come ha poi mostrato Gramsci, ma anche dalla sua più profonda intimità, ovvero dal suo desiderio, dall’“amor che move”2 che dà slancio alla vita, sostanzia i legami sociali e dà impulso alla costruzione delle forme simboliche. Come si osserva soprattutto nell’ultimo Pasolini, il falso progresso denunciato già dalla fine degli anni cinquanta si serve di questa forza vitale per estendere il progetto di sfruttamento capitalistico. Trasforma la contraddizione in omologazione, il desiderio di vita in desiderio di merce, l’eros in prestazione, le relazioni sociali in sfruttamento del prossimo, le comunità in campo di competizione e di autoaffermazione egoistica. Lo stesso “amor che move” dantesco[2] volge in agency priva di respiro comunitario, di apertura all’alterità e di riconoscimento della propria condizione esistenziale e politica in quella del prossimo. Il falso progresso neocapitalistico e le più recenti varianti neoliberali costituiscono in questo senso il punto più avanzato di mutazione. Esso si propone di sostituire l’umanesimo con la tecnica, l’arte con l’intrattenimento, l’amicizia con la competizione, la politica con il management, la democrazia con la governance, l’universale con il culto del frammento. La sua promessa è quella di saturare il desiderio, di eliminare il senso di contingenza, di incompletezza dell’umano, mediante l’illusione della crescita verticale dell’io, del godimento materiale illimitato e della rimozione di tutto ciò che si pone di fronte all’individuo come un ostacolo. La stessa esperienza della morte, come si rileva ancor più negli ultimi anni, è occultata da un vitalismo edonistico che nega ogni vincolo materiale, rimuove le fragilità del corpo, nasconde ogni traccia che rimandi alla precarietà ontologica del singolo e spinge alla performance continua. L’idea di limite è espulsa dal pensabile, sostituita dalla venerazione del consumo per il quale l’invecchiamento e la fine biologica dell’esistenza sono anomalie da correggere. Considerata l’eccezionale trasformazione prodotta dal capitali­smo nell’ultimo mezzo secolo e i tanti anni trascorsi dalla scomparsa di Pasolini è lecito chiedersi quanto siano attuali le sue riflessioni sulla mutazione antropologica e soprattutto se la sua critica al con­sumismo non sia in fondo il frutto dei timori personali di un autore essenzialmente antimoderno e nostalgico, che ha denunciato un avanzamento giunto a compiersi, su cui dunque occorre interrogarsi senza rimpiangere il vecchio umanesimo e le sue “lucciole”, legate invece a un mondo storico ancora prossimo a una natura oggi del tutto dominata. Questa estraneità al presente parrebbe del resto motivata dalle recenti acquisizioni tecnologiche, che hanno deter­minato nuovi rapporti di produzione dallo scrittore friulano intra­visti solo nel loro primissimo bagliore, senza dunque avere reale esperienza dei loro effetti sull’umano e sulle sue forme simboliche. La tesi di questo libro è che il valore e la “superiore attualità” di molte sue considerazioni sono in realtà dovuti all’esperienza di conflitto maturata con il proprio tempo, lungo un percorso ric­chissimo di cambiamenti, dall’avvento alla caduta del fascismo, dalla lotta di Liberazione e dalla rinascita del movimento operaio alla fine delle speranze di rivoluzione, dal sorgere del miracolo economico all’affermazione della nuova civiltà dei consumi che ha modificato la percezione dell’essere umano sul mondo e su se stesso. In Pasolini queste diverse fasi storiche convivono nelle sue narrazioni, nelle sue scelte stilistiche. Si sviluppano attra­verso il corpo a corpo con il suo tempo. E hanno dato forma al suo alfabeto politico, interagendo in modo fecondo con la sua poetica della contraddizione. Come infatti si riscontra in molti momenti della sua opera, arcaicità e modernità, sopravvivenza del passato e civiltà dei consumi si intrecciano, sono l’espressione di continue sovrapposizioni, di scambi conflittuali che mimano i contrasti tra essere e divenire, tra la creaturalità dell’umano e il pericolo della sua mercificazione. Quello che consente di tenere aperto il dialogo tra Pasolini e il presente sta allora proprio nella sua idea di contraddizione, da lui coltivata attraverso un itinerario poetico e intellettuale strettamente intrecciato al percorso della grande tradizione umanistica italiana ed europea, quella di Dante, Leopardi, Gramsci e de Martino, con aperture a Dostoevskij, a Proust e, negli ultimi, anni alle esperienze politico-filosofiche di Marcuse e di Horkheimer e Adorno, da cui ha tratto linfa la sua ragione impura per pensare l’umano fuori dalle concezioni aprioristiche della storia e della società. Questo cammino inizia a Casarsa, in Friuli, dove Pasolini compie le prime sperimentazioni letterarie, scopre la propria omosessualità e vive quella cruciale scissione tra sé e l’altro da sé, che nel passaggio a Roma diviene desiderio di desiderio, abbraccio collettivo, ricerca del proprio io nell’altro. Dopo Casarsa e Roma, negli anni sessanta, l’umanesimo di Pasolini trova i propri riferimenti oltre i confini nazionali. Soprattutto quando la sfida poetica e intellettuale si misura con la fine delle aspirazioni rivoluzionarie il suo sguardo matura e assume una consistenza intellettuale nuova, che gli consente di rinnovare la critica alla ragione neocapitalistica e di analizzare la sua capacità di fondare il proprio dominio non più solo per mezzo della forza, ma sulla spinta di una capacità egemonica inedita che crea consenso, costruisce un nuovo immaginario e allo stesso tempo si impossessa dei corpi per integrare il loro slancio di desiderio nella logica del consumo. Pasolini non ha conosciuto lo sviluppo economico, industria­le e tecnologico di cui oggi siamo testimoni e questo libro non ha certo la pretesa di farne un profeta moralisticamente ostile. Quello che consegno con queste pagine mi auguro possa però servire a comprendere il nostro tempo dall’ottica umanistica di Pasolini. Resto infatti persuaso che la sua vicenda poetica e intellettuale consenta di ripercorrere criticamente la traiettoria delle “magni­fiche sorti progressive” che collegano il passato al presente e che nel tratto che ora attraversiamo aspirano apertamente alla possi­bilità del superamento dell’umano per mezzo di dispositivi che allargano la percezione, distaccano sempre più dalla datità vitale e promettono di liberarlo dai suoi limiti esistenziali per farne un soggetto dotato di illusorie facoltà autopoietiche, dunque appa­rentemente capace di autodeterminarsi, di diventare imprendito­re e legislatore di se stesso al di fuori di qualsiasi “social catena”, sciolto dai vincoli con il prossimo e da ogni ideale comunitario. Tale prospettiva minaccia di alienare ulteriormente ogni slancio, ogni desiderio: non più desiderio di desiderio, sforzo collettivo per resistere alla finitudine o “amor che move”, ma brama di merce che dà compimento alla colonizzazione dell’umano, all’estremo superamento della contraddizione tra io e mondo mediante l’alie­nazione e lo sfruttamento. È questo l’esito transumanista, l’ultima variante della mutazione antropologica che spoglia il singolo di ogni legame sociale, di ogni progetto comunitario, e che aspira ad amministrare la vita secondo le regole del consumo, con l’o­biettivo di trasformare il desiderio in un moltiplicatore di potenza del capitale. Note [1] F. Fortini, Metrica e biografia, «Quaderni piacentini», n.s. 2, XX, 1981, p. 106. [2] La citazione riprende naturalmente un verso di Dante, ma si riferisce anche al bel titolo del volume di M. Gragnolati, Amor che move. Linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante, il Saggiatore, Milano 2013.

17 maggio 2025

LA RIBELLIONE DELLE MASSE

José Ortega y Gasset La ribellione delle masse (1930) traduttori Salvatore Battaglia, Cesare Greppi ... la vita è anzitutto un caos in cui uno si smarrisce. L'uomo ne ha il sospetto: ma l'atterrisce l'idea di trovarsi faccia a faccia con questa terribile realtà, e si sforza di nasconderla con un telone fantasmagorico, dove tutto risulta molto chiaro. Non lo preoccupa il fatto che le sue «idee» non sono veridiche: egli le impiega come trincee per difendersi dalla sua vita, come spauracchi per allontanare la realtà. L'uomo di intelletto lucido è colui che si [libera] di queste «idee» fantasmagoriche e guarda in faccia alla vita; e si rende conto che tutto in lei è problematico, e si sente smarrito. E poiché questa è la pura verità - cioè che vivere è sentirsi smarrito - chi l'accetta ha già cominciato a ritrovarsi, ha già incominciato a scoprire la sua autentica realtà, è già su un piano stabile. Istintivamente, come il naufrago, cercherà qualcosa a cui aggrapparsi, e questo tragico sguardo perentorio, assolutamente verace perché tenta di salvarsi, gli farà dare un ordine al caos della sua vita. Queste sono le uniche idee veridiche: le idee dei naufraghi. Il resto è retorica, posa, farsa intima. Chi non si sente veramente smarrito, si perde inesorabilmente; cioè non si trova più, non s'incontra mai con la propria realtà. Questo è vero in tutte le sfere dell'umano, anche nella scienza, nonostante che la scienza sia per se stessa una fuga dalla vita (la maggior parte degli uomini di scienza si sono dedicati a lei per il terrore d'affrontare la propria vita, non sono intelletti chiari; e da qui la loro risaputa timidezza dinanzi a qualsiasi situazione concreta). Le nostre idee scientifiche valgono nella misura con cui ci siamo sentiti smarriti in presenza d'un problema, nella misura con cui ne abbiamo intuito il carattere problematico e abbiamo compreso che non possiamo sostenerci su idee ricevute, su formule, ricette, lemmi, parole. Colui che scopre una nuova verità scientifica ha dovuto prima triturare quasi tutto ciò che aveva appreso, e giunge a questa nuova verità con le mani insanguinate per aver strozzato innumerevoli luoghi comuni.

GAZA, UNA RIFLESSIONE SUL LINGUAGGIO

Il genocidio e l’archivio coloniale che si riapre Iain Chambers, il manifesto, 16 maggio Nessuno possiede una lingua. Insistere su questa banale constatazione, quando gli altri mezzi della sfera pubblica sono sempre più soggetti a censura, non significa semplicemente mantenere un distacco critico. Se, come ha insistito Hannah Arendt, ciò che rimane è il linguaggio, allora questa affermazione propone anche l’inizio di un processo per ribaltare il suo controllo da parte della retorica mortale che attualmente cerca di esercitarlo. Il paradosso del controllo del linguaggio a sostegno dell’oscenità omicida che si sta verificando a Gaza, ovvero il diritto di Israele a difendersi da chi sta opprimendo e massacrando, ha portato a sganciare il concetto di genocidio da una definizione esclusivamente etnica e religiosa legata all’esperienza ebraica moderna. Inizialmente, nei giorni e nelle settimane successive al 7 ottobre 2023, persino i commentatori di sinistra hanno mostrato cautela nell’applicare il termine “genocidio” ai crescenti massacri e alle uccisioni indiscriminate di civili nella Striscia di Gaza. Tuttavia, con il passare del tempo, le prove sono aumentate e sono state trasmesse in diretta streaming, oltre a essere confermate dalle dichiarazioni del governo israeliano che non lasciavano dubbi: tutti i palestinesi dovevano essere considerati animali, terroristi e combattenti da eliminare. Che il massacro abbia inizio. E continua. Alcune testate internazionali come The Economist e The Financial Times hanno incominciato a criticare la brutalità della politica israeliana, e l’ex Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, ha sostenuto che si tratta effettivamente di genocidio. Ultimamente il termine è comparso di sfuggita persino sul Corriere della Sera. Forse si inizia ad alzarsi un altro vento. La redazione consiglia: Una società dispersa e fatta a pezzi: la Nakba è quotidiana Se le accuse di antisemitismo sono diventate sempre più insensate nella loro applicazione indiscriminata a qualsiasi critica, perfino quando proviene da ebrei dissidenti, a Israele, al sionismo e alla sua arroganza coloniale di fondo, anche la controversia sull’applicazione del termine “genocidio” ha riaperto brutalmente un archivio coloniale e la sua centralità nella costruzione della modernità occidentale. Nel 1905, Sir Roger Casement, successivamente giustiziato da Londra per le sue attività di repubblicano irlandese, scrisse un rapporto ufficiale per il governo britannico sugli abusi dei diritti umani della popolazione indigena del Congo belga. Documentò la schiavitù, le mutilazioni, le torture, gli omicidi e il regno del terrore organizzato per l’estrazione di caucciù e avorio nel feudo privato del re Leopoldo. Lì incontrò Joseph Conrad, il futuro autore di Cuore di tenebra. In seguito, condusse spedizioni di ricerca su abusi simili contro i Putumayo da parte degli imperi del caucciù in Amazzonia. In Inghilterra, i suoi resoconti provocarono l’indignazione dell’opinione pubblica e l’avvio di procedimenti giudiziari. Se in Amazzonia i morti e i massacri furono migliaia, in Congo le vittime furono molte di più, forse fino a dieci milioni. Nel 1915, lo storico britannico Arnold Toynbee preparò rapporti dettagliati per il Ministero degli Esteri britannico su quello che descrisse come lo sterminio degli armeni sotto gli Ottomani in Anatolia e nelle marce della morte nel deserto della Siria. Il termine “genocidio” fu coniato all’inizio degli anni Quaranta dell’ultimo secolo dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin, che riconobbe l’eliminazione degli armeni come un caso di genocidio. Egli utilizzò il concetto per descrivere la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico attraverso l’eliminazione della sua vita politica, sociale, culturale e religiosa. Il termine fu adottato come base della Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite nel 1948. Il documento finale fu modificato e diluito dai vincitori della Seconda guerra mondiale per proteggere le proprie storie e i propri interessi. In effetti, lo stesso Lemkin considerava il documento approvato un fallimento. Elaborato come risposta immediata alla persecuzione degli ebrei europei e alla Shoah, Lemkin non escluse esplicitamente altre atrocità storiche né esitò ad applicare il concetto retrospettivamente. Egli considerava il genocidio una costante della storia umana e, nel periodo moderno, profondamente legato al colonialismo e all’imperialismo. Se per gran parte del mondo la modernità occidentale ha significato semplicemente colonialismo, nel corso della sua storia ha anche rappresentato un incontro persistente con intenti genocidi. Il salto temporale tra lo slogan «L’unico indiano buono è quello morto», pronunciato dai cowboy in un saloon, e «L’unico arabo buono è quello morto», scritto oggi lungo la strada in Israele, tradisce una coerenza mortale. Ci troviamo quindi a convivere con il termine “genocidio”. Non, proprio come il colonialismo, semplicemente una cosa del passato, specifica di un tempo e di un luogo, o ristretto alla storia di un popolo. Indica strutture più profonde di potere, oppressione e brutalità che continuano a modellare le nostre vite. In questo caso, la semantica viene sottratta alla purezza teocratica e ideologica e ai guardiani di ogni singolo racconto del tempo. La lingua tradisce sempre un eccesso ineluttabile che rifiuta di essere intrappolato nei confini di un ordine imposto. Se alla fine è il linguaggio a rimanere, esso sostiene sempre un ritorno che interroga il presente proprio con ciò che cerca di negare.

16 maggio 2025

GUERRE ED EMIGRAZIONE SECONDO PAPA FRANCESCO

Sto leggendo l'autobiografia di Papa Francesco e fin dalle sue prime pagine si comprende che questo libro aiuta a comprendere il suo pensiero meglio delle sue Encicliche e dei suoi discorsi ex cathedra. Francesco è un uomo che ha vissuto e il suo pensiero è radicato nelle sue esperienze di vita. Ad esempio, l'esperienza dell'emigrazione dei suoi genitori e dei suoi avi l'hanno segnato profondamente. Anche per questo ha voluto iniziare il suo Pontificato nell'isola di Lampedusa, prima meta d'approdo di tanti disperati odierni: " simbolo delle contraddizioni e della tragedia delle migrazioni e il cimitero marino di troppe, tropppe morti" (p. 22). Francesco ricorda che i suoi genitori emigrarono dopo la prima guerra mondiale. Da questa "inutile strage" un suo nonno si salvò miracolosamente. E dai racconti di suo nonno ha cominciato a capire cosa è realmente una guerra: "Emigrazione e guerra sono due facce di una sola medaglia. [...] la più grande fabbrica di migranti è la guerra" (p. 24). Successivamente, attraverso la lettura di B. Brecht (ivi p.46) e di don Lorenzo Milani (p.33), ha scoperto il carattere classista di tutte le guerre. Anche per questo Francesco non si è mai limitato a fare generici discorsi per la pace ma ha sempre denunciato con forza "i pianificatori del terrore, gli organizzatori dello scontro, gli imprenditori delle armi" (p. 41). Anche per questo appare falso ed ipocrita l'omaggio che tutti i Governanti del mondo - oggi impegnati in una folle corsa al riarmo - hanno reso alla salma di Francesco. (fv)

ARMIAMOCI E PARTITE 2

Armiamoci e partite, se i fautori della guerra son tutti maschi e anziani Marco Aime, Domani, 16 maggio 2025 La distinzione antropologica sui punti di vista etico e emico può aiutare nella discussione sulla guerra in Ucraina, per contestualizzare il punto di vista dei “volonterosi” e quello degli ucraini. A proposito, a parlare di guerra sono in genere maschi di una certa età, che in guerra non ci andrebbero in alcun caso. L’altro punto di vista sarebbe quello dei giovani In antropologia, nello studiare gli aspetti culturali di una società, si utilizzano due punti di vista: etico ed emico. Sgombriamo subito il campo da equivoci: etico non ha nulla a che vedere con la morale, semplicemente rappresenta il punto di vista dell’osservatore esterno, mentre emico è quello del “nativo” interno alla comunità. Per fare un esempio, da un punto di vista etico si può spiegare il tabù della carne suina per ebrei e islamici in termini storici ed ecologici, ma se si chiede a un ebreo e a un islamico perché non mangiano maiale risponderanno perché c’è scritto sulla Bibbia o sul Corano. Proviamo ad applicare lo stesso metodo alla situazione attuale tra Russia e Ucraina. Premesso che l’invasione russa è un atto criminale, sebbene contestualizzata in una ragnatela di azioni precedenti e meno raccontate, e dichiarazioni di molti leader “volenterosi”, di voler continuare la guerra, si fondano su un’idea di giustizia, di onore, di pensiero di Stato, per cui far tacere le armi oggi, sarebbe disonorevole. Commenti Se guerra e pace rimangono un affare interno a sodalizi di maschi alfa gianfranco pellegrino filosofo Questa visione, che potremmo definire “etica”, è adottata, ovviamente dal governo ucraino, e da osservatori esterni, non direttamente coinvolti in senso fisico nel conflitto, che ragionano in termini politici ideali, piegando le loro motivazioni anche a ragioni di carattere geopolitico. Quello che manca in questa discussione è l’altro punto di vista, quello dei cittadini ucraini. Proviamo a metterci nei loro panni: dopo tre anni di bombardamenti, dopo centinaia di migliaia di morti, forse preferirebbero davvero finalmente la pace, anche a prezzo di pagare in termini territoriali. Proviamo a metterci nei loro panni: preferiremmo davvero continuare a subire bombardamenti in nome di una sacralità territoriale oppure la fine di tutto questo e il ritorno alla normalità, anche se c’è da pagare un prezzo. Ma il prezzo da pagare c’è comunque, c’è da scegliere tra la terra e la vita. Mi rendo conto, che questo ragionamento porterebbe a legittimare ogni invasione, ma ogni guerra deve prima o poi finire con una pace e la storia ci insegna che prima questa fine arriva, meno morti ci sono. Veniamo al mondo per vivere, non per combattere, anche se a volte è necessario, ma anche il greco narrato da Primo Levi ne La tregua dice: «Guerra è sempre», non è così. Italia L’infinito duello tra bellicisti e pacifisti. Perché a sinistra è così difficile discutere Gianni Cuperlo deputato Pd La comodità di un salotto La pace si fa con il nemico, per quanto odioso questo possa essere. La si fa per evitare la distruzione totale, il protrarsi in eterno della guerra. La pace è un compromesso, certo, come ogni atto politico. È troppo facile essere integerrimi sulle spalle degli altri, proclamare diritti assoluti, che peraltro sono stati spesso traditi dagli stessi che li evocano: ci dimentichiamo facilmente delle “nostre” invasioni, così come nascondiamo sotto il tappeto quella di Gaza, da parte di un Paese nostro amico. Chiediamoci, ma soprattutto chiediamo a chi la vive sulla propria pelle, se è meglio una pace “ingiusta” o una guerra “giusta”. Piccola parentesi, nei dibattiti televisivi i pacifisti sono spesso definiti “da salotto”, come se i sostenitori della guerra fossero tutti in prima linea con l’elmetto a combattere, eppure non risulta che ci sia un George Orwell che va volontario in Spagna a combattere contro i fascisti: «per comune decenza». Inoltre, a parlare di guerra sono in genere maschi di una certa età, che in guerra non ci andrebbero in alcun caso. A proposito di punto di vista emico, chiediamo ai giovani quanto sarebbero disposti a partire per il fronte, come accadde ai loro nonni nel 1940?