25 giugno 2024

L' ILLUMINISMO DA KANT A FOUCAULT

 


CHE  COS' E'  L'ILLUMINISMO?

di Enrico Redaelli

 

Il 25 giugno di quarant’anni fa moriva Michel Foucault. Nello stesso anno, il 1984, veniva pubblicato un saggio che per certi versi può essere considerato il suo testamento: Che cos’è l’Illuminismo?. Vi ritroviamo i tre nodi attorno a cui ruota tutta la riflessione foucaultiana: sapere, potere, soggetto. L’intreccio di questi tre nodi potrebbe riassumersi così: il soggetto è dipendente da forme di sapere, che hanno su di lui effetti di potere, ed è costantemente immerso in relazioni di potere, che producono un determinato tipo di sapere. Ogni soggetto è dunque sempre invischiato in una rete di sapere-potere che ne plasma la mentalità e i comportamenti. Come allora districarsi da questa rete così diffusa, capillare, invasiva?

 

Il saggio si confronta con questa domanda – che è poi la questione foucaultiana par excellence – passando attraverso Kant. Si tratta dell’estratto di una lezione tenuta da Foucault al Collège de France nel 1983 e pubblicato per la prima volta in inglese nel 1984 col titolo What is enlightenment? Tradotto in italiano col nome Che cos’è l’Illuminismo?, il testo è stato inserito nel 1998 all’interno del volume Archivio Foucault III. Il titolo richiama con tutta evidenza il famoso articolo di Kant Risposta a una domanda: che cos’è l’illuminismo? pubblicato nel 1784. Esattamente due secoli dopo, Foucault torna su quell’articolo confrontandosi con le parole di Kant: non si limita a spiegarne il testo, ma lo reinterpreta e lo rilancia attualizzandone il contenuto. Anzi, fa qualcosa di più: eleva la Risposta di Kant al di sopra della sua storia, e dunque della sua inevitabile storicità, rendendola in qualche modo imperitura, almeno nelle intenzioni. L’operazione foucaultiana guarda infatti al presente e al futuro: tira fuori da quella storia – che è la nostra storia, la storia dell’Illuminismo e della sua battaglia di civiltà, la storia della ragione combattente e poi trionfante su ogni oscurantismo – un elemento sovrastorico, non riducibile all’età dei lumi, perché sempre replicabile in ogni contesto storico. Più che un elemento, un gesto. Foucault prende l’Illuminismo nella lettura che ne dà Kant e ne fa un gesto, mai compiuto una volta per tutte ma da compiere sempre di nuovo. È il gesto della critica. L’esercizio di un particolare habitus, quello che definiamo atteggiamento critico, che, come tale, non ha tempo, non è limitato a un contesto o a una particolare epoca storica, per quanto abbia sicuramente caratterizzato in modo particolare l’età moderna, la sua cultura, il suo Zeitgeist come si suol dire.

 

Quarant’anni dopo che ne è del gesto critico? Rileggere oggi Che cos’è l’Illuminismo? è l’occasione per riflettere sullo statuto attuale della critica. Foucault scrive infatti il suo saggio nel 1984, nel pieno di una fase storica e culturale in cui il pensiero critico sembra aver raggiunto il suo apice massimo: la seconda metà del Novecento vede non solo il trionfo ma l’intensificazione dell’atteggiamento critico in quasi tutti i campi del sapere, soprattutto del sapere umanistico, e in molti ambiti della vita consociata. Basti pensare all’approccio decostruzionista di Derrida o all’approccio genealogico dello stesso Foucault, che hanno contrassegnato un epoca, dentro e fuori l’ambito della riflessione filosofica. E a tutto ciò che ne é seguito: per fare qualche esempio, post-colonial studies, gender studies, disability studies,… Tutti ambiti di studi cui non si può negare una qualche filiazione, diretta o indiretta, coi nomi di Foucault e Derrida, tutti approcci volti a mettere in questione assunzioni dogmatiche inavvertite e presupposti a lungo dati per ovvii e pacifici che vengono ora a cadere uno dopo l’altro sotto la mannaia della critica. Il pensiero critico non ha risparmiato neppure i presupposti da cui muoveva lo stesso Illuminismo: alla fine del XX secolo l’uomo supposto universale di cui parla la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 si scopre essere nient’altro che il moderno uomo bianco occidentale maschio eterosessuale abile e cisgender. Sicché, giunto al suo apice filosofico, il gesto critico si fa talmente radicale da compiere un avvitamento virtuosistico su se stesso, torcendosi contro di sé, contro la propria stessa tradizione, contro la propria stessa istanza, intensificando alcuni esiti cui era già giunto il pensiero nietzschiano.

 

Non è un caso se il secolo successivo, quello in cui viviamo oggi, si apra con uno spirito inevitabilmente altro. Decostruito tutto, almeno sul piano della critica teorica, il pensiero occidentale ha iniziato a porsi il problema di come e cosa ricostruire. Ha ad esempio iniziato – o ripreso in modi nuovi – a chiedersi che cos’è un’istituzione, come funziona la legge, come si costruisce una comunità, guardando istituzioni, leggi e comunità non come trappole o gabbie della soggettività ma come possibili modi della sua espressione. Oppure ha iniziato – o ricominciato – a chiedersi cosa sia un sapere efficace che orienti la prassi e non si limiti a sospenderla ponendola in dubbio, guardando il sapere umanistico e scientifico non più (soltanto) come verità relativa, limitata, contingente e storicamente determinata, ma come operatività creativa in grado di generare nuovi concatenamenti, nuove aperture, nuove occasioni di vita. È come se negli ultimi vent’anni fosse cresciuto il desiderio di una pars construens che accompagni, integri o non sia del tutto assorbita dalla pars destruens.

Dunque, che ne è oggi del gesto critico? L’istanza che lo anima non é certo scomparsa, ma il suo senso e il suo ruolo risultano mutati rispetto a 40 anni fa.

 

Che cos’è l’Illuminismo?

 

Ripartiamo allora dal testo foucaultiano. E anzi, prima ancora, da quello kantiano. Qual era la risposta di Kant alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?

Nel suo articolo, il filosofo di Königsberg risponde con la celebre e meravigliosa definizione che tutti conosciamo. L’Illuminismo è l’«uscita dallo stato di minorità». È cioè il momento storico in cui l’uomo decide di non essere più minorenne, di uscire dalla condizione «infantile» in cui aveva vissuto sino ad allora. Quale sarebbe questa condizione «infantile»? È la condizione in cui l’individuo non pensa con la propria testa, ma si affida all’autorità – sia essa incarnata dal funzionario governativo, dal sapere costituito, dal prete o dal medico. Per molto tempo l’umanità ha pensato ciò che l’autorità gli diceva di pensare, come un bambino che segue il dettato dei genitori. Con l’Illuminismo, invece, l’umanità abbandona questa condizione infantile (questo «stato di minorità») e si assume la responsabilità e il compito di pensare in modo autonomo. Così infatti Kant definisce l’«uscita dallo stato di minorità»: la «capacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro».

 

L’Illuminismo, allora, non si identifica con un insieme di valori, di idee e di progetti, ma con l’uso della ragione umana. Più precisamente, con un certo modo di usare la ragione umana (diremo a breve quale). Ma ciò significa: l’Illuminismo non è un contenuto, o un insieme di contenuti, che, come tali, potrebbero anche essere storicamente determinati, relativi a una certa epoca (il XVIII secolo), quindi del tutto contingenti e transeunti. L’Illuminismo è invece uno stile del pensiero, un atteggiamento, un gesto, come dicevamo. È un habitus, un «modo di fare», che, come tale, non è limitato a quella determinata epoca in cui noi generalmente collochiamo la cultura illuministica, non è relativo a quello specifico modo di pensare, non è soltanto tipico di quei particolari intellettuali settecenteschi che noi definiamo «illuministi», ma è un atteggiamento che è e resta valido per tutta l’umanità. Perciò è qualcosa di sempre attuale, ogni volta da riattualizzare. In questo senso l’uscita dallo stato di minorità non è un avvenimento accaduto nella storia, un fatto storicamente compiuto e già concluso, ma un compito sempre a venire. Per Foucault in questo compito ne va del nostro presente e del nostro futuro.

 

Ma guardiamo più a fondo il testo di Kant: come dobbiamo intendere esattamente lo «stato di minorità»? Qui cade la prima importante osservazione di Foucault.

Kant definisce lo stato di minorità come una condizione «che l’uomo deve imputare a se stesso». Se l’umanità resta in questa condizione infantile, non è perché l’autorità glielo impone o perché qualcuno la costringe. Se insomma l’uomo si comporta come un minorenne, è per sua stessa responsabilità: egli è minorenne non per un difetto di intelligenza, ma per mancanza di decisione e di coraggio (il coraggio di pensare con la propria testa). Osserva Foucault: lo stato di minorità – così come è inteso da Kant, se leggiamo bene il suo testo – è uno stato della nostra volontà, è una condizione in cui ci troviamo per pigrizia o per viltà. Perché è facile affidarsi a una guida, delegare ad altri, lasciare all’autorità o alla tradizione la responsabilità di pensare al posto nostro.

 

Per uscire dallo stato di minorità ci vuole allora uno scatto d’orgoglio, un atto di coraggio, un sussulto della volontà. L’uscita dallo stato di minorità, scrive Foucault, è un «cambiamento che l’uomo opera su se stesso». È un lavoro che l’uomo fa su di sé. Cade qui il riferimento a un tema che Foucault ha approfondito negli anni ’80 e a cui ha dedicato diversi testi: è il tema della cura di sé, che è anche il titolo del suo ultimo libro pubblicato in vita. Che cos’è la «cura di sé»? È un lavoro attraverso cui l’individuo plasma se stesso, è una trasformazione del proprio esser soggetti. La critica al potere, la resistenza a quella rete di sapere-potere che avvolge il soggetto e lo plasma nel suo modo di agire e di pensare, passa, per il filosofo francese, attraverso un lavoro su se stessi. Se siamo sempre immersi in relazioni di potere, l’antidoto sta anzitutto in un rivolgimento del nostro atteggiamento.

Per questo motivo, nota Foucault, l’Illuminismo ha un motto, una consegna che si impartisce a se stessi, un compito che si assegna alla propria individualità e, insieme, si propone agli altri. Di che si tratta? Il celebre motto con cui Kant identifica l’Illuminismo è «sapere aude!»: abbi il coraggio di sapere. Abbi l’audacia di usare il tuo proprio intelletto.

 

Osserva quindi Foucault: l’Illuminismo è un processo di cui gli uomini fanno parte collettivamente (ne sono tutti coinvolti) e un atto di coraggio da compiere personalmente (ognuno deve farlo da sé). Omnes et singulatim, per dirla con una formula cara al filosofo francese. Il quale, con queste osservazioni, sta toccando un problema: come dobbiamo intendere il rapporto tra individuo e collettività? Ad esempio, che rapporto deve intrattenere il soggetto con l’autorità (la legge, il governo, le istituzioni)? Come dobbiamo pensare il rapporto tra etica e politica, cioè tra la dimensione individuale e quella collettiva? Troviamo una soluzione se andiamo al cuore dell’articolo di Kant. E qui inizia la lettura molto originale che ne dà Foucault.

 

Ragione e ubbidienza

 

L’Illuminismo, abbiamo detto, è l’uscita dallo stato di minorità, che coincide con l’uso della ragione. Kant arriva a definire quale sia questo uso della ragione attraverso due significative distinzioni, che Foucault ritiene di grande rilevanza.

La prima è la distinzione tra la sfera dell’ubbidienza e la sfera dell’uso della ragione, tra il momento in cui bisogna ubbidire e quello in cui si deve ragionare con la propria testa. Come si regolano queste due sfere?

Nello stato di minorità, vige solo la prima, non la seconda. Per caratterizzare lo stato di minorità, infatti, il filosofo di Königsberg cita l’espressione: «ubbidite, non ragionate». È questa, a suo parere, la forma in cui si esercitano normalmente la disciplina militare, il potere politico, l’autorità religiosa.

 

Per caratterizzare la maggiore età troviamo invece una formula differente: l’umanità diventerà maggiorenne non quando smetterà di ubbidire, o non dovrà più ubbidire, ma quando le si dirà «ragionate quanto volete, ma ubbidite». Ad esempio: pagate le tasse ma ragionate quanto volete sulla fiscalità; garantite il servizio di una parrocchia, conformemente ai principi della Chiesa, ma ragionate quanto volete sui dogmi religiosi.

A questo punto Foucault lascia cadere un’osservazione decisiva: si potrebbe pensare che qui Kant stia indicando quella che noi oggi chiameremmo «libertà di coscienza». Ossia, il diritto di pensare come si vuole a condizione che si ubbidisca come si deve. E invece no. Perché qui il filosofo tedesco, con una mossa sorprendente che spariglia le carte, introduce un’altra distinzione.

La seconda distinzione che Kant delinea è tra l’uso privato della ragione e l’uso pubblico della ragione. Ma aggiunge subito: la ragione dev’essere libera nel suo uso pubblico, ubbidiente e sottomessa nel suo uso privato. E questo, nota Foucault, è esattamente il contrario di ciò che si intende con libertà di coscienza.

 

Per libertà di coscienza, infatti, noi solitamente intendiamo: ubbidire nel pubblico ed essere liberi di pensarla diversamente nel privato. Qui invece Kant sostiene che la ragione deve essere libera nel suo uso pubblico. Ma allora che cos’è questo uso pubblico della ragione? E che cos’è l’uso privato?

Entriamo così nel cuore della questione posta dall’articolo Risposta a una domanda: Che cos’è l’illuminismo?: cosa debba intendersi con Illuminismo in quanto stile di pensiero, in quanto atteggiamento, in quanto gesto, ossia come compito sempre attuale e ogni volta da riattualizzare. Nello stesso tempo, ci inoltriamo nel pensiero di Foucault, nel modo in cui egli rilegge il testo kantiano del 1784, donandogli nuova luce e, insieme, indicando un antidoto al potere e ai suoi processi di soggettivazione.

 

Uso privato e uso pubblico della ragione

 

Dunque, l’uscita dallo stato di minorità coincide con l’uso pubblico della ragione. Per comprendere di che si tratti, iniziamo dall’uso privato. Il primo aspetto da sottolineare, per chiarire cosa debba intendersi con «uso privato della ragione», riguarda la sua sfera di applicazione: tale utilizzo della ragione non è – come magari saremmo indotti a pensare – relativo alla sfera personale. Tutt’altro. Kant scrive che l’uomo fa un uso privato della ragione quando è «un pezzo di una macchina». Ovvero: quando ha un ruolo da svolgere nella società e delle funzioni da esercitare. Ad esempio: essere soldati, essere cittadini e avere le tasse da pagare, essere un funzionario governativo, essere un medico. Si badi: in tutti questi casi si fa un uso privato della ragione. Perché privato?

Foucault lo spiega così: parliamo di uso privato «quando l’uomo è un segmento particolare della società e si trova in una posizione definita in cui deve applicare delle regole e perseguire fini particolari». La chiave di volta sta in queste ultime parole: fini particolari. L’uso della ragione è privato quando è impiegato per fini particolari, non universali (in questo senso, fini «privati» e non «pubblici», anche se si tratta del lavoro di un funzionario pubblico). Quando, cioè, l’uomo che usa la ragione lo fa limitandosi a essere il «pezzo di una macchina» (per usare l’espressione di Kant), o un «ingranaggio» (direbbe Foucault), perseguendo i fini particolari propri di quell’ingranaggio. Potremmo dire: si fa un uso privato quando si utilizza la ragione affinché «la macchina funzioni», (ad esempio, la macchina della burocrazia statale, dell’esercito, dell’ospedale, ecc.).

 

Certo, la macchina deve funzionare. Kant non sta chiedendo che, quando si svolge il proprio ruolo di soldato o di medico o di funzionario, si pratichi un’obbedienza cieca e stupida, ma che si adatti la propria ragione a quelle determinate circostanze. In queste condizioni, la ragione deve quindi sottomettersi ai fini particolari richiesti per svolgere quel compito o quel ruolo che ha una rilevanza sociale.

L’uso privato della ragione è allora ciò che i filosofi della Scuola di Francoforte, come Adorno e Horkheimer, chiamano «ragione strumentale»: quella ragione piegata a realizzare un fine specifico, determinato, particolare, quell’uso del raziocinio che ha un’utilità immediata, circoscritta, relativa.

 

«Privato» significa, in ultima analisi, «relativo»: relativo a un fine già determinato e stabilito altrove. Per certi aspetti, è ciò che Hegel – riprendendo, tra l’altro, termini kantiani, ma riconfigurandone il senso – chiama «intelletto» (Verstand) contrapponendolo alla «ragione» (Vernunft): mentre quest’ultima ha di mira una comprensione globale, filosofica, più profonda, l’intelletto si applica limitatamente a problemi particolari, come quelli delle singole scienze empiriche. L’uso privato della ragione non è altro che la razionalità formale, calcolante, algoritmica, quella che dice: «per raggiungere il risultato x, devi compiere l’operazione y». Si tratta, in ultima analisi, della mera applicazione meccanica di una regola.

Diviene allora chiaro perché Kant parli, in questo contesto, di «obbedienza»: se io devo raggiungere quel determinato fine, devo applicare quella determinata regola. Non c’è altro. In un certo senso, è la ragione di cui fa uso l’ingegnere: se vuoi che un edificio stia in piedi, devi progettarlo e costruirlo attenendoti a determinati parametri. Ci si potrebbe chiedere: perché progettare quell’edificio, a quale scopo? Ma queste sono domande che esondano dai compiti dell’ingegneria, del tutto estranee ai suoi calcoli. Le ragioni politiche per cui l’amministrazione pubblica ha deciso quella costruzione non sono di competenza dell’ingegnere, il quale deve semplicemente attenersi a quanto stabilito altrove.

 

In conclusione, se volessimo dare una definizione chiara e semplice dell’uso privato della ragione, poteremmo chiamarlo efficienza tecnica. L’uso privato della ragione è meramente questo.

Ora possiamo facilmente intendere in che cosa consista, invece, l’uso pubblico della ragione: nel ragionare al di fuori di fini particolari e prestabiliti – semmai, nel ragionare proprio sui fini: perché quel fine? Chi lo ha deciso? In base a che cosa?

 

In questo caso si tratta di ragionare non in nome di una certa competenza disciplinare, di una certa limitata sfera di verità, di una certa limitata sfera di efficacia pratica, ma in nome dell’universale. E ragionare in nome dell’universale significa ragionare in nome di tutti gli uomini: non di un uomo particolare (in quanto ingegnere, in quanto medico, in quanto esperto specializzato in questa o quella disciplina, in questa o quella mansione). Ragionare in nome dell’umanità tutta: ecco, questo è l’uso pubblico della ragione che – sostiene Kant – dev’essere libero. Chiaro, allora, perché dev’essere libero: se fosse sottomesso a fini particolari («di parte»), a scopi circostanziati e relativi, non sarebbe davvero universale come dovrebbe.

 

L’Illuminismo come gesto

 

Veniamo così alle conclusioni cui giunge Foucault. La sua tesi è che comprendiamo davvero che cos’è l’Illuminismo, così come lo intendeva Kant, attraverso questa distinzione: uso privato e uso pubblico della ragione. L’Illuminismo è anzi questa stessa distinzione. È la capacità di tener ferma questa differenza e ripristinarla ogni volta di nuovo.

Vi sono invece oscurantismo, dogmatismo e tirannide ogni qualvolta questa distinzione scompare o è appannata. Quando, cioè, si ha una sovrapposizione tra l’uso pubblico e l’uso privato della ragione, quando questi due ambiti si confondono e l’uso privato viene presentato e smerciato come uso pubblico. Con questo non si vuole indicare soltanto quella commistione di interessi privati e interessi pubblici – dove i primi vengono spacciati per i secondi – che costituisce il cuore dei tanti mali della politica (nepotismo, familiarismo, corruzione, conflitto di interessi, abuso delle pubbliche funzioni). Si tratta di qualcosa di più profondo.

 

Vi sono oscurantismo, dogmatismo, tirannide quando l’uso privato si presenta come l’unico uso possibile della ragione. Quando, cioè, la ragione strumentale diventa l’unica ragione esistente, quando l’efficienza tecnica prende il sopravvento su qualsiasi altra istanza. Potremmo anche dire: quando ciò che dovrebbe essere un mero strumento, il mezzo, diviene un fine. Oppure: quando dei fini particolari e contingenti vengono spacciati per fini universali.

Se dovessimo esemplificare, potremmo prendere in considerazione il caso storico più eclatante, nonché inquietante, in cui la ragione strumentale ha preso il sopravvento: quella macchina efficientissima, razionalissima, che, nella Germania nazista, ha condotto allo sterminio di sei milioni di ebrei. Già, perché il progetto deciso da Hitler e realizzato dall’apparato poliziesco, amministrativo e burocratico dello stato tedesco di quegli anni costituisce, nel suo complesso, una macchina estremamente efficiente. Il genocidio degli ebrei, come noto, è stato pianificato in modo freddamente e lucidamente razionale, predisponendo tutti gli ingranaggi necessari per realizzarlo (dal gerarca nazista, che prendeva decisioni e dava ordini, sino al più umile impiegato dell’amministrazione statale, che si limitava a mettere il timbro sui fogli di trasferimento degli ebrei nei campi di concentramento). Ecco, qui vediamo l’uso privato della ragione (l’efficienza del dipendente dell’amministrazione statale nell’eseguire fini particolari stabiliti altrove) spacciato per uso pubblico, sino a cancellarne ogni traccia. Quell’uso pubblico della ragione che avrebbe dovuto far sorgere, anche nel più umile degli impiegati, qualche domanda sui fini che andava perseguendo. Sappiamo come si difesero i gerarchi nazisti, coinvolti nella Shoah e accusati di crimini di guerra, durante il processo di Norimberga: «Io ho semplicemente ubbidito agli ordini». Vale a dire: ho ubbidito alle procedure, alla ragione strumentale e ai suoi fini particolari. Come se quella fosse l’unica ragione esistente, l’unico modo possibile di usarla. Si nasconde qui la «banalità del male» descritta da Hannah Arendt in pagine celebri. In queste circostanze, l’uso privato della ragione ha completamente soppiantato l’uso pubblico, ossia quel modo di pensare che ragiona in nome dell’umanità intera e non semplicemente in nome di una singola parte (la Germania, la burocrazia nazista, la supposta «razza ariana» o la disciplina e il regolamento militari). In questo caso, una verità «di parte», l’idea di un’umanità «particolare», è stata spacciata come umanità universale, anzi come l’unica umanità degna di questo nome, tanto da voler cancellare coloro che non rientravano in quella categoria.

 

Quello dell’apparato nazista è certamente l’esempio più eclatante in cui la distinzione tra uso privato e uso pubblico della ragione è stata cancellata, in cui l’efficienza tecnico-procedurale si è presentata come l’unico uso possibile della ragione. Ma ognuno di noi può confondere o sovrapporre uso pubblico e uso privato della ragione nella misura in cui si limita a eseguire meccanicamente decisioni stabilite altrove. Anche l’insegnante può cadere in questa trappola, nella misura in cui si limita a ripetere in modo automatico il programma scolastico stabilito dal Ministero, svolgendolo magari alla perfezione («alla lettera», come si suol dire), scambiando però il mezzo con il fine (la «lettera» con lo «spirito»). Anche l’insegnamento, il sapere e la cultura possono cioè scadere a uso privato della ragione (spacciato o confuso per uso pubblico), laddove essi siano intesi come mero insieme di nozioni prestabilite da inculcare meccanicamente nella testa delle persone.

 

Lo stesso può accadere alla scienza, laddove questa sia guidata unicamente dal criterio dell’efficienza tecnica, trasformando lo scienziato in un impiegato che segue specifiche procedure metodiche. Ciò accade quando lo scienziato non s’interroga più sul senso (universale, non semplicemente particolare) del suo stesso operare, diventando un esperto, specializzato nel proprio piccolo campo, ignaro di tutto il resto. Senza, cioè, una visione globale e universale del mondo, che sappia farsi carico, ad esempio, delle conseguenze morali, etiche e politiche del proprio operato. È il problema che già denunciava Edmund Husserl nella Crisi delle scienze europee.

Si potrebbero fare molti altri esempi di perdita della distinzione tra uso pubblico e uso privato della ragione. Anche il parroco può cadere nella medesima fallacia, nella misura in cui si limita a eseguire i servizi parrocchiali, ripetendo meccanicamente quanto stabilito e scritto altrove (prendendolo «alla lettera» e, di nuovo, confondendo la «lettera» con lo «spirito», il mezzo con il fine). Lo stesso può dirsi del governo, persino di quello più democratico, nella misura in cui si limita a eseguire «ricette» stabilite altrove (magari da qualche esperto di economia e mercati finanziari) confondendo l’arte politica con la tecnocrazia.

 

È chiaro che non è sempre facile tracciare una netta divisione tra uso privato e uso pubblico. Quante volte è accaduto nella storia di scambiare il particolare con l’universale, ad esempio, un tipo particolare di uomo come paradigma dell’intera umanità? E quante volte accade ancora oggi di scambiare dogmaticamente una verità relativa per una verità assoluta (quel particolare modo di essere, quel particolare modo di agire, quel particolare modo di vivere, presi come se fossero la natura umana in quanto tale, negando dignità ad altri modi di essere, di agire e di vivere)? Secondo Foucault, questa divisione non è mai tracciata una volta per tutte, non sarà mai definitiva, ma è una linea che va ritracciata ogni volta.

Proprio perciò l’Illuminismo è un compito, un gesto ogni volta da riattualizzare. Si tratta, per così dire, di quel gesto che traccia la linea, che divide e separa. Un gesto che ognuno ha il compito di ripetere sempre daccapo. Così si salvaguarda la distinzione tra uso privato e uso pubblico, tra un modo di ragionare particolare, strumentale, relativo e un modo di ragionare universale, libero da fini specifici e contingenti.

In questo senso l’Illuminismo è un ethos che coinvolge tutti gli uomini collettivamente (è un’impresa da costruire insieme) e impegna ciascuno singolarmente (è un compito cui ognuno si deve dedicare in prima persona).

 

La critica oggi

 

Ora, che significato assume per noi il testo di Foucault 40 anni dopo?

In ultima analisi, quello di Foucault, come quello di Kant, è un elogio della critica. I loro due articoli sono tra i monumenti che la civiltà occidentale ha eretto alla capacità di giudizio critico. Se guardiamo la tendenza del pensiero filosofico degli ultimi vent’anni, di primo acchito sembra che l’aria sia cambiata. Due soli esempi tra i molti. Sia Bruno Latour nel suo Essere di questa terra sia Isabelle Stengers nel suo Tempo delle catastrofi guardano con sospetto l’intellettuale che dall’alto denuncia i mali del mondo, a partire da quelli climatici, e demolisce con la clava supposte verità esaurendo il proprio compito nell’esercizio della critica. Stengers scrive che «non si tratta di contestare l’utilità della critica né la sua necessità, quanto piuttosto la sua identificazione con un rimedio, vale a dire anche la sua trasformazione in un fine in sé». A risultare oggi incomprensibile, o molto meno comprensibile di un tempo, è l’esercizio critico fine a se stesso, come se fosse staccato dall’azione e dalla passione, come se fosse privo di godimento. C’è invece troppo spesso nella critica, laddove è concepita ed esercitata in termini puramente negativi, una forma di godimento alimentata da «passioni tristi» come paura, rabbia, risentimento. Ma in che consiste la critica laddove non è intesa come un rimedio e un fine in sé?

 

Saper giudicare, prendere le distanze, «distaccarsi da se stessi» secondo un motto foucaultiano, sono tutte espressioni che indicano un determinato tipo di atteggiamento, quello critico, ma, prima ancora, un determinato tipo di collocazione. Chi critica si colloca fuori, in alto, a distanza dal mondo. Ma «fuori» dove? C’è davvero un punto che può chiamarsi fuori dal mondo? Non per Foucault, il quale ha sempre sottolineato l’immanenza delle relazioni di sapere e di potere. Non c’è movimento verso l’alto, distanziamento verticale, nella prospettiva foucaultiana, solo un movimento orizzontale, sempre aderente alla vita. Ma allora esercitare la critica significa districarsi da determinate relazioni di sapere-potere intrecciandone di nuove. Sciogliere per riannodare diversamente. Restituire i legami alla loro potenza per istituirne altri dapprima impensabili. Letta in termini positivi, quindi, la critica è questo esercizio vitale di apertura e riarticolazione: un modo con cui la vita rievoca la propria potenza. Quella potenza virtuale che non si esaurisce mai nelle sue configurazioni attuali. Che cos’è, in questa prospettiva, la distinzione tra uso pubblico e uso privato della ragione, ovvero l’Illuminismo? Creazione di nuovi concatenamenti, apertura di mondi, intensificazione delle proprie capacità. Il gesto proprio dell’Illuminismo è il gesto della vita che si fa potenza.


Articolo ripreso da  https://www.leparoleelecose.it/?p=49600


24 giugno 2024

FESTIVAL DEL TORTO ESTATE 2024. Programma

 


FREE JULIAN ASSANGE

 


A volte, molto di rado, qualche bella notizia arriva, e questa è bellissima. Ieri, 24 giugno 2024, dopo una lunga trattativa semi-segreta con l’Amministrazione USA, grazie a un patteggiamento, Julian Assange ha lasciato la cella nel carcere londinese di massima sicurezza dove è stato rinchiuso per 1901 giorni, partendo subito per la sua terra natale, l’Australia. 1901 giorni trascorsi 23 ore su 24 in completo isolamento, non dimentichiamolo. Una tortura infame.
Non c’è dubbio che alla sua liberazione ha contributo moltissimo la mobilitazione internazionale: il grido “Free Assange”, migliaia di volte ripetuto in ogni parte del mondo insomma é servito. La lotta paga! Ma chi ripagherà questo autentico “eroe del nostro tempo” dalle persecuzioni subite, dalla lontananza dalla moglie (degna compagna di Julian, la cui forza è stata straordinaria e ammirevole), dal mancato rapporto con i figli?
Per ora godiamo questo momento, nell’auspicio che Assange recuperi pienamente la sua salute fortemente compromessa dalla prigionia e possa nei tempi e modi che gli saranno consentiti ritornare al suo lavoro di importanza capitale, e che si riassume in una frase, che io sento come assolutamente gramsciana: Dire la verità. Grazie, Julian!

ANGELO D' ORSI

NON CHIEDERE NULLA ( P. D. Turoldo)

 

Paul Gauguin
Las lavanderas de Arlés (1888)


E NON CHIEDERE NULLA

Ora invece la terra
si fa sempre più orrenda:
il tempo è malato
i fanciulli non giocano più
le ragazze non hanno
più occhi
che splendono a sera.
E anche gli amori
non si cantano più,
le speranze non hanno più voce,
i morti doppiamente morti
al freddo di queste liturgie:

ognuno torna alla sua casa
sempre più solo.

Tempo è di tornare poveri
per ritrovare il sapore del pane,
per reggere alla luce del sole
per varcare sereni la notte
e cantare la sete della cerva.
E la gente, l'umile gente
abbia ancora chi l'ascolta,
e trovino udienza le preghiere.

E non chiedere nulla.

David Turoldo, “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988”

ILARIA SALIS, LA CASA E I DIRITTI

 

Ilaria Salis, la casa e i diritti




Ascanio Celestini
24 Giugno 2024

Foto di I.P. su unsplash.com

Ilaria Salis, domenica 23 giugno, ha affrontato in rete un argomento che dovremmo conoscere tutti, quello del diritto all’abitare. Con pazienza ci ha spiegato che «l’abbandono è letteralmente ovunque» e «chi entra in una casa disabitata prende senza togliere a nessuno, se non al degrado, al racket o ai palazzinari».

Non riassumo quello che ha scritto perché vale la pena leggerlo per intero. È chiaro e dettagliato:


𝗣𝗮𝗿𝗹𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝗮𝘀𝗲 𝗽𝗼𝗽𝗼𝗹𝗮𝗿𝗶, 𝗼𝗰𝗰𝘂𝗽𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶, 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗮𝗯𝗶𝘁𝗮𝘁𝗶𝘃𝗮​​​​

Come promesso, veniamo alla situazione milanese e lasciamo parlare subito alcuni dati, che sono di per sé sufficientemente eloquenti.

A Milano le case popolari sfitte sono più di 12mila, di cui oltre 5mila appartengono a ERP (gestite da MM) e più di 7mila ad ALER – in tutta la Città Metropolitana arrivano a quota 15mila. Gli alloggi non allocati di ERP rappresentano il 19,5% delle circa 27mila case popolari gestite dall’ente comunale, mentre quelli di ALER il 21,7% delle 32.022 in capo all’ente regionale (dati Confedilizia, sett. 2023). Dunque, un quinto (!) delle case popolari non è assegnato. Eppure non sono affatto poche le persone che hanno bisogno di una casa popolare, in Italia ci sono quasi un milione di persone che non riescono a pagare l’affitto. Per quanto riguarda Milano, dalla somma delle graduatorie di ALER e ERP risulta che a fine 2023 erano in lista d’attesa oltre 10mila famiglie (Sole 24 ore, giugno 2024). Di queste, sono in tante ad attendere a lungo – spesso invano – l’assegnazione, che potrebbe non arrivare mai pur soddisfacendo tutti i requisiti. Nell’ultimo triennio, di fronte a 5.894 assegnazioni di alloggi permanenti previste dalle due aziende, le abitazioni effettivamente assegnate sono state meno della metà, ovvero 2.818 (dati SICET, aprile 2024). Davvero è tutta colpa degli occupanti?

Innanzitutto, si sappia che le case occupate – circa tremila (dati Confedilizia, sett. 2023)​​​​​​​ – rappresentano solo una piccola parte delle case sfitte, un numero di gran lunga inferiore a quello di abitazioni lasciate vuote. L’abbandono è letteralmente ovunque. Tutti abbiamo gli occhi per vedere, ma non tutti hanno l’onestà intellettuale di ammettere questa verità, triste e scomoda per chi è incaricato di gestire l’edilizia pubblica.

Quando viene occupata una casa non assegnata, che generalmente si trova in condizioni fatiscenti ed è abbandonata da anni, l’accusa di sottrarre il posto a una persona in lista d’attesa semplicemente non regge. Chi entra in una casa disabitata prende senza togliere a nessuno, se non al degrado, al racket o ai palazzinari. Affermare il contrario, è bassa retorica politica volta a mettere gli uni contro gli altri, affinché nulla cambi.

Qualsiasi abitante di un quartiere popolare di Milano sa benissimo che a seguito di uno sgombero non avviene mai una riassegnazione. Le case vengono chiuse, murate e lamierate, alle volte sono anche distrutte dagli addetti agli sgomberi. Di regola, fanno il deserto e lo chiamano legalità. Dunque, incolpare gli occupanti per il dissesto dell’edilizia popolare pubblica sottolinea o la malafede di chi ben conosce il vuoto pneumatico delle politiche sull’abitare, l’incompetenza degli enti gestori e la speculazione sul mattone, o l’ignoranza abissale di chi non ha mai messo i piedi fuori dalla circonvallazione. Delle due, francamente non so quale sia peggio.

Vivere in una casa occupata non è una svolta, non è qualcosa da “furbetti”. È logorante. Ti fa vivere quotidianamente nella paura che ti vengano a svegliare e ti buttino fuori di casa, o di ritrovare tutte le tue cose sul marciapiede al ritorno dal lavoro, sempre che le ritrovi. Occupare vuol dire entrare in una casa abbandonata, murata, coi sanitari rotti e i buchi nelle pareti, lasciata al degrado anziché essere assegnata. Essere occupante vuol dire abitare questo spazio precario e faticosamente trasformarlo in un luogo che si possa chiamare casa, cercando di sistemarlo coi pochi mezzi a disposizione che si hanno.

Con l’introduzione dell’art.5 del decreto Lupi (2014), un occupante non può più avere né l’allaccio alle utenze (acqua, luce, gas), né la residenza e i diritti ad essa legati – ad es. il medico di base, l’accesso a un nido pubblico vicino a casa per i bimbi, l’iscrizione ai centri per l’impiego. Inoltre, alle persone non italiane viene così impedito di maturare i requisiti per ottenere la cittadinanza e anche il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno è ostacolato. Essere occupante è uno stigma sociale, vuol dire essere trattati come criminali per aver cercato di vivere in modo dignitoso. Mettetevelo in testa, nessun occupante vuole essere occupante.

In questo contesto di strutturale emergenza abitativa, i movimenti di lotta per la casa agiscono per aiutare il prossimo, con costanza e dedizione, senza scopo di lucro, perché il valore che li anima e guida è la solidarietà. Aiutano individui e famiglie in stato di forte bisogno e recuperano luoghi abbandonati da anni, ristrutturandoli e rivalorizzandoli. Promuovono la diffusione di una cultura della partecipazione, del rispetto e del mutuo aiuto. Sono in prima linea a scontrarsi con il racket che specula sulla povertà, così come a prendersi le denunce quando si tratta di difendersi dalla violenza degli sgomberi. Non mi stancherò mai di dirlo: tali movimenti rappresentano un baluardo di resistenza contro la barbarie della nostra società, ed è da qui che dobbiamo ripartire.

“Però occupare è illegale…”. Il concetto di legalità, nella sua versione più rozza e strumentale, diventa spesso il buco nero dove collassano i discorsi pubblici sulle grandi questioni sociali che riguardano le classi popolari e i giovani, come l’emergenza casa. D’altro canto, si sente parlare molto poco di legittimità. La legittimità riguarda la giustificazione etica, morale e politica dell’azione. Come ci insegna la Storia, non sempre le azioni legittime sono necessariamente anche legali in quel dato momento – ma in una società sana possono diventarlo successivamente. Spesso, infatti, sono proprio azioni oltre la Legge a spingere la Legge stessa a mutare, a modificarsi in meglio, prendendo in considerazione le istanze di bisogno e desiderio che vengono poste dai gruppi subalterni. Il movimento di lotta per la casa ha sempre agito con la forza della legittimità data dal semplice principio che tutte e tutti dobbiamo avere un tetto sulla testa. Questo è il nocciolo della questione, l’argomento su cui tutti siamo chiamati ad esprimerci e a decidere cosa vogliamo collettivamente.

Vi piaccia o meno, c’è chi continuerà a lottare in nome di tale principio, richiamandosi alle lotte del passato ed entrando in contatto con quelle del futuro.

[Ilaria Salis]


Mentre leggo il suo pezzo mi vengono in mente due cose

La prima: tra le notizie trovo anche gli articoli di giornali come Tempo, Libero, Giornale, … e mi rendo conto che Ilaria Salis ha scritto un pezzo più lungo e professionale di molti suoi commentatori. Ne prendo uno a caso, quello del quotidiano fondato da Montanelli e diretto da Sallusti (il regime, passato e presente). Poco più di 500 parole per commentare un post lungo il doppio. Un commento qualunquista che non prende in considerazione nemmeno uno dei dati che Ilaria usa per dare concretezza al suo discorso. I dati che, specifica subito, «sono di per sé sufficientemente eloquenti», ma evidentemente imbarazzano il giornalista che preferisce mettere sul tavolo anche il pericolo comunista in Francia. Secondo lui c’è un complotto internazionale della «sinistra estrema», un «programma che promette di spalancare le porte agli occupanti» che sdogana «gli inviti all’illegalità».

La seconda: è triste dover ricordare che, scrive Ilaria, «sono proprio azioni oltre la Legge a spingere la Legge stessa a mutare, a modificarsi in meglio». Ce lo insegnano a scuola che Rosa Parks, quando si rifiutò di lasciare il posto a un bianco, fu arrestata. La guardia ha applicato la legge, lei l’ha violata. Ma quella violazione ha contribuito a modificare in meglio la legge e la nostra vita.

Non manca, poi, la comunicazione sulla Brianza dei patrioti che non vuole la pericolosa sovversiva e va a stendere un lenzuolo con la scritta: “Monza non ti vuole”. Il Tempo cita lo striscione in un post di buoni brianzoli che solidarizzano coi loro colleghi ungheresi chiamando “manifestazioni patriottiche” quelle neonaziste, organizzano feste come “Primavera di Bellezza”, scrivono articoli “In morte di un camerata”, celebrano i loro martiri col saluto romano.

Ilaria Salis ricorda alla destra che ha un gigantesco problema con le proprie radici fasciste. Nel migliore dei casi c’è l’aspirazione alla democrazia illiberale, ma nella pancia c’è il disprezzo per i diritti e la democrazia.

Pezzo ripreso da:  https://comune-info.net/ilaria-salis-la-casa-e-i-diritti/



IMMAGINI DI HIROSHIMA E NAGASAKI

 





I partigiani della pace per non dimenticare Hiroshima


Laura Tussi e Fabrizio Cracolici
23 Giugno 2024

Parlare di pace in questo momento sembra essere diventato anacronistico. È quanto mai necessario partire dalla speranza lasciandoci alle spalle la paura. Per questo ringraziamo la campagna lanciata da Comune. Nel nostro libro I Partigiani della pace, che vorremmo dedicare a Comune, si parla di partigiani e attivisti di ieri e di oggi: non sono solo quelli che hanno imbracciato le armi, ma sono anche tutti coloro i quali rifiutano l’idea di dover imbracciare le armi, soprattutto attualmente, come risoluzione delle controversie umane piccole o grandi che siano. Le nazioni invece continuano a farsi guerra, nascondendo il più delle volte, i veri fini che sono sempre legati al dominio, agli interessi economici collegati all’industria delle armi che manovra tutto questo. Ne parlano e ne scrivono da tempo uomini come Giorgio Cremaschi, Vittorio Agnoletto, Moni Ovadia, Paolo Ferrero, Maurizio Acerbo e Alex Zanotelli nel libro I Partigiani della Pace edito da EMI (ascoltando il podcast dell’intervista di Radio Attivo Cult, si capirà che non conviene rischiare la terza guerra mondiale dopo aver vissuto i disastri di Hiroshima e Nagasaki…).

[Laura Tussi e Fabrizio Cracolici]

Tutte le adesioni alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura


L' ARTE DELLA COMUNICAZIONE IN DANILO DOLCI

 



Danilo aveva ragione a distinguere nettamente la comunicazione dalla trasmissione. 

La comunicazione non ha nulla da vedere con la trasmissione. 

La trasmissione è una operazione meccanica (vedi scuola e tv). La comunicazione è una operazione amorosa complessa in cui i soggetti che di volta in volta parlano ed ascoltano - chi ascolta veramente non è meno attivo di chi parla - si mettono in gioco seriamente. (fv)


23 giugno 2024

QUALCUNO COMINCIA A SVEGLIARSI...

Dal CORRIERE DELLA SERA di ieri


Finalmente ieri, nell'inserto culturale del principale quotidiano nazionale, si interviene contro "I  SONNAMBOLI DEL XXI SECOLO" che hanno finora chiuso gli occhi sulla reale possibilità che scoppi la terza ed ultima guerra mondiale. (fv)
 

LA FESTA DEGLI AMANTI

Emilio Greco, "Amanti"
 

Coprimi grandemente
scioglimi
e in me resta.

E poi fammi respirare
lenta chiusa
dentro la tua festa.

Patrizia Cavalli

UN MINISTRO RIDICOLO

 



"Per Sangiuliano Cristoforo Colombo oltre ad essere un grande navigatore era anche predittivo, 70 anni prima della nascita di Galileo utilizzava le sue teorie per circumnavigare la terra. Gli regalerei un bel libro di storia, ma abbiamo un ministro della Cultura che non solo non conosce la storia, ma non legge. Come dimostrato col premio Strega, dove ha votato da giurato dei libri che non ha mai letto. Ma come puó continuare a fare il ministro della Cultura? Giorgia Meloni non prova vergogna per lui?".

Così in una nota il deputato di Avs Angelo Bonelli.


Il riferimento è a quanto detto stamattina dal Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano durante un'incontro con Paolo Conti a Taobuk a Taormina, dove ha testualmente affermato che:

 ''Colombo voleva raggiungere le Indie circumnavigando la Terra sulla base delle teorie di Galileo Galilei".


Galilei però nacque a Pisa il 15 febbraio 1564 e Colombo iniziò il suo primo viaggio nell'agosto del 1492 e morì nel 1506. 

https://www.ansa.it/sito/videogallery/primopiano/2024/06/23/sangiuliano-colombo-circumnavigava-la-terra-sulla-base-delle-teorie-di-galileo


Come ha giustamente osservato una cara amica, EUGENIA PARODI GIUSINO:

'Solo uno scolaro di solida ignoranza potrebbe dire che Cristoforo Colombo voleva circumnavigare la terra 《 sulla base delle teorie di Galileo Galilei》, il quale però non era ancora nato.

Qui non si tratta di sbagliare una data ma di confondere epoche, cioè sistemi di pensiero con tanta arroganza perdipiù. Fategli ripetere l'anno scolastico.'

GOFFREDO FOFI TORNA AD OCCUPARSI DI DANILO DOLCI


 

22 giugno 2024

L' ULTIMA LETTERA DI JOSE' SARAMAGO ALLA SUA PILAR

 


"A Pilar, fino all'ultimo istante"
"A Pilar, tutti i giorni"
"A Pilar, casa mia"
"A Pilar, che non mi ha lasciato morire"
"A Pilar, come se dicesse acqua".
Per cercare il lato più umano dei nostri ammirati scrittori... Cosa c'è di meglio delle sue lettere?

LETTERA DI JOSÉ SARAMAGO ALLA SUA DONNA,
PILASTRO DEL FIUME

"Cara Pilar,
Anche se sai che sono sempre stato ateo, non ho mai rinunciato al senso filosofico della vita. Noi atei siamo le persone più tolleranti del mondo. È vero, me ne vado in qualche modo, ma non dimenticare che il viaggio non finisce mai e che anche i viaggiatori persistono nella memoria, nella narrazione. Forse sono in un momento in cui credo scioccamente di sapere qualcosa della vita.
Sono stato lontano dal potere, almeno dal potere formale, istituito. Il potere contamina tutto, è tossico. È possibile mantenere la purezza dei principi mentre sei lontano da esso; ma ho sempre creduto che dobbiamo raggiungerlo per mettere in pratica le nostre convinzioni; per questo il mio spazio di resistenza sono i miei testi, le mie storie; questa cofradia di persone, epoche, contesti, invenzioni che mi hanno accompagnato.
(…)
Ho messo in discussione molte volte la mia difesa di questo mondo, e degli uomini che lo abitano, ma come non dubitare di un mondo che può mandare macchine su Marte e non fa nulla per fermare l'omicidio di un essere umano. Tu meglio di chiunque altro sai che non ho mai sentito il bisogno di un trionfo, di avere una carriera o di essere riconosciuto. Allo stesso modo, ho imparato a non cercare di convincere. Il lavoro di convincere è mancanza di rispetto, è un tentativo di colonizzazione dell'altro. Credo di aver cercato solo di capire e spiegare questo mondo.
(…)
Ma a quest'ora queste cose sono solo nomenclature che vanno e vengono. Alla fine, siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Ti ringrazio per questi anni anche se sono convinto che il nome sostituisca ciò che siamo: non sappiamo nulla l'uno dell'altro.
La memoria è selettiva e tende a cancellare le parti dure, sta mettendo insieme un ricordo basato solo sulle cose più dolci... Ma bisogna cercare di essere onesti. Fingiamo di comprendere la vita attraverso le sue coerenze e identità, quando certamente queste si spiegano da sole e non ci portano nulla. Dovremmo cercare la comprensione dalle sue contraddizioni. E alla fine abbiamo scoperto che l'unica condizione per vivere è morire. A volte le vite lunghe significano solitudine... Ti chiedo solo di spargere le mie ceneri ai piedi di un ulivo, ce n'è uno della mia infanzia che ricordo particolarmente. Tengo questo bambino così presente come se fosse là fuori, portato da lui per mano.
Il tuo José de Sousa"
****
José Saramago è morto a 87 anni nel giugno 2010. 10 anni fa oggi.
Nel 2013, la sua compagna Pilar ha trovato dentro un vecchio orologio da parete una lettera indirizzata a lei. La ricercatrice Maria da Piedade ha dichiarato in alcune dichiarazioni che il pezzo faceva parte dell'arredamento della casa dove ha vissuto con i suoi genitori durante la sua infanzia. Diversi esperti dell'opera di Saramago attestano l'autenticità di questa lettera.
Gli orologi avevano un significato speciale per la coppia.
Parte delle sue ceneri rimase nel giardino della sua casa per continuare con la sua amata: «Così quando ti ricordi di me metti un fiore sulla pietra affinché io pensi che sono ancora ricordato».
E ogni giorno lo è. La sua eredità, quella lasciata da un uomo estremamente impegnato al mondo, alla letteratura e alla vita, è ancora viva e in crescita.