“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
26 maggio 2025
L' ANNIENTAMENTO DELLA PAROLA
L’ ANNIENTAMENTO DELLA PAROLA
Pensiamo al potente discorso con cui si apre il Vangelo secondo Giovanni: “Nel principio era la Parola (il Logos) e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio”. Che cosa potremmo dire noi oggi: “Alla fine ci fu la parola e la parola era Nulla, e la parola cadeva nel Nulla”. Terribile segno dei tempi. La parola pronunciata dai grandi della Terra ha perso valore. Il presidente Trump ha sortito affermazioni che si è poi rimangiato un gran numero di volte. E così l’autocrate Putin. La parola dei nostri politici italiani non sembra avere un particolare peso, se è vero che viene rilanciata all’infinito dai mezzi di comunicazione e non produce nessun effetto. La partecipazione al voto continua a calare nell’indifferenza generale. Marek Halter ha appena fatto notare l’assenza di grandi voci autorevoli tra gli intellettuali dei nostri giorni. Ha nominato Albert Camus e Primo Levi. Grandi figure del passato. Di un passato recente, ma pur sempre passato.
Come si esce da questo tunnel del discorso che si converte in rumore e assenza di significato? Qualcuno forse in un futuro non troppo lontano prenderà il posto delle attuali comparse sulla scena del mondo. E tuttavia sarebbe ingiusto credere che siamo condannati a una solitudine impotente. Intanto c’è la parola quotidiana, che non ha perso significato. “Buongiorno” vuole ancora dire buongiorno sulla bocca di molti tra noi comuni mortali. E poi si tratta di tendere l’orecchio e di aprire gli occhi.
Tendere l’orecchio. Altri messaggi continuano ad essere trasmessi nella valanga delle informazioni comunicate al pubblico. Il nuovo papa, per esempio, sembra pesare le parole e rimette in circuito nozioni preziose, la speranza, la fraternità, lo spirito. La Cina non è più quella luce che veniva dall’Oriente e indicava la strada del futuro a una umanità smarrita. Si esprime in un linguaggio sommesso, niente tigre di carta, come usava il Grande Timoniere, ma riesce ad allineare considerazioni di buon senso, lasciando trasparire soprattutto una grande calma, virtù rara in questi tempi di furori recitati e poco convinti.
Aprire gli occhi. La nostra è una civiltà dell’immagine, si dice. Trump e Putin e Netanyahu, le star mediatiche del momento non hanno parole per esprimere l’orrore che si consuma a Gaza, giorno dopo giorno. Eppure, basta accendere il televisore o aprire il computer, o il telefonino. Lo scandalo del martirio inflitto ai civili sulle sponde del Mediterraneo in un angolo della terra contesa tra israeliani e palestinesi si ripropone di continuo. La ressa degli affamati. Il paesaggio devastato. Le rovine a cielo aperto. La vergogna delle armi dispiegate per il contrasto ai civili inermi. Altro che pace disarmata e disarmante, come ha detto Leone XIV inaugurando la sua prelatura. Guerra armata e disperante. Guerra che uccide la speranza in un futuro umano. Guerra che prelude a un futuro di immemore sopraffazione. Il resort, la costa azzurra del Medio Oriente. Anche questo è stato detto dal principale attore della attuale tragedia. L’angelo della storia in Klee procedeva con le spalle volte al futuro e contemplava una sorta di inferno sulla terra. Walter Benjamin che amava quella immagine aveva un legame certo con la tradizione ebraica e con il misticismo da essa veicolato. Per una volta, sarebbe invece giusto voltare le spalle alla tradizione per affermare che solo il ritorno del Logos, della parola vera, può aprire le porte del futuro a una umanità decisa a vivere in pace. Lo Spirito positivo del mondo non chiede altro. Ognuno faccia la propria parte. Là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva, secondo la Parola e l’auspicio sacrosanto del poeta.
20 maggio 2025
IL PASOLINI DI P. DESOGUS
[E’ da poco uscito per La Nave di Teseo In difesa dell’umano. Pasolini tra passione e ideologia, di Paolo Desogus. Ne pubblichiamo la premessa].
PAOLO DESOGUS
Una premessa per il presente
Ogni passato […] può ottenere un grado di attualità più alto che al momento della sua esistenza. La sua configurazione in quanto superiore attualità spetta all’immagine in cui la comprensione lo riconosce e lo colloca. E questa compenetrazione dialettica e presentificazione di circostanze che appartengono al passato è la prova di verità dell’agire presente. Ovvero: essa accende la miccia del materiale esplosivo riposto nel ciò che è stato.
W. Benjamin, I “passages” di Parigi
Le pagine che seguono raccolgono e rielaborano il mio lavoro di ricerca sull’opera di Pier Paolo Pasolini e più precisamente sul tema della contraddizione, qui analizzato attraverso le sue diverse declinazioni e alla luce di quel processo di trasformazione culturale, sociale ed economico, ancora oggi in corso, chiamato negli Scritti corsari “mutazione antropologica”. Con questo libro vorrei infatti offrire al lettore un’indagine approfondita del corpus pasoliniano, mantenendo vivo il dialogo con il presente con l’obiettivo di restituire ai suoi testi e ai vari concetti chiave che vi compaiono quella “superiore attualità” necessaria per interpretare e agire sul nostro tempo. Soprattutto la contraddizione – tra “passione e ideologia”, “con te e contro te” –, coltivata sin dagli anni friulani e poi riproposta in modi diversi nelle opere più mature, mi pare aiuti a ritrovare nel lavoro poetico la sua facoltà di comprensione del mondo e quindi a recuperare quel legame tra ricerca espressiva e dimensione politica che ha permesso a Pasolini di interrogare l’umano, le sue forme simboliche e il suo rapporto con la storia.
La premessa che ha guidato questo studio è che tra attività artistica e vita sociale vi è sempre un nesso che l’indagine critica deve sforzarsi di spiegare per evitare che l’espressione poetica, per dirla con Fortini, si degradi ad “aroma spirituale” o a “ipocrita ‘cuore di un mondo senza cuore’”, se non a vero e proprio “vino di servi”[1]. Tale legame è cruciale in Pasolini. Nella sua opera anche la più banale effrazione metrica, anche il più semplice innesto dialettale o la più elementare inquadratura svolge una funzione politica. E questo non perché sia convinto che le scelte stilistiche abbiano il potere di modificare la realtà, ma perché, nella sua ottica, ogni decisione rimanda ai modi in cui la coscienza poetica vive la propria contraddizione col mondo e dunque reagisce al suo contesto nel tentativo di comprenderlo e di verificare le condizioni di possibilità della sua trasformazione.
La politicità di Pasolini, dunque, non risiede solo nelle prese di posizione e negli espliciti riferimenti alle questioni sociali. Né mi pare possa essere risolta ricorrendo alle etichette che si è dato, come ad esempio quella di intellettuale marxista. Tutti questi elementi hanno la loro grande importanza (non si può infatti pensare a Pasolini senza gli Scritti corsari e le Lettere luterane, né gli si può negare l’appartenenza al campo marxista), ma possono essere pienamente compresi solo nel quadro della lotta per l’espressività che ha combattuto sin dagli anni casarsesi. Le arti e in particolare la letteratura sono state per Pasolini il luogo di analisi critica delle forme di oppressione e di studio delle relazioni tra il singolo, il suo bios, la collettività e i processi materiali. La stessa “mutazione antropologica”, elaborata negli ultimi anni corsari e maggiormente prossima al tema dell’umano, ha le sue radici nell’impossibilità che Pasolini vive in quanto autore via via deprivato della materia espressiva dei dialetti, così come dei visi e dei gesti di quel corpo popolare raffigurato in molte sue opere. La manipolazione che dagli anni sessanta il mercato estende a ogni fascia sociale, incluso il sottoproletariato urbano raccontato nei romanzi romani e l’universo contadino delle poesie giovanili, toglie a Pasolini un aggancio al mondo, segna sia l’erosione della sua poetica che la perdita di realtà, cioè il progressivo smarrimento di quei dati estetici concreti che consentivano il confronto con il mondo esterno, con ciò che resiste alle convenzioni e alle forme di assoggettamento.
La contraddizione, e negli ultimi anni la difesa della contraddizione dalle mutazioni che promettono di sollevare l’umano dalla sua finitudine, dalla sua costitutiva incompletezza, è confluita nella riflessione politica e ha trovato un fortunato sviluppo nella critica alla società dei consumi che si è affermata in Italia negli anni del miracolo economico. Nella promessa di benessere per mezzo delle merci Pasolini vede infatti non l’esito di un nuovo progresso, ma il compimento di una forma di alienazione capace di degradare l’individuo, di schiavizzarlo e di farne lo strumento di uno sfruttamento inedito, che attinge non più solo dal lavoro, come negli operai di Marx, o dal radicamento egemonico, come ha poi mostrato Gramsci, ma anche dalla sua più profonda intimità, ovvero dal suo desiderio, dall’“amor che move”2 che dà slancio alla vita, sostanzia i legami sociali e dà impulso alla costruzione delle forme simboliche.
Come si osserva soprattutto nell’ultimo Pasolini, il falso progresso denunciato già dalla fine degli anni cinquanta si serve di questa forza vitale per estendere il progetto di sfruttamento capitalistico. Trasforma la contraddizione in omologazione, il desiderio di vita in desiderio di merce, l’eros in prestazione, le relazioni sociali in sfruttamento del prossimo, le comunità in campo di competizione e di autoaffermazione egoistica. Lo stesso “amor che move” dantesco[2] volge in agency priva di respiro comunitario, di apertura all’alterità e di riconoscimento della propria condizione esistenziale e politica in quella del prossimo. Il falso progresso neocapitalistico e le più recenti varianti neoliberali costituiscono in questo senso il punto più avanzato di mutazione. Esso si propone di sostituire l’umanesimo con la tecnica, l’arte con l’intrattenimento, l’amicizia con la competizione, la politica con il management, la democrazia con la governance, l’universale con il culto del frammento. La sua promessa è quella di saturare il desiderio, di eliminare il senso di contingenza, di incompletezza dell’umano, mediante l’illusione della crescita verticale dell’io, del godimento materiale illimitato e della rimozione di tutto ciò che si pone di fronte all’individuo come un ostacolo. La stessa esperienza della morte, come si rileva ancor più negli ultimi anni, è occultata da un vitalismo edonistico che nega ogni vincolo materiale, rimuove le fragilità del corpo, nasconde ogni traccia che rimandi alla precarietà ontologica del singolo e spinge alla performance continua. L’idea di limite è espulsa dal pensabile, sostituita dalla venerazione del consumo per il quale l’invecchiamento e la fine biologica dell’esistenza sono anomalie da correggere.
Considerata l’eccezionale trasformazione prodotta dal capitalismo nell’ultimo mezzo secolo e i tanti anni trascorsi dalla scomparsa di Pasolini è lecito chiedersi quanto siano attuali le sue riflessioni sulla mutazione antropologica e soprattutto se la sua critica al consumismo non sia in fondo il frutto dei timori personali di un autore essenzialmente antimoderno e nostalgico, che ha denunciato un avanzamento giunto a compiersi, su cui dunque occorre interrogarsi senza rimpiangere il vecchio umanesimo e le sue “lucciole”, legate invece a un mondo storico ancora prossimo a una natura oggi del tutto dominata. Questa estraneità al presente parrebbe del resto motivata dalle recenti acquisizioni tecnologiche, che hanno determinato nuovi rapporti di produzione dallo scrittore friulano intravisti solo nel loro primissimo bagliore, senza dunque avere reale esperienza dei loro effetti sull’umano e sulle sue forme simboliche.
La tesi di questo libro è che il valore e la “superiore attualità” di molte sue considerazioni sono in realtà dovuti all’esperienza di conflitto maturata con il proprio tempo, lungo un percorso ricchissimo di cambiamenti, dall’avvento alla caduta del fascismo, dalla lotta di Liberazione e dalla rinascita del movimento operaio alla fine delle speranze di rivoluzione, dal sorgere del miracolo economico all’affermazione della nuova civiltà dei consumi che ha modificato la percezione dell’essere umano sul mondo e su se stesso. In Pasolini queste diverse fasi storiche convivono nelle sue narrazioni, nelle sue scelte stilistiche. Si sviluppano attraverso il corpo a corpo con il suo tempo. E hanno dato forma al suo alfabeto politico, interagendo in modo fecondo con la sua poetica della contraddizione. Come infatti si riscontra in molti momenti della sua opera, arcaicità e modernità, sopravvivenza del passato e civiltà dei consumi si intrecciano, sono l’espressione di continue sovrapposizioni, di scambi conflittuali che mimano i contrasti tra essere e divenire, tra la creaturalità dell’umano e il pericolo della sua mercificazione.
Quello che consente di tenere aperto il dialogo tra Pasolini e il presente sta allora proprio nella sua idea di contraddizione, da lui coltivata attraverso un itinerario poetico e intellettuale strettamente intrecciato al percorso della grande tradizione umanistica italiana ed europea, quella di Dante, Leopardi, Gramsci e de Martino, con aperture a Dostoevskij, a Proust e, negli ultimi, anni alle esperienze politico-filosofiche di Marcuse e di Horkheimer e Adorno, da cui ha tratto linfa la sua ragione impura per pensare l’umano fuori dalle concezioni aprioristiche della storia e della società.
Questo cammino inizia a Casarsa, in Friuli, dove Pasolini compie le prime sperimentazioni letterarie, scopre la propria omosessualità e vive quella cruciale scissione tra sé e l’altro da sé, che nel passaggio a Roma diviene desiderio di desiderio, abbraccio collettivo, ricerca del proprio io nell’altro. Dopo Casarsa e Roma, negli anni sessanta, l’umanesimo di Pasolini trova i propri riferimenti oltre i confini nazionali. Soprattutto quando la sfida poetica e intellettuale si misura con la fine delle aspirazioni rivoluzionarie il suo sguardo matura e assume una consistenza intellettuale nuova, che gli consente di rinnovare la critica alla ragione neocapitalistica e di analizzare la sua capacità di fondare il proprio dominio non più solo per mezzo della forza, ma sulla spinta di una capacità egemonica inedita che crea consenso, costruisce un nuovo immaginario e allo stesso tempo si impossessa dei corpi per integrare il loro slancio di desiderio nella logica del consumo.
Pasolini non ha conosciuto lo sviluppo economico, industriale e tecnologico di cui oggi siamo testimoni e questo libro non ha certo la pretesa di farne un profeta moralisticamente ostile. Quello che consegno con queste pagine mi auguro possa però servire a comprendere il nostro tempo dall’ottica umanistica di Pasolini. Resto infatti persuaso che la sua vicenda poetica e intellettuale consenta di ripercorrere criticamente la traiettoria delle “magnifiche sorti progressive” che collegano il passato al presente e che nel tratto che ora attraversiamo aspirano apertamente alla possibilità del superamento dell’umano per mezzo di dispositivi che allargano la percezione, distaccano sempre più dalla datità vitale e promettono di liberarlo dai suoi limiti esistenziali per farne un soggetto dotato di illusorie facoltà autopoietiche, dunque apparentemente capace di autodeterminarsi, di diventare imprenditore e legislatore di se stesso al di fuori di qualsiasi “social catena”, sciolto dai vincoli con il prossimo e da ogni ideale comunitario. Tale prospettiva minaccia di alienare ulteriormente ogni slancio, ogni desiderio: non più desiderio di desiderio, sforzo collettivo per resistere alla finitudine o “amor che move”, ma brama di merce che dà compimento alla colonizzazione dell’umano, all’estremo superamento della contraddizione tra io e mondo mediante l’alienazione e lo sfruttamento. È questo l’esito transumanista, l’ultima variante della mutazione antropologica che spoglia il singolo di ogni legame sociale, di ogni progetto comunitario, e che aspira ad amministrare la vita secondo le regole del consumo, con l’obiettivo di trasformare il desiderio in un moltiplicatore di potenza del capitale.
Note
[1] F. Fortini, Metrica e biografia, «Quaderni piacentini», n.s. 2, XX, 1981, p. 106.
[2] La citazione riprende naturalmente un verso di Dante, ma si riferisce anche al bel titolo del volume di M. Gragnolati, Amor che move. Linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante, il Saggiatore, Milano 2013.
17 maggio 2025
LA RIBELLIONE DELLE MASSE
José Ortega y Gasset
La ribellione delle masse (1930)
traduttori Salvatore Battaglia, Cesare Greppi
... la vita è anzitutto un caos in cui uno si smarrisce. L'uomo ne ha il sospetto: ma l'atterrisce l'idea di trovarsi faccia a faccia con questa terribile realtà, e si sforza di nasconderla con un telone fantasmagorico, dove tutto risulta molto chiaro. Non lo preoccupa il fatto che le sue «idee» non sono veridiche: egli le impiega come trincee per difendersi dalla sua vita, come spauracchi per allontanare la realtà. L'uomo di intelletto lucido è colui che si [libera] di queste «idee» fantasmagoriche e guarda in faccia alla vita; e si rende conto che tutto in lei è problematico, e si sente smarrito. E poiché questa è la pura verità - cioè che vivere è sentirsi smarrito - chi l'accetta ha già cominciato a ritrovarsi, ha già incominciato a scoprire la sua autentica realtà, è già su un piano stabile. Istintivamente, come il naufrago, cercherà qualcosa a cui aggrapparsi, e questo tragico sguardo perentorio, assolutamente verace perché tenta di salvarsi, gli farà dare un ordine al caos della sua vita. Queste sono le uniche idee veridiche: le idee dei naufraghi. Il resto è retorica, posa, farsa intima. Chi non si sente veramente smarrito, si perde inesorabilmente; cioè non si trova più, non s'incontra mai con la propria realtà. Questo è vero in tutte le sfere dell'umano, anche nella scienza, nonostante che la scienza sia per se stessa una fuga dalla vita (la maggior parte degli uomini di scienza si sono dedicati a lei per il terrore d'affrontare la propria vita, non sono intelletti chiari; e da qui la loro risaputa timidezza dinanzi a qualsiasi situazione concreta). Le nostre idee scientifiche valgono nella misura con cui ci siamo sentiti smarriti in presenza d'un problema, nella misura con cui ne abbiamo intuito il carattere problematico e abbiamo compreso che non possiamo sostenerci su idee ricevute, su formule, ricette, lemmi, parole. Colui che scopre una nuova verità scientifica ha dovuto prima triturare quasi tutto ciò che aveva appreso, e giunge a questa nuova verità con le mani insanguinate per aver strozzato innumerevoli luoghi comuni.
GAZA, UNA RIFLESSIONE SUL LINGUAGGIO
Il genocidio e l’archivio coloniale che si riapre
Iain Chambers, il manifesto, 16 maggio
Nessuno possiede una lingua. Insistere su questa banale constatazione, quando gli altri mezzi della sfera pubblica sono sempre più soggetti a censura, non significa semplicemente mantenere un distacco critico.
Se, come ha insistito Hannah Arendt, ciò che rimane è il linguaggio, allora questa affermazione propone anche l’inizio di un processo per ribaltare il suo controllo da parte della retorica mortale che attualmente cerca di esercitarlo. Il paradosso del controllo del linguaggio a sostegno dell’oscenità omicida che si sta verificando a Gaza, ovvero il diritto di Israele a difendersi da chi sta opprimendo e massacrando, ha portato a sganciare il concetto di genocidio da una definizione esclusivamente etnica e religiosa legata all’esperienza ebraica moderna.
Inizialmente, nei giorni e nelle settimane successive al 7 ottobre 2023, persino i commentatori di sinistra hanno mostrato cautela nell’applicare il termine “genocidio” ai crescenti massacri e alle uccisioni indiscriminate di civili nella Striscia di Gaza. Tuttavia, con il passare del tempo, le prove sono aumentate e sono state trasmesse in diretta streaming, oltre a essere confermate dalle dichiarazioni del governo israeliano che non lasciavano dubbi: tutti i palestinesi dovevano essere considerati animali, terroristi e combattenti da eliminare. Che il massacro abbia inizio. E continua.
Alcune testate internazionali come The Economist e The Financial Times hanno incominciato a criticare la brutalità della politica israeliana, e l’ex Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, ha sostenuto che si tratta effettivamente di genocidio. Ultimamente il termine è comparso di sfuggita persino sul Corriere della Sera. Forse si inizia ad alzarsi un altro vento.
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Una società dispersa e fatta a pezzi: la Nakba è quotidiana
Se le accuse di antisemitismo sono diventate sempre più insensate nella loro applicazione indiscriminata a qualsiasi critica, perfino quando proviene da ebrei dissidenti, a Israele, al sionismo e alla sua arroganza coloniale di fondo, anche la controversia sull’applicazione del termine “genocidio” ha riaperto brutalmente un archivio coloniale e la sua centralità nella costruzione della modernità occidentale.
Nel 1905, Sir Roger Casement, successivamente giustiziato da Londra per le sue attività di repubblicano irlandese, scrisse un rapporto ufficiale per il governo britannico sugli abusi dei diritti umani della popolazione indigena del Congo belga. Documentò la schiavitù, le mutilazioni, le torture, gli omicidi e il regno del terrore organizzato per l’estrazione di caucciù e avorio nel feudo privato del re Leopoldo. Lì incontrò Joseph Conrad, il futuro autore di Cuore di tenebra. In seguito, condusse spedizioni di ricerca su abusi simili contro i Putumayo da parte degli imperi del caucciù in Amazzonia. In Inghilterra, i suoi resoconti provocarono l’indignazione dell’opinione pubblica e l’avvio di procedimenti giudiziari. Se in Amazzonia i morti e i massacri furono migliaia, in Congo le vittime furono molte di più, forse fino a dieci milioni. Nel 1915, lo storico britannico Arnold Toynbee preparò rapporti dettagliati per il Ministero degli Esteri britannico su quello che descrisse come lo sterminio degli armeni sotto gli Ottomani in Anatolia e nelle marce della morte nel deserto della Siria.
Il termine “genocidio” fu coniato all’inizio degli anni Quaranta dell’ultimo secolo dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin, che riconobbe l’eliminazione degli armeni come un caso di genocidio. Egli utilizzò il concetto per descrivere la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico attraverso l’eliminazione della sua vita politica, sociale, culturale e religiosa. Il termine fu adottato come base della Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite nel 1948. Il documento finale fu modificato e diluito dai vincitori della Seconda guerra mondiale per proteggere le proprie storie e i propri interessi. In effetti, lo stesso Lemkin considerava il documento approvato un fallimento.
Elaborato come risposta immediata alla persecuzione degli ebrei europei e alla Shoah, Lemkin non escluse esplicitamente altre atrocità storiche né esitò ad applicare il concetto retrospettivamente. Egli considerava il genocidio una costante della storia umana e, nel periodo moderno, profondamente legato al colonialismo e all’imperialismo. Se per gran parte del mondo la modernità occidentale ha significato semplicemente colonialismo, nel corso della sua storia ha anche rappresentato un incontro persistente con intenti genocidi. Il salto temporale tra lo slogan «L’unico indiano buono è quello morto», pronunciato dai cowboy in un saloon, e «L’unico arabo buono è quello morto», scritto oggi lungo la strada in Israele, tradisce una coerenza mortale.
Ci troviamo quindi a convivere con il termine “genocidio”. Non, proprio come il colonialismo, semplicemente una cosa del passato, specifica di un tempo e di un luogo, o ristretto alla storia di un popolo. Indica strutture più profonde di potere, oppressione e brutalità che continuano a modellare le nostre vite. In questo caso, la semantica viene sottratta alla purezza teocratica e ideologica e ai guardiani di ogni singolo racconto del tempo. La lingua tradisce sempre un eccesso ineluttabile che rifiuta di essere intrappolato nei confini di un ordine imposto. Se alla fine è il linguaggio a rimanere, esso sostiene sempre un ritorno che interroga il presente proprio con ciò che cerca di negare.
16 maggio 2025
GUERRE ED EMIGRAZIONE SECONDO PAPA FRANCESCO
Sto leggendo l'autobiografia di Papa Francesco e fin dalle sue prime pagine si comprende che questo libro aiuta a comprendere il suo pensiero meglio delle sue Encicliche e dei suoi discorsi ex cathedra. Francesco è un uomo che ha vissuto e il suo pensiero è radicato nelle sue esperienze di vita. Ad esempio, l'esperienza dell'emigrazione dei suoi genitori e dei suoi avi l'hanno segnato profondamente. Anche per questo ha voluto iniziare il suo Pontificato nell'isola di Lampedusa, prima meta d'approdo di tanti disperati odierni: " simbolo delle contraddizioni e della tragedia delle migrazioni e il cimitero marino di troppe, tropppe morti" (p. 22).
Francesco ricorda che i suoi genitori emigrarono dopo la prima guerra mondiale. Da questa "inutile strage" un suo nonno si salvò miracolosamente. E dai racconti di suo nonno ha cominciato a capire cosa è realmente una guerra: "Emigrazione e guerra sono due facce di una sola medaglia. [...] la più grande fabbrica di migranti è la guerra" (p. 24). Successivamente, attraverso la lettura di B. Brecht (ivi p.46) e di don Lorenzo Milani (p.33), ha scoperto il carattere classista di tutte le guerre. Anche per questo Francesco non si è mai limitato a fare generici discorsi per la pace ma ha sempre denunciato con forza "i pianificatori del terrore, gli organizzatori dello scontro, gli imprenditori delle armi" (p. 41).
Anche per questo appare falso ed ipocrita l'omaggio che tutti i Governanti del mondo - oggi impegnati in una folle corsa al riarmo - hanno reso alla salma di Francesco. (fv)
ARMIAMOCI E PARTITE 2
Armiamoci e partite, se i fautori della guerra son tutti maschi e anziani
Marco Aime, Domani, 16 maggio 2025
La distinzione antropologica sui punti di vista etico e emico può aiutare nella discussione sulla guerra in Ucraina, per contestualizzare il punto di vista dei “volonterosi” e quello degli ucraini. A proposito, a parlare di guerra sono in genere maschi di una certa età, che in guerra non ci andrebbero in alcun caso. L’altro punto di vista sarebbe quello dei giovani
In antropologia, nello studiare gli aspetti culturali di una società, si utilizzano due punti di vista: etico ed emico. Sgombriamo subito il campo da equivoci: etico non ha nulla a che vedere con la morale, semplicemente rappresenta il punto di vista dell’osservatore esterno, mentre emico è quello del “nativo” interno alla comunità. Per fare un esempio, da un punto di vista etico si può spiegare il tabù della carne suina per ebrei e islamici in termini storici ed ecologici, ma se si chiede a un ebreo e a un islamico perché non mangiano maiale risponderanno perché c’è scritto sulla Bibbia o sul Corano.
Proviamo ad applicare lo stesso metodo alla situazione attuale tra Russia e Ucraina. Premesso che l’invasione russa è un atto criminale, sebbene contestualizzata in una ragnatela di azioni precedenti e meno raccontate, e dichiarazioni di molti leader “volenterosi”, di voler continuare la guerra, si fondano su un’idea di giustizia, di onore, di pensiero di Stato, per cui far tacere le armi oggi, sarebbe disonorevole.
Commenti
Se guerra e pace rimangono un affare interno a sodalizi di maschi alfa
gianfranco pellegrino
filosofo
Questa visione, che potremmo definire “etica”, è adottata, ovviamente dal governo ucraino, e da osservatori esterni, non direttamente coinvolti in senso fisico nel conflitto, che ragionano in termini politici ideali, piegando le loro motivazioni anche a ragioni di carattere geopolitico. Quello che manca in questa discussione è l’altro punto di vista, quello dei cittadini ucraini. Proviamo a metterci nei loro panni: dopo tre anni di bombardamenti, dopo centinaia di migliaia di morti, forse preferirebbero davvero finalmente la pace, anche a prezzo di pagare in termini territoriali.
Proviamo a metterci nei loro panni: preferiremmo davvero continuare a subire bombardamenti in nome di una sacralità territoriale oppure la fine di tutto questo e il ritorno alla normalità, anche se c’è da pagare un prezzo. Ma il prezzo da pagare c’è comunque, c’è da scegliere tra la terra e la vita. Mi rendo conto, che questo ragionamento porterebbe a legittimare ogni invasione, ma ogni guerra deve prima o poi finire con una pace e la storia ci insegna che prima questa fine arriva, meno morti ci sono. Veniamo al mondo per vivere, non per combattere, anche se a volte è necessario, ma anche il greco narrato da Primo Levi ne La tregua dice: «Guerra è sempre», non è così.
Italia
L’infinito duello tra bellicisti e pacifisti. Perché a sinistra è così difficile discutere
Gianni Cuperlo
deputato Pd
La comodità di un salotto
La pace si fa con il nemico, per quanto odioso questo possa essere. La si fa per evitare la distruzione totale, il protrarsi in eterno della guerra. La pace è un compromesso, certo, come ogni atto politico. È troppo facile essere integerrimi sulle spalle degli altri, proclamare diritti assoluti, che peraltro sono stati spesso traditi dagli stessi che li evocano: ci dimentichiamo facilmente delle “nostre” invasioni, così come nascondiamo sotto il tappeto quella di Gaza, da parte di un Paese nostro amico.
Chiediamoci, ma soprattutto chiediamo a chi la vive sulla propria pelle, se è meglio una pace “ingiusta” o una guerra “giusta”.
Piccola parentesi, nei dibattiti televisivi i pacifisti sono spesso definiti “da salotto”, come se i sostenitori della guerra fossero tutti in prima linea con l’elmetto a combattere, eppure non risulta che ci sia un George Orwell che va volontario in Spagna a combattere contro i fascisti: «per comune decenza». Inoltre, a parlare di guerra sono in genere maschi di una certa età, che in guerra non ci andrebbero in alcun caso. A proposito di punto di vista emico, chiediamo ai giovani quanto sarebbero disposti a partire per il fronte, come accadde ai loro nonni nel 1940?
15 maggio 2025
13 maggio 2025
SUCCESSO DI SIGFRIDO RANUCCI A MARINEO
IL MODELLO DI TRASMISSIONE TELEVISIVA - che è cosa assai diversa dalla COMUNICAZIONE! - CONTINUA AD AVERE LA MEGLIO SU TUTTO...CON BUONA PACE DI PASOLINI E DANILO DOLCI. (fv)
E' MORTO PEPE MUJICA
È morto Pepe Mujica, grande politico, grande uomo.
Uno che ha sempre creduto che «la politica è la lotta per la felicità di tutti», e così l'ha praticata, per tutta la vita.
José “Pepe” Mujica Cordano, ex presidente dell’Uruguay, è scomparso oggi all’età di 89 anni, lasciando un’impronta indelebile nella storia politica mondiale. Figura emblematica di coerenza, umanità e sobrietà, Mujica ha incarnato una leadership etica e autentica, opponendosi al capitalismo e al consumismo e promuovendo una vita semplice e significativa. Durante il suo mandato (2010–2015), ha guidato riforme progressiste come la legalizzazione del matrimonio egualitario, dell’aborto e della cannabis, diventando un simbolo globale di integrità e impegno sociale.
È morto José "Pepe" Mujica, ex presidente dell'Uruguay e grande voce dell'America Latina
L'ex guerrigliero era diventato uno dei leader più rispettati dell'America Latina. Membro del partito di sinistra Frente Amplio, ha guidato il paese dal 2010 al 2015. Proveniente da una famiglia di agricoltori e noto per la sua integrità, ha donato il 90% del suo stipendio presidenziale in beneficenza.
Denis Merklen (sociologo, direttore dell'Istituto di Studi Latinoamericani Avanzati)
L'ex presidente uruguaiano José "Pepe" Mujica, 89 anni, è morto martedì 13 maggio di cancro all'esofago, ha annunciato l'attuale presidente Yamando Orsi . L'ex guerrigliero era diventato uno dei leader più ascoltati, rispettati e popolari dell'America Latina. Le riforme da lui contribuì ad attuare in qualità di Presidente della Repubblica (2010-2015) segnarono l'ingresso dell'Uruguay nel XXI secolo.
José Mujica Cordano nacque il 20 maggio 1935 in una zona semi-rurale a ovest di Montevideo. Figlio unico di una famiglia di contadini, aveva solo 8 anni quando morì il padre. Ha dedicato buona parte della sua infanzia e giovinezza al ciclismo e alla coltivazione di fiori nel piccolo appezzamento di terra che coltivava con la madre, fiori che vendeva nei mercati della capitale. Ma il giovane José continuò gli studi fino al conseguimento della laurea, per poi iscriversi a un corso preparatorio di giurisprudenza presso l'Instituto Alfredo Vázquez Acevedo, un liceo pubblico situato dietro l'Università della Repubblica, dove entrò in contatto con buona parte della giovane intellighenzia dell'Uruguay degli anni Cinquanta.
Il Paese dispone già di un sistema di istruzione pubblica esemplare, che forma i migliori intellettuali del Paese, tra cui molti rifugiati spagnoli della guerra civile. Il giovane Mujica militò nell'ala più progressista del Partito Nazionale (centro-destra), che abbandonò nel 1962 per fondare l'Unione Popolare, in alleanza con il Partito Socialista. Un anno dopo, contribuì a fondare uno dei gruppi di guerriglia più famosi dell'America Latina, il Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros, di cui sarebbe diventato uno dei principali leader.
L’urgenza della “rivoluzione”
Con 2,7 milioni di abitanti, l'Uruguay rappresentò un'eccezione nella regione, grazie alle riforme del presidente José Batlle (1903-1907 e 1911-1915). La pena di morte fu abolita nel 1907, il divorzio legalizzato nel 1913, la Chiesa si separò dallo Stato nel 1917 e le donne hanno il diritto di voto dal 1927. Grazie al peso considerevole di un sistema salariale protettivo che copre più di tre quarti della sua popolazione attiva e a un tasso di urbanizzazione superiore all'80% dagli anni '30, l'Uruguay ha un modello sociale che ha portato il sociologo Alain Touraine ad affermare che questo Paese ha inventato la socialdemocrazia, ben prima dell'Austria o della Germania.
Tuttavia, a partire dal 1950, la situazione economica dell'Uruguay si fece sempre più difficile. L'economia è stagnante, l'inflazione e la disoccupazione sono fuori controllo. I due partiti di governo (Nacional e Colorado) si stanno rivelando incapaci di dare una nuova direzione alla piccola repubblica. I giovani ritengono che il Paese non abbia futuro, sia dilaniato dalla corruzione e stia diventando insopportabile per povertà e disuguaglianza.
Mujica e i suoi compagni giungono alla conclusione che la "Svizzera dell'America Latina" si sta dirigendo inevitabilmente verso una dittatura. Si organizzano per resistere all'autoritarismo e porre fine alle ingiustizie. Una recente esplorazione degli archivi diplomatici rivela che questa diagnosi è condivisa dai successivi ambasciatori francesi a Montevideo: vari settori dell'esercito hanno cospirato fin dal 1964 con il sostegno delle amministrazioni nordamericane. I giovani abbandonarono le strutture partigiane della sinistra socialista, comunista e cristiana e imbracciarono le armi: si chiamarono "Tupamaros", in riferimento ai gauchos ribelli dichiarati fuorilegge dall'amministrazione coloniale spagnola. Essi pongono con urgenza la necessità di una "rivoluzione".
Fidel Castro e i suoi compagni cubani hanno dimostrato che la volontà politica può superare dittatori, imperi e inerzia conservatrice. Altri esempi sono il Vietnam e l'Algeria. Ma questa gioventù istruita dell'Uruguay, che si sente capace di prendere in mano il proprio destino, non seguirà nessuna ricetta, né quella dei foco , dei centri di guerriglia rurale di Che Guevara, né quella maoista dell'accerchiamento delle città da parte delle campagne: la lotta sarà urbana.
Grazie alla loro creatività, i Tupamaros sono diventati un esempio per decine di gruppi armati nelle capitali di tutto il mondo, dalla Palestina alla California, passando per Italia, Francia e Germania. Nel 1971, 111 guerriglieri, tra cui Mujica, fuggirono attraverso un tunnel dal carcere maschile di Punta Carretas, dove erano detenuti. Poche settimane prima, decine di Tupamaras erano evase dal carcere femminile di Punta de Rieles. Nello stesso anno, i Tupamaros smascherarono l'agente della CIA Dan Mitrione, esperto in tecniche di tortura e controinsurrezione, e lo giustiziarono, ispirando il film Stato d'assedio (1973) , di Costa Gavras, con Yves Montand nel ruolo della spia. Rapiscono e poi rilasciano ministri, ambasciatori e diplomatici.
In un celebre testo intitolato "Imparate da loro", lo scrittore Régis Debray scrisse nel 1971 : "È in corso (...) una lotta violenta che potrebbe arrivare a preoccupare le avanguardie rivoluzionarie di tutto il mondo. La potenza esplosiva della lotta dei Tupamaros contro l'oligarchia del loro paese si estende ben oltre i confini dell'Uruguay. Non per queste operazioni sensazionali – rapimenti, espropriazioni, attacchi militari, fughe di massa – che fanno (...) notizia sui giornali. Ma per una ragione al tempo stesso meno spettacolare e più decisiva: semplicemente perché [hanno] inaugurato con successo un nuovo modo di intraprendere la rivoluzione socialista."
Il ritorno della socialdemocrazia
La paura del contagio tra i giovani delle capitali occidentali era così forte che, venerdì 16 giugno 1972, il Consiglio della NATO si riunì a Bruxelles per studiare il caso dei Tupamaros con un'analisi commissionata a Geoffrey Jackson, ambasciatore britannico in Uruguay, che era stato tenuto prigioniero per otto mesi nella prigione del popolo.
Alla fine del 1972 la guerriglia venne definitivamente sconfitta dall'esercito. I suoi leader e molti dei suoi dirigenti sono in prigione, gli altri sono andati in esilio. Nove leader, tra cui Mujica, furono dichiarati "ostaggi" dalla dittatura militare instaurata dopo il colpo di stato del giugno 1973 e tenuti in terribili condizioni di totale isolamento e tortura per quasi tredici anni, in prigioni spesso ricavate in fosse clandestine di caserme. Tutti i Tupamaros vennero rilasciati nel marzo 1985, in seguito al ritorno della democrazia, nell'ambito di un'amnistia generale per tutti i prigionieri politici.
Quattro anni dopo, nel 1989, Mujica e i Tupamaros crearono il Movimento di Partecipazione Popolare (MPP), parte integrante dell'alleanza di sinistra Frente Amplio (Fronte Ampio). L'MPP detiene ancora il gruppo di legislatori più numeroso del Paese e dalle sue fila proviene il presidente eletto il 24 novembre 2024, Yamandu Orsi . Mujica si candidò per la prima volta nel 1995, venendo eletto membro del Parlamento. Nel 2000 è stato senatore, nel 2005 ministro dell'Agricoltura, nel 2010 presidente della Repubblica e di nuovo senatore nel 2015 e nel 2019.
Durante i tre governi del Frente Amplio, tra il 2005 e il 2020, il piccolo paese del sud si è ricollegato al suo passato socialdemocratico o "battleista". Approfittando di una situazione favorevole per l'esportazione di prodotti agricoli, l'Uruguay sta riattivando la propria economia e rompendo la dipendenza energetica, investendo massicciamente nelle fonti rinnovabili, per arrivare oggi a produrre il 98% di energia elettrica priva di emissioni di carbonio. Il lavoro salariato sta tornando ad essere la norma grazie alla riduzione volontaria del lavoro nero e al ripristino dei "consigli congiunti" aboliti dalla dittatura. La povertà viene dimezzata e la povertà estrema ridotta all'1% della popolazione; il sistema sanitario viene riformato, offrendo un accesso abbastanza equo alla salute attraverso un mix tra pubblico e privato.
Sotto la presidenza di Mujica, l'Uruguay ha legalizzato l'aborto (2012) e il matrimonio tra persone dello stesso sesso (2013) e ha regolamentato il consumo e la produzione di cannabis nel 2014. Nello stesso anno sono state approvate una legge che modernizza la procedura penale e una legge volta a limitare gli effetti monopolistici della concentrazione della stampa.
"Il presidente più povero del mondo"
Tuttavia, le conseguenze della crisi finanziaria internazionale del 2007-2008 si fanno ancora sentire. L'economia sta rallentando, l'inflazione sta aumentando e i posti di lavoro stanno diventando scarsi. L'invecchiamento dei leader politici della sinistra, tra cui Mujica, che aveva 84 anni al momento delle elezioni presidenziali del 2019, ha fatto il resto. Con uno scarto risicato di 30.000 voti, la sinistra perse le elezioni. Il vecchio leader viene criticato per le sue dichiarazioni improvvisate, che sembrano essere state pronunciate senza pensarci e che spesso offendono alcune fasce dell'elettorato. I governi del Frente Amplio vengono criticati principalmente per le loro carenze in termini di insicurezza.
Resta il fatto che, ancor prima di diventare presidente della Repubblica, l'ex guerrigliero aveva acquisito un'immensa autorità all'interno della sinistra latinoamericana. Una reputazione che si basa sull'immagine dell'Uruguay come società democratica ed egualitaria, su quella del Frente Amplio, di cui si ammira la capacità di preservare l'unità della sinistra dal 1971, e infine su quella dei Tupamaros, questo gruppo guerrigliero che non è mai stato ossessionato dalla violenza ed è riuscito a evitare il radicalismo e il settarismo.
La BBC e buona parte della stampa internazionale elogeranno l'integrità morale nell'esercizio del potere di colui che viene presentato come il "presidente più povero del mondo" . Un'etica che nasce da una vita condotta sempre con la stessa frugalità, guidando al fianco della sua compagna, Lucia Topolansky, al volante del suo Maggiolino Volkswagen sulle strade sterrate che dalla sua piccola fattoria, la " chacra", lo conducono al palazzo presidenziale. Dove, dopo una giornata di esercizio del potere, lo vediamo mentre si prende cura delle sue margherite, del suo cane a tre zampe Manuela e mentre riceve, sulle sedie di plastica del suo giardino, autorità, giornalisti e celebrità provenienti da tutto il mondo.
Il 6 dicembre 2024, il presidente brasiliano Lula e il presidente colombiano Gustavo Petro si recarono lì insieme per consegnare a Mujica, già molto malato, il Cruzeiro do Sul e la Cruz de Boyaca, le massime onorificenze dei rispettivi Paesi. Durante tutto il suo mandato presidenziale, José Mujica ha donato il 90% del suo stipendio in beneficenza.
Trasferimento del potere ai giovani
Forte della sua immagine, Mujica tenne due discorsi che ebbero risonanza mondiale. L'uomo che non ha né un account Twitter, né un account Facebook, e nemmeno uno smartphone, è intervenuto nel 2012 al vertice delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile a Rio de Janeiro, poi nel 2013 alla 68a assemblea delle Nazioni Unite a New York. E ogni volta suscita un vero e proprio scalpore sulle reti.
Le sue numerose interviste e i suoi video sono stati visualizzati decine di milioni di volte ed è stato oggetto di innumerevoli articoli di stampa, numerosi reportage e documentari, tra cui El Pepe. Una vita suprema (2018) di Emir Kusturica e romanzi come Compañeros (2019) di Alvaro Brechner. Da Les Tupamaros. Guérilla urbaine en Uruguay, d’Alain Labrousse, en 1971 (Seuil).I Tupamaros in poi gli sono stati dedicati decine di libri . Guerriglia urbana in Uruguay , di Alain Labrousse, nel 1971 (Seuil).
Il vecchio attivista attribuisce poca importanza all'essere al potere, perché, per lui, "è solo una circostanza" ; Vuole lasciare "una barra" ("un gruppo") di giovani attivisti capaci di dare impulso a nuove energie di trasformazione sociale. Come se fosse un fedele discepolo di Hannah Arendt, Mujica associa la libertà alla politica e ripete ai giovani: "Non sei una formica o uno scarafaggio, perché hai una coscienza". Invece di seguire un destino naturale, una tradizione o condurre una vita senza senso, puoi fare qualcosa con il mondo in cui vivi. Prendi la vita nelle tue mani e costruisci un progetto collettivo. »
Poi, come se seguisse i Manoscritti del 1844 del giovane Karl Marx, mette in guardia contro i pericoli dell'alienazione sociale. “Non sprecare il tuo tempo lavorando per guadagnare soldi, avrai solo sprecato la tua vita, il tempo della tua vita, la cui unica cosa importante è viverla con gli altri… Vivi come pensi o finirai per pensare come vivi!” E per contraddire chi lo definisce povero: «Io non sono povero, non mi sottometto all'obbligo di perdere tempo a guadagnare denaro. Mi tengo la libertà di stare con gli altri. »
Nel 2020, Mujica ha lasciato il suo incarico di senatore e rinunciato a tutte le sue responsabilità per far spazio ai giovani. Nel suo ultimo libro di interviste con gli scrittori Carlos Martell e Mario Mazzeo, Semillas al viento ("Semi nel vento", Ediciones del Berretín, 2022, non tradotto), affermava: "A cosa serve un vecchio albero se non lascia passare la luce affinché nuovi semi possano crescere tra le sue foglie?". Quest'uomo comune e il suo gruppo di compagni potrebbero averci mostrato come evitare le trappole della storia.
https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2025/05/13/jose-pepe-mujica-ancien-president-de-l-uruguay-et-grande-voix-de-l-amerique-latine-est-mort_6605847_3382.html?lmd_medium=pushweb&lmd_campaign=pushweb&lmd_titre=jose_pepe_mujica_ancien_president_de_l_uruguay_et_grande_voix_de_l_amerique_latine_est_mort&lmd_ID=
12 maggio 2025
LEONE XIV NON E' FRANCESCO
Già, a prima vista, al di là delle parole pronunciate, si capisce che Leone XIV è un'altra cosa rispetto a Francesco.
Ma attendiamo la sua "Rerum novarum" per capirlo meglio e per dire cosa ne pensiamo.
01 maggio 2025
RICORDARE PIO LA TORRE
Ho appena letto il messaggio del Presidente della Repubblica Mattarella su Pio La Torre, è da brividi! Pio La Torre senza alcun dubbio bisogna ricordarlo per la legge che attaccava frontalmente la mafia, quella legge che per la prima volta introduceva il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni della mafia. La cosiddetta legge Rognoni-La Torre.
Ma Pio La Torre fu anche quell'uomo che raccolse un milione di firme in Sicilia, su circa cinque milioni di abitanti e portò centomila persone da tutta Europa a Comiso per protestare contro l'istallazione dei missili nucleari della Nato. Questo, Mattarella, assieme ad altri "smemorati" non lo dicono però. Non lo ricordano. Si limitano solamente alle battaglie contro la mafia. Questo non è ricordare, è insabbiare. Questo non è rendere onore a un grande uomo politico. È retorica insopportabile!
A proposito, Pio La Torre a seguito delle sue azioni contro la Nato fu accusato di essere un pacifinto e filo sovietico. Vi ricordano qualcosa queste etichette? Il tutto perché si opponeva all'escalation nucleare che esponeva l'Italia a bersaglio legittimo nel caso di guerra.
Venne ucciso qualche settimana dopo, esattamente il 30 aprile del 1982. Dicono dalla mafia. Ma chi ha armato la mano della mafia, da sempre utili idioti di chi comanda veramente, dovrebbe essere chiaro a tutti. Ecco, volete ricordare Pio La Torre? Bene, ricordatelo per tutto. Altrimenti rimanete in silenzio. Ci fate più figura!
T.me/GiuseppeSalamone
PS: BISOGNA RICORDARE ANCHE CHE LE FIRME RACCOLTE NON ERANO SOLO CONTRO I MISSILI DELLA NATO MA ANCHE CONTRO QUELLI SOVIETICI (fv)
FORTINI E PASOLINI: ERETICI A CONFRONTO
Giovanni Tesio
Pasolini e Fortini, la purezza militante di due amici-nemici
La Stampa Tuttolibri, 26 aprile 2025
Due poeti, due critici, due militanti, due coscienze eretiche, due coraggiosi e più che incidentalmente emuli. Fortini e Pasolini, Pasolini e Fortini, due protagonisti della scena culturale del secondo Novecento. Due cercatori di verità. Due anticonformisti che hanno intrecciato i loro vicendevoli percorsi, non senza asprezze, non senza dissensi. Due cultori di una “purezza” militante che li ha visti combattere la buona battaglia dell’impegno letterario profondamente coinvolto nell’impegno civile e politico. Ma anche due negati all’umorismo, con poche e pur “straordinarie eccezioni”, come osserva Piergiorgio Bellocchio in Diario del Novecento, pubblicato dal Saggiatore a cura di Gianni D’Amo.
A fare ora i conti con tutto un percorso di incontri-scontri sono i solidi atti di un convegno, ovviamente a più voci, che si è tenuto a Casarsa della Delizia nel novembre del 2023 e che vedono la luce da Marsilio: Nel segno della contraddizione. Pasolini e Fortini due poeti del Novecento a cura di Paolo Desogus.
Come sempre accade in questi casi una semplice recensione giornalistica non può certo dare l’idea di una complessità che di voce in voce passa attraverso le pagine di questo volume corposo, che traccia - secondo linee d’indagine assai puntuali e incisive - i nessi di un’amicizia frontale. Un’amicizia che si dipana non soltanto nel “segno della contraddizione”, come recita il titolo del volume, e dei diciannove saggi di cui dà conto Desogus nella premessa, ma nel “segno di un contraddittorio” animato e anche animoso, capace di offrire uno dei rapporti più fecondi delle nostre patrie lettere.
Dirà Fortini: «aveva torto, non avevo ragione» nel suo volume autobiografico Attraverso Pasolini, già pubblicato da Einaudi e poi ripreso da Quodlibet: felice e sottile epigrafe di un rapporto influente, vale a dire l’ammissione di un confronto in cui s’incide - con sintomatica litote - quello che in linguaggio sportivo si direbbe un risultato di parità; parità scaturita da una leale e a tratti arroventata contesa tra due compagni di strada che in certi passaggi non si sono risparmiati anche colpi contundenti.
Una coppia ancipite: uno - Pasolini - assetato di passato; l’altro - Fortini - affamato di futuro. Il sogno edenico e l’utopia rivoluzionaria, due realtà smentite dalla storia, due intelligenze, una più lenticolare (Fortini), l’altra più sintetica (Pasolini), una più razionale, l’altra più nostalgica, più emotiva; una più revulsiva, l’altra più istintiva. Per Pasolini in principio è l’immagine, per Fortini l’azione. Pasolini è un mitologo, Fortini un ideologo. Simili e dissimili, Pasolini e Fortini si inseguono e si perseguitano, si cercano e si disattendono in una bellissima contesa.
A fare corona ai saggi del volume sono i risultati di una tavola rotonda cui partecipano Massimo Raffaeli, Alessandro Gnocchi e Filippo La Porta, tre studiosi che contribuiscono ad affrontare i détours di un’amicizia perturbata.
Ecco quindi la diversa visione nei confronti del dialetto, su cui Fortini lancia subito il suo allarme, osservando che il dialetto potrà originare una grande letteratura «a condizione di non essere più nostalgia né rifugio nello sforzo di crescere a lingua, la lingua della ragione e del romanzo e nel negarsi come dialetto, come verità particolare e sezionale».
La collaborazione a “Officina”, la rivista di non lunga durata ma di notevole rilievo nel passaggio dei cruciali anni Cinquanta del Novecento (non a caso in Attraverso Pasolini Fortini su questa esperienza insiste parecchio).
Il dissenso che porta a una rottura alla fine del maggio ’68 quando Pasolini pubblica sull’“Espresso” i suoi versi contro gli studenti, e poi via via tutto un intreccio che si coinvolge in una pur sempre vigilata adesione mostrata da Fortini per la poesia dell’amico, che giunge, come Raffaeli sottolinea, ad «altissima e persino drammatica considerazione».
Non altro che piccoli spunti che è giocoforza estrapolare da un volume troppo ricco di spunti perché se ne possa fare un decente resoconto. Resta se mai da annotare che non sempre la spesso presuntuosa scienza accademica finisce nelle secche di una stima del tutto autoreferenziale, ma come a volte sappia aprirsi - come qui accade - a una più ampia leggibilità, a una più stimolante fruizione.
IL SEGRETO DEL BUON RIASSUNTO
Marco Belpoliti
L'arte perduta del riassunto coltivata da Eco e Calvino
la Repubblica, 1 maggio 2025
È di nuovo suonata l’ora del riassunto. Come una campanella scolastica le “Nuove indicazioni 2025” per la scuola dell’obbligo della commissione costituita dal ministro Valditara lo propongono quale «esempio di scrittura» per far superare l’ansia del foglio bianco: «Spostando il carico cognitivo sulla scrittura del testo già esistente».
Peccato che gli esperti del ministero non abbiano potuto leggere il libro appena uscito presso le eleganti edizioni Henry Beyle Elogio del riassunto, a cura di Umberto Eco (con disegni di Tullio Pericoli). Si tratta della ripresa di un articolo del settimanale L’Espresso uscito nell’ottobre del 1982, in cui Eco proponeva un piccolo manuale per la realizzazione di un riassunto, a cui allegava dodici riassunti di libri famosi di 15 righe ciascuno, realizzati da scrittori, poeti e saggisti italiani dell’epoca, da Arbasino a Attilio Bertolucci, da Moravia a Cesare Garboli, da Giovanni Malerba a Piero Chiara. A quella pubblicazione era poi seguito un intervento di Italo Calvino sulle pagine di Repubblica, dal titolo Poche chiacchiere! (22 ottobre 1982). Nelle sue succinte istruzioni per l’uso Eco rimarcava come avesse lui stesso esercitato da neolaureato quest’arte, in Rai, in ambito accademico, come redattore della Rivista di estetica. La tesi del semiologo sembra smentire i consulenti ministeriali perché, dopo aver esordito che riassumere non significa solo selezionare fatti, Eco specifica che farlo significa già compiere un «atto critico».
L’intervento di Calvino, dal canto suo, cercava di approfondire il metodo per riassumere e sulla base di questo formulava dei giudizi sugli esercizi dei colleghi, compreso il proprio (Robinson Crusoe). Da pedagogo, lo scrittore ligure si dichiara d’accordo sulla componente di giudizio critico, e aggiunge che ogni riassunto è costituito da enunciazioni, pensieri e possibilmente da parole contenute nell’opera di partenza, poiché l’aspetto formale non è meno importante delle trame raccontate. C’è però il rischio, ricorda, di produrre un commento.
E tuttavia, senza scivolare in un elaborato piatto, insipido e falsamente oggettivo, esiste la possibilità di rendere creativo il riassunto. Nel valutare il lavoro dei colleghi-scrittori Calvino boccia Arbasino autore di un commento-divagazione, Moravia per aver scritto un microsaggio, e Malerba per aver abbozzato un “libro parallelo” alla Manganelli. Elogia invece Garboli alla prova con I miserabili, il più bravo di tutti, seppur caduto su un anacronistico «sadomasochista». Anche Chiara è bravo, ma non fa sentire la voce di Manzoni.
Il segreto del buon riassunto, secondo Calvino, consiste nel raccogliere qualche dettaglio per «rappresentare la sostanza espressiva del libro» senza mai usare le «facilità del lessico intellettuale». Il segreto di Pulcinella di questa tecnica di scrittura, conclude, sta nell’«osservare i testi dal di dentro prima di definirli dal di fuori».
Trent’anni dopo quel dibattito un linguista, Ugo Cardinale, ha pubblicato un breve ma acuto libretto: L’arte di riassumere (il Mulino), ancora in catalogo in forma rinnovata. Il linguista spiega che riassumere in prima battuta significa «assumere di nuovo» ed è comunque un’interpretazione, ovvero un atto creativo. Insomma è un’arte e come ogni arte s’apprende, almeno fino a un certo livello, il che significa che può essere insegnata. Un docente liceale novecentesco, Ernesto Bignami (1903-1958), ci costruì sopra una piccola fortuna economica e il suo cognome è diventato una formula, oltre che un quasi sostantivo.
Cardinale poi distingue il riassunto dalla parafrasi applicata alla lettura critica della poesia, che produce ampliamento e ridondanza, là dove invece il riassunto tende alla concisione. Entrambi vogliono comprendere il testo in modo profondo, ma con esiti opposti. Oggi il web è pieno di riassunti, di siti e persone che li offrono a piene mani. Di sicuro questa tecnica mette in stretto rapporto la lettura con la scrittura, impone l’uso della «memoria episodica» e il «controllo della macrostruttura semantica del testo» (Cardinale).
Poco meno di un anno fa il critico letterario Filippo La Porta ha pubblicato un agile volume intitolato L’arte del riassunto. Come liberarsi del superfluo (Treccani). La parola d’ordine che usa è: sfrondare. Naturalmente nelle sue pagine compare ChatGpt. Con l’intelligenza artificiale a portata di mano anche gli studenti aggiornano l’arte del riassunto e insieme a quella dello studio. In ogni scuola di ordine e grado, dalle medie inferiori all’università, la scrittura è sempre più affidata a questo mezzo. Pure La Porta è del partito della “comprensione”, per quanto a differenza di Cardinale non si soffermi sulla rilevanza etica del riassunto: «Educazione al rispetto del pensiero altrui».
Riassumendo. Come sempre nel linguaggio e nell’espressività umana (e non solo) quella che sembra la cosa più facile è anche la più difficile. Sfoltire, spuntare, diradare, eliminare il superfluo è decisivo, eppure non basta. Nel mondo attuale, sempre più complesso e articolato, e insieme polverizzato, riassumere somiglia a un esercizio di yoga: con determinazione e costanza prima o poi anche le posizioni più difficili sembreranno possibili e persino agevoli.
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