Stefano D'Arrigo
In occasione della ricorrenza del venticinquennale della morte del grande Stefano D'Arrigo (Alì Terme, 15 ottobre 1919 – Roma, 2 maggio 1992), autore - tra l'altro - di "Horcynus Orca" (uno dei capolavori mondiali della letteratura del Novecento), pubblichiamo la lettera a lui indirizzata dalla scrittrice Tea Ranno, estratta dalla sezione "Lettere a personaggi letterari e autori scomparsi" del volume "Letteratitudine 3: letture, scritture e metanarrazioni" (LiberAria) che ho avuto il piacere di curare per festeggiare il decennale di vita di questo blog.
(Massimo Maugeri)
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LETTERA A STEFANO D'ARRIGO
La vita cammina, il tempo è il suo binario
di Tea Ranno
Non mi permetto il tu, perché a un maestro non si usa l’eccessiva confidenza, e il lei mi pare troppo distante: spesso nei pensieri mi siete, Maestro, nel ragionamento che piglia forma di scrittura e tende a musicare la frase, a darle voce di sirena che incanta o avvelena, ma mai scorre per il rigo indifferente; e dunque è al voi che ricorro, antico retaggio della mia terra dove il rispetto passa intanto per la bocca.
Vi scrivo per dirvi che le parole uscite dalla vostra penna, nei venti e passa anni in cui ’Ndrja Cambrìa attorcigliò il cammino del ritorno, mi sono diventate armamentario di espressione, vocabolario che ha aggiunto colore e intensità alle cose che andavo pensando, a quelle che andavo dicendo e storpiando per piegarle al volere dell’immaginazione. Corona di sogno e guinzaglio, le parole vostre, un fraseggio che deride le mezze menzogne, perché la menzogna, mi avete insegnato, è tale se resta signora della pagina e non serva d’un qualche ragionamento astratto. Mentire e ragionare in contrabbando di evidenza, questo ho imparato; e mistificare, togliere e mettere per alchimie che potenziano l’illusione.
Vi
scrivo per dirvi che ogni volta che traverso il Duemari è a voi che
penso, a quel terribilio di sventure che metteste in atto facendo di
quel mare teatro di scannatine e affronti, offese, mancanze; per dirvi
che trapassando in Continente dall’Isola, e viceversa, continuo ad
aspettare le fere, anche una, una soltanto, che mi dia conto di quanto
il mare sia rimasto lo stesso, col suo Scilla che abbaia e Cariddi che
ingoia e Morgana che distorce la visione. Vi scrivo per dirvi che ogni
ferribò che prendo mi pare quello che ha nella pancia le femminote che
commerciavano in carne e sale: la carne loro, il sale che riuscivano a
fottere in mezzo alla penuria guerresca. Vi scrivo, Maestro, per dirvi
che le cose che mi avete insegnato a guardare hanno sempre un’anima
scognita che mi spinge a toccare, scavare, mordere per capirne coi denti
la consistenza, saperne il sapore e rendermi consapevole di ciò che
altrimenti scivolerebbe come cece su pelle d’uovo. Vi dico che a me il
discorrere di necessità commerciali - una storia erotica, un giallo, un
conversario in salotto ottocentesco - interessa quanto quel cece che
scivola su pelle d’uovo; che per me ci vuole lentezza e perseveranza
sopra argomenti che trattano l’uomo, la sua capacità di cambiare testa,
di trasformare in grandezza la sua pochezza. L’imparai, questo, dalla
vostra Nasodicane, dal suo falcidiare fiati e ficcare nel nero sacco
senza fondo quanti la sua mano scippa o carezza. Vi scrivo per dirvi che
gli occhi vostri mi furono di supporto quando pretesi di guardare la
vita e il mondo per raccontarli, ché vita e mondo, mi dicevo, hanno la
stessa chiave d’accesso, lo stesso codice di sblocco. Se poi una è più
personale e l’altro abbraccia l’estraneo è cosa che non nuoce, piuttosto
induce a meglio capire, a intervenire con una zeppa, un cuneo là dove
il senso zoppica. E non ci sono certezze. L’unica, forse, è quella
Ciccina Circè che intona canti d’ammaliamento e offre la sua barca per
un trasbordo vero dove il corpo si fa litania di desideri e il
campanello a richiamo di fere è potenza di straniamento che tiene
lontani gli affogati e fa meno atroce il passaggio.Il tempo ci rimane addosso, Maestro. Non possiamo fare altro che cantarlo, anche se non ne siamo degni, se non ne possediamo il metro. La vita cammina, il tempo è il suo binario.
Vi saluto con devozione. Vi auguro mari e fere in quantità, parole tutte quelle che volete, e aria, e respiro. E sigarette, pure. E amici. E millunanotte di domani in domani.
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Tea Ranno, siciliana di Melilli, vive a Roma dal 1995. Ha pubblicato per le Edizioni E/O i romanzi Cenere (2006, finalista Premio Calvino e Premio Berto Opera prima, vincitore Premio Chianti), e In una lingua che non so più dire (2007). Per Mondadori La sposa vermiglia (2012, Premio Rea) e Viola Fòscari
(2014). Numerosi suoi racconti sono stati pubblicati in diverse
antologie. Si occupa di diritto e letteratura. Pubblica ogni giorno
sulla sua pagina Facebook brevi scritti che attengono al vivere, al
riflettere, al sentire.
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Da © Letteratitudine

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