L’ interpretazione
dell’opera di Canetti proposta da S. Costantino nel saggio intitolato Il
mondo senza testa merita particolare attenzione. L’autore è un sociologo
che ha insegnato all’Università di Palermo per tanti anni, occupandosi della
Sicilia e del Mezzogiorno, di criminalità organizzata, di burocrazia e
corruzione.
Ricordo, con particolare
affetto, una sua pubblicazione di vent’anni fa su un Danilo Dolci[1] liberato dalle letture
agiografiche che in quel tempo si facevano intorno all’opera dell’anomalo
sociologo triestino trapiantato a Partinico. Costantino, allora, riuscì ad
organizzare un bel seminario allo Steri di Palermo coinvolgendo anche studiosi
di fama internazionale. Particolarmente prezioso risultò, in quell’occasione,
l’intervento del sociologo norvegese Johan Galtung[2], collaboratore critico del
Dolci fin dai primi anni sessanta del secolo scorso.
Ormai libero da vincoli
accademici, Salvatore torna ad occuparsi di Elias Canetti (1905-1994), a cui aveva già dedicato un
libro nel 1998.[3] Costantino sa che Canetti è un classico del
900 e, per dirla con Calvino, un testo classico è un libro che “non ha
mai finito di dire quel che ha da dire. […]. I classici sono libri che quanto
più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono
davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti”.[4]
Il sociologo palermitano
ha scritto un saggio documentatissimo su un autore complesso, confrontandosi
con i suoi maggiori critici citati e puntualmente indicati nella ricca
bibliografia che correda il suo libro. Costantino, in questo suo ultimo lavoro,
è riuscito a vedere nell’opera di Canetti, aldilà del suo noto e indiscutibile
valore letterario, una straordinaria analisi della società mitteleuropea degli
anni trenta che anticipa molti temi e problemi del nostro drammatico presente. E
questo ci sembra il suo maggior merito.
1.
“UN MONDO SENZA TESTA”
L’analisi dell’opera del
grande scrittore di lingua tedesca prende le mosse da un suo libro pubblicato
nel 1935 con il titolo Die Blendung, corrispondente al nostro accecamento. Ma l’editore italiano di Canetti ha preferito dargli il titolo Auto da fé, anche per
via del protagonista del libro, il
sinologo Peter Kien che, specializzatosi nei suoi studi linguistici, si isola
dal mondo che sfugge sempre di più alla sua comprensione lasciandosi bruciare
insieme ai suoi libri.
Secondo Costantino accecamento
o abbacinamento costituiscono, oltre il nucleo centrale dell’opera
di Canetti, il tratto caratteristico del nostro tempo globalizzato in cui
regnano irresponsabilità e rassegnata passività:
Ormai è da lungo tempo
acquisito il fatto che il mondo in cui viviamo è ecologicamente insostenibile
[…]. Il genere umano ha sottoposto la terra a un esperimento non controllato di
dimensioni gigantesche. […]. Il futuro sembra passare in modo sistematico dalla
dimensione dell’inconoscibilità e dell’incertezza a quella della
irreversibilità. [5]
Negli stessi giorni del
1935 in cui vede la luce Auto da fé, Edmund Husserl tiene, a Praga e a
Vienna, due conferenze sulla crisi della civiltà europea. Husserl individua in
Galilei e in Cartesio le prime radici della crisi perché proprio con loro si
afferma la tendenza alla specializzazione delle scienze umane che perdono la
visione d’insieme delle cose. Particolarmente felice appare, da questo punto di
vista, la celebre affermazione di Canetti: “Gli uomini non hanno mai saputo
così poco di sé quanto in questa epoca della psicologia” [6]
Sembra che la lettura
delle Metamorfosi di Kafka sia stata una delle molle a spingere Canetti
a concepire il suo libro. Da Kafka, infatti, il nostro autore ha appreso l’arte
di mordere e pungere con le parole:
Bisognerebbe leggere […] soltanto i
libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un
pugno sul cranio, a che serve leggerlo? […] noi abbiamo bisogno di libri che
agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di
uno che era più caro di noi stessi […], un libro deve essere la scure per il
mare gelato dentro di noi. [7]
Lo stesso Canetti spiega
così la genesi della sua opera:
Un giorno mi venne in
mente che il mondo non si può più raffigurare come nei romanzi di un tempo,
[…], il mondo era andato in pezzi, e solo se si aveva il coraggio
di mostrarlo nella sua frammentazione era ancora possibile dare ad esso
un’immagine veritiera.[8]
2.
LIBERARE GLI UOMINI DALLA PAURA
Canetti è seriamente
convinto che il mondo senza testa in cui ci ritroviamo
oggi rischia di condurre il genere umano all’autodistruzione.
Anche per questo è necessario tenere viva la “missione etica dello
scrittore” che non può lasciarsi travolgere dal caos e deve contrapporre
alla rassegnazione “la forza impetuosa della speranza”. (ivi p. 55)
Lo scrittore, secondo Canetti,
deve essere innanzitutto “custode delle metamorfosi”; a tal fine
egli deve innanzitutto fare propria l’eredità letteraria dell’intero genere
umano:
solo oggi ci
rendiamo conto di questa ricchezza, dal momento che sono state decifrate le
scritture di quasi tutte le antiche civiltà. Ancora fino al secolo scorso,
chiunque […] si sarebbe attenuto a due libri fondamentali: le Metamorfosi
di Ovidio, che si presenta come una raccolta pressoché sistematica di
tutte le metamorfosi fino allora conosciute nella mitologia, e uno più antico,
l’ Odissea , dove si narrano le avventurose metamorfosi di un
uomo chiamato appunto Odisseo. Esse raggiungono il loro apice quando egli torna
a casa nelle vesti di un mendicante, l’uomo più misero che si possa immaginare,
e qui la simulazione è talmente perfetta che mai scrittore posteriore l’ha
eguagliata e men che meno superata”.[9]
Nel mito e nelle grandi
opere letterarie del passato lo scrittore apprende le prime forme di
metamorfosi:
Ma
egli non vale nulla se non l’applica incessantemente al mondo che lo circonda. […].
Non può essere compito dello scrittore lasciare l’umanità in balia della morte.
Apprenderà con sgomento che la morte sta assumendo in molti uomini un potere
crescente. Anche se dovesse apparire a tutti un’impresa disperata, egli a
questo si ribellerà […]. Sarà suo vanto opporre resistenza ai banditori del
nulla, che sempre più numerosi allignano tra i letterati.[10]
Canetti non ama la retorica e il buonismo.
Anche per questo i suoi principali punti di riferimento sono autori noti anche
per il loro crudo realismo. Uno di questi è Tomas Hobbes, il filosofo inglese
del XVII secolo:
Io credo di aver trovato in lui (Hobbes) la
radice spirituale di ciò contro cui voglio più di tutto combattere. Fra tutti i
pensatori che conosco, è l’unico che non maschera il potere, il suo peso, la
sua posizione centrale in ogni comportamento umano, ma neanche lo esalta, lo lascia
semplicemente dov’è […]. Accanto a lui, Rousseau sembra un chiacchierone
puerile. […]. Dopo Hobbes, occuparsi di Machiavelli ha soltanto un interesse
storico […]. Dopo avere lavorato seriamente sul Leviatano, so che
includerò questo libro nella mia Bibbia ideale. […]. Di questa Bibbia
non faranno parte né il Principe di Machiavelli né il Contratto
Sociale di Rousseau.[11]
Insomma Canetti ammira in
Hobbes la sua straordinaria capacità di osservare la realtà < senza
falsificarla né abbellirla > (ivi p. 60), individuando nel sentimento della
PAURA il fondamento primo di ogni forma di potere.
Paradossalmente poi lo
stesso Hobbes pensa di riuscire a liberare gli uomini dalla paura attraverso la
stessa paura. Riconoscere, infatti, che homo homini lupus diventa per il
filosofo inglese un modo per far accettare a tutti il potere dello Stato, il Leviatano
che, limitando la libertà dei singoli individui, impedisce agli uomini di
sbranarsi tra loro.
Non appare casuale che
anche Hans Jonas abbia ripreso e sostenuto questa tesi affermando
recentemente che “Solo la paura ci salverà”. [12]
3.
LO SCRITTORE CONTRO IL SUO TEMPO
Canetti, nel prendere coscienza della
piega presa dalla storia intorno agli anni trenta del 900, radicalizza la sua
posizione fino ad invocare una opposizione generale contro tutto il suo
tempo: non[VF1] solamente contro uno o più aspetti particolari, ma
bensì contro l’immagine comprensiva e unitaria che lui solo è riuscito a
farsene (ivi p. 67).
Canetti insiste nell’invocare una
opposizione “a voce alta” e, a questo punto, trova un alleato prezioso in Karl
Kraus “la persona incomparabilmente più viva che la Vienna d’allora potesse
offrire” (ivi p. 69). Le
straordinarie capacità comunicative dello scrittore austriaco vengono descritte
così da Canetti in La coscienza delle parole:
Egli era l’esatto opposto di tutti gli scrittori –
l’enorme maggioranza degli scrittori che ungono di miele la bocca degli uomini
per esserne amati e apprezzati. (ivi p. 70)
Pur assumendo la forma della
ricerca disperata, Canetti non smarrisce mai la fiducia nella scrittura e nella
possibilità che gli uomini possano riuscire a comunicare e comprendersi tra di
loro attraverso la lingua. Ma, a tal fine, è necessario che si abbia
consapevolezza dei condizionamenti pesanti che il Potere esercita sul
linguaggio umano[VF2] . A tale consapevolezza Canetti arriva anche tramite
K. Kraus, come riconosce apertamente in una pagina di Potere e sopravvivenza
:
K. Kraus mi ha aperto le orecchie, e nessuno avrebbe
saputo farlo come lui.[…]. Grazie a lui cominciai a capire che ciascun uomo ha
una sua fisionomia linguistica con cui si stacca da tutti gli altri. Compresi
che gli uomini si parlano, sì, gli uni con gli altri, ma non si capiscono, che
le loro parole sono colpi che rimbalzano sulle parole altrui; che non vi è
illusione più grande della convinzione che il linguaggio sia un mezzo di
comunicazione fra gli uomini. Si parla […] si continua a parlare […] si grida […] le grida balzano
qua e là come palle, colpiscono, ricadono sul suolo. Di rado qualcosa penetra
negli altri, e quando accade è qualcosa di distorto. [13]
Le stesse parole comuni usate frequentemente, le stesse frasi ripetute centomila volte – tutte condizionate, se non plasmate dalle strutture del potere - vengono intese in maniera diversa perché il linguaggio umano, secondo Canetti, è una macchina infernale produttiva di disuguaglianza e sottomissione.
Notevole appare a questo punto la somiglianza tra Canetti
e Pirandello e Costantino non manca di notarlo (Vedi pp. 122-127)
4 MASSA E
POTERE TRA ADORNO E CANETTI
Massa e potere occupa
un posto centrale tra le opere di Canetti, fra tutte forse la più ricca
di spunti socio-antropologici dello scrittore tedesco. Non a caso Costantino
gli dedica un intero capitolo soffermandosi particolarmente sull’ intervista
radiofonica che, nel 1962, gli fece T. W. Adorno.
Adorno non poteva restare
indifferente di fronte a un libro come quello di Canetti anche perché, pur
utilizzando un metodo di analisi diverso dal suo, nelle sue ricerche
sociologiche, condotte insieme ad Horkheimer ed altri della scuola di
Francoforte, si era occupato di problemi simili.
Massa
e potere è stato definito “il libro di studio dell’uomo e della
società più duro e più ricco di idee”[14] del 900. In quest’opera
Canetti, combinando materiali tratti da discipline diverse (storia,
letteratura, antropologia, etologia, psicologia, filosofia, ecc), arriva a cogliere
e rappresentare il potere nella sua intima essenza. Gli stessi saperi umani,
divisi ed arbitrariamente separati e cristallizzati tra loro servono solo ad
assoggettare di più gli uomini. Particolarmente duro il suo affondo contro gli
storici schierati sempre dalla parte dei
vincitori e del potere:
Odio
il rispetto degli storici per qualsiasi cosa, per il solo fatto che è accaduta,
i loro metri falsati, postumi, la loro impotenza che striscia dinanzi a ogni
forma di potere. Questi cortigiani, questi adulatori, questi giuristi sempre
interessati.[…]. La storia scritta, che con i suoi modi impertinenti assume le
difese di tutto, rende ancora più disperata la situazione comunque disperata
dell’umanità dinnanzi a tutte le tradizioni menzognere. […]. Non c’è passato,
per ripugnante e odioso che sia, dal quale un qualsiasi storico non ricavi l’immagine
di un qualsiasi futuro. Le loro prediche, a quanto essi credono, consistono di antichi fatti, le loro profezie
sono già confermate prima di potersi avverare.[15]
Canetti,
infine, intravede nella scomparsa di alcune specie animali un segnale della
possibile scomparsa dell’uomo:
Ogni
specie animale che muore rende meno probabile che noi si continui a vivere[16]
Costantino, dopo aver notato che l’ intera
opera di Canetti è una forma di
resistenza al potere e alla tirannia della morte, chiude il suo libro citando una celebre pagina
de La lingua salvata in cui lo scrittore, ricordando la morte della
madre, individua nella scrittura uno dei principali strumenti di resistenza
alla morte.
FRANCESCO VIRGA
* Questa recensione oggi è stata pubblicata anche nella rivista bimestrale DIALOGHI MEDITERRANEI
[1] AA. VV. (a cura di S. Costantino), Raccontare Danilo Dolci.
L’immaginazione sociologica. Il sottosviluppo. La costruzione della società
civile, Istituto Gramsci Siciliano-Editori Riuniti, Roma 2003.
[2] Costantino, nell’introdurre i
lavori, tenne a precisare che Galtung accolse l’invito a partecipare al
Convegno a condizione che si evitasse di trasformare Dolci in un santino,
[3] AA. VV. (a cura di S. Costantino),
Ragionamenti su Elias Canetti. Un colloquio palermitano, Franco Angeli,
Milano 1998.
[4] Calvino I. Perché leggere i
classici, Mondadori, Milano 1991, pp. 13-15.
[5]
Costantino (2021), p. 46
[6] E. Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942-1972 -
Traduzione di Furio Jesi, Bompiani, cit. da Costantino a pag. 76.
[7] Kafka
F., Lettera a Oskar Pollak, citata da Costantino a p. 36.
[8] Canetti
E., La coscienza delle parole (1976 I ed. tedesca); la traduzione
italiana si trova ora in Opere (1973-1987), Bompiani, Milano 1993.
[9] Canetti, La coscienza delle parole, op.
cit. da Costantino a p. 138
[10] Ibidem,
p. 139
[11] Canetti, La provincia dell’uomo, cit.
da Costantino nelle pp. 59-60
[12] Jonas
H. cit. da Costantino, pag. 52.
[13] E.
Canetti, Potere e sopravvivenza, Adelphi, Milano 1974, pp. 46-47,
grassetto mio.
[14] Peter
Sloterdiik cit. da Costantino a p.188
[15] Ivi p.
191
[16] Ivi
pag. 190
Nessun commento:
Posta un commento