03 novembre 2023

IL LAVORO CULTURALE SECONDO GOFFREDO FOFI

 



[Per la sua inchiesta sul giornalismo culturale contemporaneo Maria Teresa Carbone oggi ha intervistato Goffredo Fofi. Queste sono le conversazioni precedenti:

 Gianluigi SimonettiIlaria FeoleFrancesca BorrelliAndrea CortellessaPaolo Di StefanoGiorgio ZanchiniValentina BerengoGuia Soncini].

 

Se c’è una persona in Italia che più di tutti sa com’è cambiato il giornalismo culturale negli ultimi anni, quella persona sei tu. Per la verità non sono sicura che tu possa essere definito un giornalista culturale, ma da una sessantina d’anni sembra che tu non abbia fatto altro che fondare riviste. E non solo: collabori o hai collaborato con le testate più diverse, dal “Sole 24 Ore” all’“Unità” a “Internazionale”, scrivendo di libri e di cinema e di tante altre cose. Dunque, come ti sembra la situazione attuale rispetto a quando hai cominciato a muoverti in questo campo?

 

Beh, in breve: c’è stato un periodo in cui il giornalismo culturale in Italia ha avuto una funzione enorme, poi è finito tutto. Negli anni Ottanta, non ricordo esattamente quando, scrissi un editoriale per la rivista che pubblicavamo allora, “Linea d’ombra”, che fece incazzare alcuni membri della redazione perché il titolo fu considerato troppo volgare: era Le mezzeseghe all’arrembaggio, e un anno dopo ne scrissi un altro intitolato Il trionfo delle mezzeseghe. Ed è vero, erano titoli volgari, ma io ero terribilmente inferocito contro la generazione di mediocri arrivisti post 68 e post 77 che in quegli anni si sono dati al giornalismo e alla cultura, e non ho potuto fare a meno di sfogarmi. E non credo di essermi sbagliato, perché da allora le cose non sono cambiate, il trionfo delle mezzeseghe c’è anche oggi.

 

Io ho nostalgia di un’epoca diversa, degli anni in cui frequentavo Giorgio Bocca e Camilla Cederna, per dirne due, e poi tanti altri. A volte, penso per esempio a Pasolini o a Testori, i rapporti erano conflittuali. Con loro capitava spesso di litigare, ma perché erano critici attenti verso quello che succedeva, e le critiche erano rivolte anche a noi, alla generazione venuta dopo il 68, quella che stava entrando nelle case editrici e nelle redazioni.

Se vogliamo dare uno sfondo al tutto, ed è una cosa che ripeto ossessivamente, la vera storia dell’Italia come paese degno, unitario, nuovo, comincia con il 25 luglio 1943, con la caduta del fascismo e la nascita della resistenza – che poi alla fine della guerra vuole dire la Costituzione, la Repubblica, il voto alle donne, la libertà di parola… E pure la libertà di movimento sul piano nazionale che, anche se in molti non se lo ricordano, è arrivata tardi, solo nel 1960, perché ancora negli anni Cinquanta c’erano i fogli di via. Soprattutto la Corte costituzionale ha avuto una grande funzione, ha buttato via tante leggi fasciste che ancora sopravvivevano. È stato un periodo di grande risveglio economico e intellettuale: della televisione di Bernabei si è parlato tanto male, ma è stata quella televisione che ha unificato l’Italia, che ha dato agli italiani una lingua: malfatta e distorta quanto si vuole, ma una lingua comune, che prima non c’era, perché prima i lombardi parlavano il lombardo e i siciliani il siciliano. Non siamo diventati nazione con il Risorgimento, ma in quegli anni.

 

Hai detto che la vera storia di un’Italia degna comincia con il 25 luglio 1943, ma è evidente che tu vedi anche una data in cui questa storia si è chiusa.

 

Sì, è una storia che si è chiusa con la morte di Moro, con quell’infame assassinio compiuto da una banda di mascalzoni, di stupidi manipolati dai servizi segreti italiani, israeliani, americani, russi, cecoslovacchi… Nelle Brigate Rosse, ne sono convinto, su cinque due erano infiltrati e tre dei coglioni, stalinisti e fascistelli. Io lo dico da sempre, e adesso anche alcuni storici hanno cominciato a vederlo. Comunque, la storia d’Italia è stata questa, e nel periodo che va dal ’45 al ’78 il giornalismo ha avuto un’importanza enorme. Anche il giornalismo popolare, in un paese di semianalfabeti com’era l’Italia di allora: ripenso spesso ai miei genitori, mia madre che aveva la seconda elementare e leggeva “Grand Hotel”, mio padre con la seconda elementare e mezzo (e teneva molto al suo primato) “L’Avanti” e “La Gazzetta dello Sport”. Lo facevano con fatica, compitando, ma leggevano.

 

In quegli anni ci sono stati giornali e riviste che hanno avuto un ruolo fondamentale. Vogliamo ricordare, per esempio, che “Epoca” ebbe il coraggio di mandare uno scrittore iperborghese come Guido Piovene in giro per l’Italia? Ogni settimana aspettavamo il suo reportage, lo leggevamo avidamente. Venne anche nel mio paese, Gubbio, ne scrisse. E poi tanti altri settimanali, “L’Espresso”, “Il Mondo”, “Tempo”… Era un periodo di grande crescita collettiva e il giornalismo in questo era centrale, e non solo sulla carta. C’era la radio, c’era la televisione che chiamava a lavorare persone come Rossellini, Comencini, Pasolini, Soldati. E pure in letteratura, sono stati anni straordinari: Calvino, Ortese, Bassani, Cassola, Bianciardi, Anna Banti, Sciascia, Morante, è un elenco che non finisce più. Senza contare che alcuni di loro sono stati anche giornalisti, educatori: Sciascia e Pasolini, per dire, scrivevano abitualmente sui giornali, e pure Moravia, anche se a quel tempo le sue recensioni cinematografiche sull’“Espresso” non mi piacevano, erano troppo borghesi per i miei gusti. Ma gusti o non gusti, è stato un periodo di gloria nella storia italiana.

 

E dopo la cesura, cosa si è potuto fare, cosa hai fatto tu, per contrastare almeno un po’ quello che hai definito “il trionfo delle mezzeseghe”?

 

Dopo la caduta dei movimenti, parlo per me, abbiamo messo su una rivista, “Linea d’ombra”. Dico “abbiamo” perché senza i collaboratori non si sarebbe fatta, anzi, le collaboratrici: Roberta Mazzanti, Paola Splendore, Fabrizia Ramondino, e altre ancora.  Vedi, io sono d’accordo con quello che ha scritto Edmund Wilson nel suo saggio Il Polonio dei letterati:  la vita buona di una rivista dura più o meno cinque anni, perché dopo non riesce più a rendere conto della società che cambia. Io penso che nella storia si alternino periodi di quiete e periodi di febbre: adesso in Italia sono settant’anni che in teoria non ci sono guerre, sembra tutto tranquillo. Ma io non mi fido: c’è l’atomica e la Russia e l’America e la Meloni e le banche e il capitalismo… Insomma, può succedere di tutto. In ogni caso a quel tempo le riviste, e il giornalismo culturale in genere, avevano una funzione di passaggio: servivano per raccogliere il meglio del passato e attraverso un’analisi del presente si sforzavano di preparare i nuovi tempi. Ma adesso dei nuovi tempi sembra che al giornalismo, culturale e non culturale, non interessi più per nulla, siamo tutti piombati nel presente.

 

Nella piccola collana di pensiero radicale che dirigo per E/O ho appena ripubblicato una conferenza di Ignazio Silone della seconda metà degli anni Cinquanta, La scelta dei compagni, dove lui aveva già intravisto quello che stava per succedere. Ma possiamo andare ancora prima, al periodo immediatamente successivo alla fine della guerra, quando Vitaliano Brancati scrisse in un suo intervento che il problema dei nuovi tempi era il problema degli “stupidi”: secondo lui i politici avrebbero dovuto occuparsi della miseria, della giustizia sociale, dei derelitti, mentre il compito degli intellettuali sarebbe stato di rendere intelligenti gli stupidi. Dove per stupidi si intendevano gli analfabeti, quelli che sapevano a stento leggere e scrivere, che non avevano idea di cosa fosse un libro. Non dimentichiamo che fino ai primi anni Sessanta l’Italia era un paese di analfabeti e di contadini.

 

Certo, non dobbiamo dimenticarlo, anche se oggi la situazione è cambiata completamente: se guardi i dati, vedi che l’analfabetismo è stato sconfitto, che tutti sanno leggere e scrivere.  Eppure, per certi versi non sono sicura che le cose vadano molto meglio.

 

Adesso c’è una forma di analfabetismo morale. Forse si legge di più, ma la quantità di libri inutili è aumentata enormemente: io di libri ne ricevo tanti, e la maggior parte li do via dopo avere dato un’occhiata. Vedi tutti quei volumi sul tavolo? Sono arrivati in questi ultimi giorni, e io so già che ne salverò al massimo tre o quattro. Il problema vero è l’idea che chiunque possa fare lo scrittore: basta che sei andato a scuola, che hai fatto le superiori, e tutt’intorno a spingerti ci sono le scuole di scrittura, le agenzie letterarie, le case editrici. Ma io una letteratura piatta come quella di questi ultimi anni non me la ricordo in tutta la vita, nemmeno nel pieno del fascismo, perché a quel tempo c’erano fior di scrittori: Bontempelli, Paola Masino, Pirandello, Savinio, De Chirico – e pure traduttori, Furore di Steinbeck è stato un bestseller sotto il fascismo, e perfino in una casa come la mia entravano dei libri. Forse non erano capolavori, ma erano libri che lasciavano il segno: La cittadella di Cronin, L’amante dell’Orsa Maggiore di Piasecki, Via col vento, che con tutti i suoi limiti è un grande romanzo, se abbiamo capito qualcosa della storia degli Stati Uniti è grazie a un libro così. Oggi, per ogni novità che usciva negli anni Quaranta, ne escono sette, otto, quindici. Tutti cercano i loro dieci minuti di successo, ma dieci giorni dopo nessuno se ne ricorda più, e così il giro ricomincia.

 

Ma come pensi che si sia arrivati a questo punto?

 

Guarda, la catastrofe non è nazionale: basta rileggere quello che ha scritto quarant’anni fa Christopher Lasch, l’ultimo dei grandi sociologi statunitensi. Negli anni Ottanta il capitalismo, e da parte sua mettiamoci pure lo stalinismo, hanno distrutto tutto. Il capitalismo ha ammazzato Lumumba, Che Guevara, Malcolm X, Martin Luther King, e ha fatto secco anche il Sessantotto, con l’unica lucina parziale del femminismo che però, se vedi soprattutto cosa è successo negli Stati Uniti, è entrato nel filone delle rivendicazioni identitarie, delle minoranze che non volevano più fare la rivoluzione ma chiedevano solo di stare meglio. C’è un film bellissimo di Chris Marker, Le fond de l’air est rouge, che ha come sottotitolo “Scene della terza guerra mondiale”, e la terza guerra mondiale è quella che è stata combattuta dopo il Sessantotto, fino agli ultimi anni Settanta e oltre, e che in definitiva ha portato alla sconfitta dei movimenti.

 

Il capitalismo è capace di aggiornarsi sempre, e continua ancora: mai la scienza è stata asservita come oggi al potere economico. E allo stesso modo internet è in mano ai supercapitalisti. Del resto, l’evoluzione dei mezzi tecnici non avviene mai in modo casuale: anche il cinema, che a suo tempo ha alfabetizzato il mondo, che nel bene e nel male ha saputo creare sogni, ora è stato ucciso dalla televisione, dalla rete. È inutile girarci intorno: i grandi movimenti di acculturamento collettivo hanno fallito.

Anche le riviste oggi sono come salottini in cui ognuno fa le cose per sé, senza guardare quello che c’è fuori. Il sistema favorisce la specializzazione, e anche il pubblico è cambiato, anche tra i giovani sembra sia venuto meno l’istinto di agire in funzione degli altri, di cercare in qualche modo di cambiare il mondo. È quello che Lasch chiamava narcisismo e per Silone era il nichilismo di massa. Si pensa all’oggi, si vive in funzione dell’eterno presente. Si organizzano centomila convegni e trovi sempre gli stessi nomi, persone che parlano di tutto e non hanno nessuna esperienza della vita. Ripeto, il capitalismo ha stravinto non solo in Italia, ovunque nel mondo. E al suo servizio non ha solo gli scienziati, ma anche i giornalisti.

 

Messa in questi termini, sembra che l’unica strada possibile sia dichiararsi sconfitti, ma mi pare che al contrario tu non ti sia mai arreso: non hai mai smesso di scrivere e di fondare nuove riviste, “Linea d’ombra” e poi “La terra vista dalla luna”, “Lo straniero”, “Gli asini”, e domani chissà ancora cosa. Come ha scritto Emiliano Morreale nell’introduzione alla raccolta dei tuoi articoli Son nato scemo, morirò cretino (minimum fax, 2022), sei “una figura che nell’era dei contatti virtuali porta ostinatamente avanti una ricerca fisica di luoghi e di persone”.

 

Certo, come diceva il compagno Beckett: “Non posso continuare, continuerò”. E come diceva Salvemini, riprendendo Kant: “Fai quel che devi, accada quel che può”. Oggi il nostro dovere è difenderci dalle mezzeseghe, e l’unico modo è rialfabetizzare, costruire minoranze agguerrite, intelligenti, preparate. In questo senso il giornalismo, le riviste, servono ancora, molto più dell’università, che si è tagliata la lingua e il naso e le palle, e produce una delle peggiori classi dirigenti del mondo. In effetti, oggi a essere morto non è il giornalismo, ma la politica: è accaduto anche altrove, ma in Italia la classe politica è peggiore, perché non abbiamo avuto una rivoluzione borghese e neanche una riforma, siamo ancora un popolo di servi. Dunque, due sono le chiavi che abbiamo: essendo noi alfabetizzati, alfabetizzare – e in questo le riviste possono essere uno strumento, se intorno alle riviste c’è un gruppo, c’è gente che fa; e poi rendere conto delle cose positive che nonostante tutto ci sono, cercare – come ha detto Calvino – di vedere nell’inferno quello che l’inferno non è, e dargli fiato.


Pezzo ripreso dal sito leparolelecose

 


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