Questo saggio di Roland Barthes uscì nel 1977, e fu pubblicato in Italia per la prima volta nel 1979, ed è l'edizione che posseggo anch'io, nella ristampa del 1982. Fu, quindi, influenzato dall’atmosfera culturale di quel periodo, e che a sua volta influenzò, rappresentando in particolare, in senso simbolico, un sostanzioso segmento alternativo ai canoni della cultura ufficiale.
L’autore era comunque già ampiamente conosciuto e ammirato dal movimento di contestazione al sistema sociale, così come lo erano altri strutturalisti, come lo erano Sartre, Foucault, Deleuze. Questi tre, tra l’altro, citati diverse volte nel libro.
Questo testo, però, accrebbe notevolmente la sua fama, almeno qui da noi, divenne in certi ambienti una sorta di best seller; se fu però realmente compreso, non saprei, visto che l'autore stigmatizzava la stereotipia della non-stereotipia, propria dei linguaggi di certa cultura della “marginalità”, certo conformismo dell’anticonformismo. Inoltre, sosteneva che l'argomento amore “romantico”, tra due persone, non avesse dimora tra l’intellighenzia del tempo, perché ritenuto “fuori moda". Non lo facevano né il marxismo, né la psicoanalisi, che parlava piuttosto di analisi dei “sentimenti” e della sessualità.
Quel che è certo è che segnò un'epoca. Anche se non è di così difficile lettura, è comunque un saggio che si pone a più livelli di interpretazione e di complessità.
Nelle edizioni più recenti, in appendice, come postfazione, ci sono anche tre interviste dell’autore: “Frammenti di un discorso amoroso”, “Il più grande decrittatore di miti del nostro tempo ci parla d’amore” e “L’ultima solitudine”. Sono interviste imperdibili e affascinanti, così come lo è il saggio.
Non è un libro sul discorso amoroso, dice Roland Barthes nella prima intervista, ma è invece l’ipotetico discorso di un soggetto amoroso.
È un saggio che mantiene tutta la sua attualità, dato che le dinamiche descritte, adattandosi all’amore sono universali ed eterne.
Non è solo un incontro di esistenzialismo e strutturalismo con l’amore, è un saggio filosofico, di semiologia, non dichiaratamente psicoanalitico, di grande profondità, ma, come dicevo, di abbastanza agevole lettura, considerata la divisione del testo in ottanta “figure”(i frammenti), e in ordine alfabetico.
“Frammenti di un discorso amoroso” è un po' a tratti la rappresentazione di un monologo teatrale, ma racchiuso nell'intimo, in un io che immagina di parlare all’altro, ma lo fa dentro di sé. È un viaggio nell’altro, verso la conoscenza dell’altro, ma anche di se stesso, dell’io narrante.
Il saggio, nonostante Roland Barthes ci tenga ad affermare che non ha come oggetto un profilo psicologico, ritengo sia un considerevole strumento di autoanalisi.
Tuttavia, sempre nella prima intervista ammette che il suo libro ha un rapporto interessante con la psicoanalisi, anche se ambiguo. Si è servito, insomma, delle sue descrizioni, perché sono oramai topiche, e in qualche modo obbligano al loro utilizzo.
A margine del testo, compaiono i riferimenti che sono filosofici (Nietzsche, Platone…), letterari, soprattutto, onnipresente, il Werther di Goethe, Balzac, lo Zen, Freud, svariate letture, qualche richiamo cinematografico, financo le frasi degli amici di Roland Barthes. Riferimenti presi a prestito, rielaborati, attraverso la sua memoria. Ma è il “Werther” il principale “protagonista”, che «è l’archetipo stesso dell’amore-passione.»
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