“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
07 aprile 2025
SALMO 44
Salmo 44, nell’inferno con Danilo Kiš
di Gianni Montieri pubblicato lunedì, 7 Aprile 2025 · Ripreso dal sito MINIMAMORALIA
La speranza è la prima cosa a nascere e, forse, col tempo, in maniera meno decisa diventa l’ultima a morire. A questo ho pensato dopo aver letto alcuni passaggi di Salmo 44, il bellissimo romanzo di Danilo Kiš, edito da Adelphi, con la traduzione di Manuela Orazi. Il libro uscì nel 1962 e circa vent’anni dopo l’autore si rimproverava di alcune ingenuità, per aver usato, in alcuni frangenti, un linguaggio troppo diretto. E se si rimprovera lui, i numerosi altri cosa dovrebbero fare? Salmo 44 è un reportage romanzesco, un trattato crudo e sentimentale, una fotografia in movimento. Sulla fuga, sull’amore, sull’orrore, sulla perdita, sul coraggio, su terrore e di nuovo sull’amore. Si tratta di un testo poetico e folgorante che racconta la fuga dal campo di concentramento di Birkenau di Maria e del suo bambino neonato, insieme a un’altra prigioniera Jeanne.
Questa però è solo la partenza, la bravura di Kiš sta nel meccanismo attraverso il quale mescola le immagini al linguaggio, al modo in cui fa saltare le vicende all’indietro verso i ricordi e, allo stesso tempo, le proietta in avanti, verso le porte che si aprono, i piedi che corrono nel fango a perdifiato verso il nulla, l’ignoto, verso il futuro incerto.
Leggiamo a un certo punto: «”Lei crede, signor dottore, che per me tutto questo sia iniziato solo ad Auschwitz?”. Si stupì lei stessa della fermezza che rivelava la sua voce: “Che io cominci solo adesso a utilizzare le riserve di speranza che l’uomo porta nel cuore?». Eccola la speranza, messa lì in un dialogo cruciale, segnalata come qualcosa che esiste da sempre, sta là nel cuore delle donne e degli uomini, è un serbatoio dal quale, quando occorre peschiamo. E allora la donna spaventata ma decisa, che si stupisce della sua stessa fermezza. Il campo di concentramento, i campi, la prigionia, gli orrori sono un inciampo, sono la pena estrema ma non sono il punto da cui comincia la speranza. Tutto è iniziato prima dice la donna, e tutto vuol dire dolore, o solo nostalgia, o solo mancanza, o solo desiderio, o solo povertà, o solo perdita. Ogni cosa è l’attimo in cui noi autorizziamo la speranza e ne preleviamo lo spicchio che ci occorre. «La speranza è una necessità. Perciò dobbiamo inventarcela». Come i sogni, come l’amore.
Kiš trasse ispirazione per questo romanzo leggendo su un giornale di una coppia di sopravvissuti ad Auschwitz, che qualche anno dopo la fine della guerra andò a visitare il museo del lager. Per tutta la lettura del romanzo ho pensato allo scrittore davanti a quel pezzo di giornale, al particolare transfert che devono aver esercitato su di lui quelle righe. Sopravvissuti che tornano sul luogo dell’orrore. La speranza, noi siamo qui, possiamo tornare, noi siamo vivi. Quel noi siamo vivi, Kiš lo agita in ogni pagina, come un filo di vento, e non ha quasi mai bisogno di mostrare le torture, i cadaveri. La letteratura muove queste persone sulle macerie, tra le miserie e sono due donne, un bambino, e il padre del bambino: un medico. La speranza li autorizza a ipotizzare un giorno in cui si ritroveranno senza sapere quando e come sarà.
Chi leggerà il romanzo porterà molte scene nella memoria e alcune nel cuore. Tra le tante, quella in cui Maria col bambino e Jeanne, in piena notte, dopo aver corso per chilometri tra boschi e campagna si ritrovano in un punto dove dovranno separarsi. Maria deve puntare verso la Polonia, Jeanne le indica la direzione, deve essere da quella parte, dice più o meno, ma non lo sanno, si affidano alla forza delle gambe, al battito tumultuoso dei cuori e, di nuovo alla speranza. L’autore invece si affida al linguaggio, e le vediamo grazie alle sue parole correre nel cuore della notte proprio come se ci trovassimo al cinema, e facciamo il tifo, le sosteniamo, e vogliamo che ce la facciano. Lo speriamo.
La scrittura di Danilo Kiš è percorsa da un tremito costante, una scena di morte e di orrore ci porta oltre l’Olocausto, appresso agli inferni dei Balcani, e oltre ancora. Un abbraccio tiene, raccoglie e scioglie in sé tutti gli abbracci del mondo. Kiš, ci pare di vederlo seduto a un caffè di Parigi con l’eterna sigaretta, ci pare di vederlo che immagina e che con la memoria va all’indietro, ci pare di vederlo quando sente tutte quante le parole prima di infilarle in un giro perfetto di frase. Ci pare di vederlo che tiene per mano la coppia che torna al lager che ormai è un museo, mentre li avvolge in un cappotto più solido della memoria, in un raggio tiepido che cala sopra tutte le morti in un pomeriggio d’estate.
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