“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
20 febbraio 2025
ANDATE A VEDERE AL CINEMA IL FILM DEDICATO A BOB DYLAN
ATTORNO A UN COMPLETO SCONOSCIUTO
di Gianluca Veltri
Sai cos’è un tradizionalista, vero?
Uno che lascia che i morti
controllino la sua vita
(James Lee Burke, New Iberia Blues)
Nel luglio del 1965 Bob Dylan ha da poco compiuto 24 anni.
Nel Greenwich Village si muove con le antenne sempre all’erta; coglie, orecchia, ruba. È del tutto disincantato sul potere che la musica può esercitare sulla politica. È un individualista, per lui la canzone di protesta è già finita nel 1963 (!).
È stato un cantautore folk d’impegno civile, ma forse neanche lui lo sa, e di certo gli altri non hanno compreso che questa stagione per lui è alle spalle. Non ce la fa a sentirsi – e essere – la voce narrante di un movimento, qualsivoglia sia. Ma, in generale, Dylan nutre un intimo bisogno randagio di non avere briglie. “Sentiti libero” ce l’ha scritto a chiare lettere nella testa, e state pur certi che se qualcuno tenta di collocarlo da qualche parte, lui è già fuggito via da un’altra. Insomma, per parafrasare una sua canzone e il film su di lui diretto da Todd Haynes nel 2017 – I’m Not Here – non è mai qui. Quando le cose gli diventano troppo familiari, arriva il momento di disorientare prima di tutto sé stesso.
Con l’esibizione di Newport ’65, che occupa una corposa parte finale del film di James Mangold A Complete Unknown, Dylan, interpretato da un Timothée Chalamet estremamente credibile, compie quel rito che Freud definisce metaforicamente “uccisione del padre”. È un passaggio doloroso e necessario per diventare adulti. Scrive Alessandro Carrera in La voce di Bob Dylan: “nel momento in cui smise di credere nella promessa di comunità implicita nel folk revival, e da folksinger moralista si trasformò in predicatore di visioni surreali accompagnate da un gruppo rock, Dylan mise in crisi le stesse categorie grazie alle quali era stato possibile comprenderlo”.
A Newport, nelle edizioni precedenti, il giovanissimo Bob era stato accolto come manna dal cielo, perché la sua originalità, il suo carisma e la sua notorietà erano in grado di traghettare per la prima volta la musica tradizionale verso grandi masse. Erano tutti stupefatti, prima, che un provincialotto del Minnesota potesse interpretare con tanta autorevolezza quel patrimonio, attualizzandolo come mai nessuno era riuscito a fare. Si sarebbero di nuovo stupefatti, adesso, ma per altri motivi. “Non si fischietta in chiesa e non si suona rock a un festival folk”, chiosava il musicista e attore Theodore Bikel, citato nel libro Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica di Elijah Wald, al quale il film di Mangold si ispira. Ma nel luogo che lo ha consacrato come nuovo idolo del folk, Dylan decide che è arrivato il momento di recidere quel cordone ombelicale.
In un mondo che cammina lento, lui va a un’altra velocità. Come egli stesso scrive nell’autobiografia Chronicles: “facevo tutto in fretta. Pensavo in fretta, mangiavo in fretta, parlavo in fretta e camminavo in fretta. Perfino le canzoni le cantavo in fretta”.
Newport è un festival “folk”, orgoglioso delle tradizioni, geloso custode dei tempi eroici che furono. Si svolge nell’omonima località in un isolotto del Rhode Island. Anche se si è cautamente aperto alla modernità, è il luogo che, per esempio, come mostra A Complete Unknown, ospita esibizioni di spiritual delle origini, che mettono in scena schiavi incatenati intenti a spaccare pietre cantando work songs.
Quando arriva sul palco, il 25 luglio 1965, Dylan sembra un alieno piombato sulla terra. È vestito come un rocker, tutti gli strumenti della band sono elettrici: due chitarre, basso, organo e batteria. Altro che menestrello di Duluth.
The ghost of electricity.
È davvero uno dei momenti in cui la storia fa clic.
Sarà una manciata di minuti epici e di infernale frastuono. Appena il tempo di attaccare la spina, e la band parte con Maggie’s Farm, opportunamente rielettrificata rispetto alla versione acustica apparsa appena qualche mese prima sul quinto album di Dylan, Bringing It All Back Home.
Non è forse un caso che il brevissimo, fragoroso set cominci proprio con Maggie’s Farm.
Io alla fattoria di Maggie non ci lavoro più.
No, alla fattoria di Maggie non ci lavoro più.
Faccio quel che posso
per restare quel che sono
ma qui tutti pretendono
che tu sia come loro.
Alan Lomax e Pete Seeger, così come il Jack Elliott nel film di Martin Scorsese del 2019 Rolling Thunder Revue, parlano coi morti e sono in comunicazione costante con una tradizione immutabile; Dylan invece, a metà degli anni 60, è in contatto con i vivi, è un radar puntato sul futuro, un rabdomante sensibilissimo; è una spugna. Ammira i Kinks; l’anno precedente ha assistito all’invasione americana dei Beatles; ha ascoltato i Byrds, che hanno trasformato alcune sue canzoni in tintinnanti ballate elettriche. E soprattutto non accetta di essere accomodato in un ruolo scelto da altri, non può in alcun modo diventare un portavoce, una bandiera. Non è più l’interprete di antiche battaglie altrui, non si sente più obbligato a dover rieditare la lezione dei venerati maestri. Afferma sprezzante: “se volete ancora sentire quella roba, ascoltate Donovan”.
Dylan vive il terrore dell’omologazione, l’irrequietezza è la sua bussola; l’affermazione della propria indipendenza è l’unica fedeltà che è disposto a riconoscere. In quel passaggio di tempo sente un peso di cento chili sulle spalle, e invece ha necessità di viaggiare leggero, con la sua nuova giacca di pelle e i Ray-Ban neri.
Su Youtube si possono confrontare le due esibizioni di Newport, del 1964 e del 1965. Se si pensa che oggi il tempo viaggi troppo velocemente, quel confronto è alquanto istruttivo. Nel 1964 un Dylan solitario e pacioccone con la chitarra acustica sistemata a tracolla molto alta, con dolcevita e abiti di stoffa, esegue compiaciuto e osannato Mr Tambourine Man, con il pubblico che assedia il palco, e un mucchio di persone addirittura sul palco. Il presentatore lo aveva offerto alla folla con l’annuncio “lo conoscete, è vostro” (!). L’anno seguente, il pubblico è più distante dal palco, lui ha un atteggiamento quasi di sfida, la sua attitudine è completamente cambiata, sia nell’aspetto che nel suono imposto agli esterrefatti astanti. Pare che, durante la sua esibizione, un inferocito Pete Seeger abbia invano tentato di tagliare i cavi con un’accetta, e che nel retropalco si consumassero risse furibonde.
Quando tornerà in scena per il bis, dopo aver stordito gli spettatori con la micidiale tripletta Maggie’s Farm, Like A Rolling Stone, It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry, convinto dagli organizzatori a regalare a Newport un piccolo saggio acustico che non lasciasse troppo amarezza al pubblico, Dylan, ch’è già maestro di allusioni e allegorie, riappare da solo con la chitarra acustica e si congeda con un altro brano di certo non scelto a casaccio, It’s All Over Now, Baby Blue.
Lasciati alle spalle le pietre che hai calcato,
c’è qualcosa che ti chiama.
Dimentica i morti che hai lasciato, non ti seguiranno.
Il vagabondo che bussa alla tua porta
ha i vestiti che una volta avevi tu.
Accendi un altro cerino, ricomincia da capo,
e adesso è proprio finita, Baby Blue.
La svolta elettrica di Newport non impedirà a Bob Dylan di tornare indietro, di smentirsi, fare e disfare infinite volte la matassa delle sue svolte. Sarà un Joker capace di contenere vaste moltitudini, il principe dei trasformismi, a partire da come stravolge e ricompone ogni giorno, incessantemente, il proprio canzoniere, fino a renderlo irriconoscibile. Senza dover slittare l’orologio della sconfinata discografia dylaniana troppo in avanti, solo due anni più tardi, il musicista avrebbe pubblicato John Wesley Harding, un album dedicato a un fuorilegge vissuto nel XIX secolo, con arrangiamenti alquanto minimali, ben distanti da quel “sottile selvaggio suono mercuriale”, urgente e nervoso, dal quale era nata la svolta di Newport e i due dischi precedenti Highway 61 Revisited e Blonde On Blonde.
Nel frattempo, però, in quel 1965 Dylan è così deciso nella sua scelta, adesso che ha trovato la sua strada, da essere disposto a congedarsi anche da Woody Guthrie, il suo maestro, il padre per antonomasia. Nel film A Complete Unknown, Dylan gli fa visita in ospedale, ancora una volta. So Long, It’s Been Good to Know Yuh di Guthrie va in sottofondo. Non c’è più la sacrale sottomissione dell’allievo delle visite precedenti. Woody guarda Bob allontanarsi sulla sua moto. Sulle spalle non c’è più il peso di un passato insostenibile. L’uccisione del padre è completa, le catene sono spezzate.
La vostra vecchia via sta decadendo molto in fretta,
state a lato della nuova se non potete dare una mano,
perché i tempi stanno per cambiare.
(Bob Dylan, The Times They Are A-Changin’)
Le traduzioni di Alessandro Carrera sono tratte da Bob Dylan – Lyrics 1962-2001, Feltrinelli, 2004
Un sottile, selvaggio suono mercuriale è un libro di Daryl Sanders, Jimenez, 2019
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