11 febbraio 2025

POESIA e INTELLIGENZA ARTIFICIALE

AI, Poesia e la Crisi dell’Individuo: L’Impossibilità del Possibile. 1. Dalla parte della verità. ELISA DE SILVA In questa epoca di rivoluzione digi-cognitiva, mi capita di confrontarmi con artisti e poeti che patiscono l’AI non solo per la ri-producibilità tecnica (cfr. Benjamin), ma ancor più per quella che oggi è producibilità tecnica. L’AI, che con le AGI crea come e meglio dell’uomo, mette in crisi – come ho avuto modo di dire nell’ultima puntata di Techné e Poíesis – i concetti di proprietà, valore e, dunque, di uomo inteso come individuo. Ove la proprietà diventa dubbia, l’AI si pone come l’incarnazione del nuovo inconscio collettivo di junghiana memoria, quel già dato che permette la scoperta, ma non la creazione dal nulla. Contenitore di tutti gli umani contenuti, non solo, ma con la velocità di trasmissione dell’intero blocco del sapere simul da macchina a milioni di macchine: cosa impossibile per l’essere umano, che costruisce il suo sapere nel corso di un’intera vita di studi ed esperienze. La macchina, ci dicono gli scienziati e gli ingegneri dell’AI, ha saturato il linguaggio, immaginabile come una nuvola enorme contenente tutti i semantemi e i token di semantemi possibili, vicini per similarità semantica, in uno spazio così denso da coprire già tutti i possibili neologismi e combinazioni linguistiche, non solo di ogni lingua esistente, ma anche di ogni possibile lingua che voglia ancora strutturarsi. Ma il linguaggio non è solo parola. La parola del linguaggio è solo uno degli enti, ma anche immagini, suoni, strutture logico-matematiche, e tutto ciò che all’uomo singolo e persino alla totalità degli uomini, nel loro essere frammentati rispetto all’unità del sapere che nella macchina si invera, ancora sfugge – e sfuggirebbe per un tempo incalcolabile. Ebbene, gli effetti di tutto ciò sono evidenti, e ci meraviglia vedere come, dallo schermo di un PC, possano uscire versi vibranti di emozioni, melodie che dilettano l’udito e fanno vibrare le corde dell’anima, immagini pittoriche capaci di valicare ed evocare un oltre il comune senso della visione del reale che ai nostri occhi si mostra. Tutto questo vien fuori da uno schermo di un PC e ci sorprende ed emoziona proprio come quando vien fuori dalla bocca o dalla mano di un artista umano, o proprio come quando l’artista, l’homo faber, siamo noi stessi. “L’io è straniero in casa propria”, diceva già, più cento anni or sono, Freud. “L’altro è per noi l’inferno” dice Sartre, insieme e in opposizione a quell’Uno, nessuno e centomila di Pirandelliana memoria. L’altro, la cui interiorità è tanto distante da noi quanto lo è Dio; l’altro, che è insondabile, il mistero, il tremendum et fascinans. L’altro, oggi, è la macchina. Non che per i neuroscienziati – che con sicumera tanto assoluta quanto ingenua affermano che la coscienza è un prodotto o epifenomeno della mente-cervello (oggi riprodotta nell’AI) – le cose stiano in maniera più chiara e meno stupefacente che per l’uomo comune. Anche costoro, quando gli si richiama la loro equazione cervello = coscienza in relazione alla macchina, entrano in contraddizione, pronti ad ammettere di non sapere cosa sia la coscienza. Queste contraddizioni dell’analitica sono già da tempo risolte dalla grande Filosofia dialettica, inaudita e inaudibile. E perché? Perché mette in discussione proprio quella volontà di potenza, che l’uomo, in quanto uomo, è. Ma se metti uno specchio dinanzi al cannibale, il cannibale ti sbrana. Questo specchio è la grande Filosofia, che alla potenza rimanda l’immagine della somma impotenza. Ogni possibile è impossibile. E la necessità è ciò che il linguaggio stesso – che sia il povero linguaggio dell’uomo o la totalità che la macchina invera – nega nel suo stesso costituirsi come possibilità di agire sullo stante, di definire il mondo, di fare il mondo addirittura. La Deriva della Materia e il Patimento del Poeta Deriva delle derive del materialismo storico: “la materia informa, crea e accresce la coscienza: dimmi cosa fai e ti dirò chi sei.” Questa eco lontana e distorta della marxiana voce è oggi la straziante e patetica voce dell’artista e del poeta, che col suo fare – mutuato perfettamente dall’AI – si propone di rivoluzionare il fare stesso dal di dentro, per sabotare l’AI, come se questo non fosse ancora un fare che anche l’AI può fare. Ed ecco che ogni opposizione, ogni guerra non fa che riconoscere e dar corpo e distanza al suo nemico. Sappiamo che la negazione di qualcosa è impossibile. Ciò che si vuol negare, per essere negato deve essere posto, il che significa che deve “essere”. È. La Crisi della Proprietà e dell’Individuo Ogni uomo non può essere avulso dal concetto di volere, e dunque dal fare, e dunque dall’essere un corpo, mezzo e luogo di ogni piacere e dolore, a seconda che il Destino si mostri propizio o contrario al suo essere quella peculiare volontà che, a ogni ottenuto (piacere, sottocategoria del dolore), urla “non è il voluto” (dolore). L’uomo si bea della potenza che la Tecnica può dargli per il raggiungimento del suo proprio scopo, ma soffre quando quel proprio non è più tale, perché ogni proprietà – anche solo la proprietà intellettuale – implica per sé un valore personale. Ma se la proprietà entra in crisi, entra in crisi il valore e, dunque, il concetto stesso di individuo. E nemmeno al marxista piace l’oltrepassamento della proprietà quando questo si identifica col proprio profitto artistico e, dunque, col proprio valore di individuo. Ecco il patire, il dimenarsi, il gridare alla rivolta contro la potenza. Ma la rivolta implica la potenza stessa che si vuole combattere. Non si può certo scendere sul campo di battaglia impotenti o soccombenti, e se pure fosse, la rinuncia alla volontà è ancora una volontà. L’Impossibilità del Possibile La terza via dello scettico, la via di fuga, è l’impossibilità del possibile, ove la necessità continua a ripetere: L’essere è, e il non essere non è. Trovatela, oh scettici, una terza via oltre questa necessità. La poesia non serve perché non è serva. 2. Dalla parte della Volontà o Pathos. Si vuole recuperare una concezione engagée della poesia, dove il poeta è visto come un dissidente, un sabotatore dei codici linguistici del potere. Tuttavia, questa impostazione rischia di ridurre la poesia a un mezzo ideologico, piegandola a una finalità politica e strategica. La poesia, per sua natura, sfugge a una funzione univoca: non è solo uno strumento di lotta, ma anche un luogo di ambiguità, di apertura e di interrogazione continua. Se il linguaggio poetico si riduce a un mero atto di resistenza, non rischia di diventare esso stesso un nuovo dogma, con regole altrettanto rigide? Accettare senza problematizzarla l’idea che il capitalismo contemporaneo abbia svuotato il linguaggio, trasformandolo in una serie di segni “a-significanti”, ovvero strumenti di mera circolazione e riproduzione del potere; non tiene conto del fatto che il capitalismo non ha mai avuto un solo linguaggio egemonico, ma ha sempre incorporato molteplici codici, incluso il linguaggio della protesta e della critica. La cultura contemporanea è piena di forme poetiche che hanno trovato spazio nei media digitali, nelle piattaforme social, nei nuovi spazi di diffusione. La vera domanda da porsi non è se il capitalismo abbia svuotato il linguaggio, ma come la poesia possa reinventarsi senza cadere in una dialettica puramente oppositiva. Anche ammettendo che la poesia possa essere una forma di resistenza, occorre chiedersi: resistenza a cosa? Se il capitalismo immateriale ingloba anche la critica, se trasforma ogni gesto contestatario in un valore di mercato, allora anche la poesia sperimentale rischia di essere assorbita nel sistema che vuole combattere. La provocazione è: non è forse più sovversivo lavorare dentro le logiche del sistema, smontandolo dall’interno, piuttosto che porsi in un’eterna contrapposizione? La letteratura non è mai stata un blocco monolitico separato dalla realtà economica, e l’idea di un poeta che possa sfuggire completamente alle logiche di mercato è ingenua. Piuttosto, sarebbe interessante capire come la poesia possa riconfigurarsi nel nuovo contesto digitale senza perdere la sua forza espressiva. Se la poesia deve essere solo un atto di rottura, di smascheramento e di sovversione dei codici dominanti, non rischia di cadere in una sterile autoreferenzialità? La poesia non vive solo nel momento della sua negazione, ma anche nella sua capacità di costruire nuovi mondi di senso, nuove immagini, nuove possibilità di espressione. In questo senso, il problema non è solo combattere il linguaggio del potere, ma produrre nuove forme di esperienza. Non ci si può soffermare solo sull’aspetto negativo della questione, senza suggerire come una nuova poesia possa emergere oltre la semplice contestazione. Forse, più che un poeta-guerriero impegnato in una guerra contro il capitalismo, oggi servirebbe un poeta-alchimista, capace di trasformare i segni del presente in nuove possibilità di senso, senza cadere né nella resa né nella negazione sterile. Il patimento autentico della poesia è quello che nasce dall’intimo, dalla lacerazione del singolo, dall’essere scissi e consegnati al mondo senza alcuna garanzia di redenzione. Quando invece il dolore diventa collettivo e programmato, quando il poeta soffre “per” qualcosa e non “attraverso” qualcosa, allora la poesia si trasforma in retorica. E la retorica è la morte del mistero, il crollo dell’ambiguità feconda che fa del linguaggio un ponte tra il visibile e l’invisibile. Chi scrive per “combattere” il sistema dimentica che il sistema non si combatte solo con la negazione. Il potere non si spezza sbattendo i pugni sul tavolo, ma si insinua, si scivola dentro di esso, lo si contamina con l’ambiguità e con la sorpresa. La poesia non può ridursi a una barricata, perché la barricata è ferma, mentre la parola poetica è movimento, metamorfosi, sfuggente necessità. Si crede che opporsi a un linguaggio dominante significhi semplicemente negarlo, smascherarlo, distruggerlo. Ma il linguaggio del potere è abile: assorbe, riutilizza, trasforma in merce anche la critica che gli viene rivolta. La poesia che si erge a lotta, a sfida aperta contro il capitalismo, contro l’immaterialità dei segni, non si accorge di essere già stata assimilata, già trasformata in un altro tassello del sistema che vuole combattere. Non è forse più sovversivo mescolarsi al nemico, scardinare le sue regole dall’interno, spiazzarlo con una lingua che non si lascia addomesticare? Chi scrive poesia con il fuoco dentro, chi lascia che il dolore non sia una dichiarazione di guerra ma un percorso senza nome, crea qualcosa di indistruttibile. Qui sta la differenza tra la poesia intimista e quella engagèe: la prima non si preoccupa di piacere, di convincere, di servire uno scopo. La seconda, invece, guarda il pubblico, chiede riconoscimento, pretende che il suo grido sia ascoltato. E così facendo, si svuota. La vera poesia non è mai per qualcosa, non si scrive per denunciare, non si compone per risvegliare le coscienze. Si scrive perché si deve scrivere, perché il dolore è troppo grande per restare chiuso nel corpo, perché il mistero della parola non può essere arginato da uno slogan. Se la poesia è un’arma, allora è già un oggetto con uno scopo. Se è un manifesto, è già incasellata in un’ideologia. Se è un grido di battaglia, allora è già una funzione. Ma la poesia vera non deve servire a nulla, e proprio in questo risiede la sua più grande potenza: l’inutilità feconda, la resistenza senza programma, l’irripetibilità di una visione che non chiede il permesso per esistere. In un mondo dove tutto deve avere una funzione, la vera rivolta non è nell’ergersi contro il potere, ma nel rifiutarsi di appartenere a una causa, di essere ridotti a strumento. La poesia è il luogo in cui il linguaggio si ribella a ogni funzione, a ogni scopo, a ogni finalità. E proprio per questo, continua a sfuggire al dominio di chiunque voglia usarla come arma. Per contro, scrivere d’amore non è un atto di resa, né una fuga dalla realtà. È piuttosto un oltrepassamento, un rifiuto della dialettica che incatena il linguaggio alla funzione, alla militanza, alla sterile opposizione che si nutre della stessa logica che vorrebbe abbattere. Se la poesia deve servire, allora è serva. E ogni servitù è un vincolo, un radicamento nel sistema che si vorrebbe negare. Ogni negazione dello stante si pone come affermazione dello stante stesso, perché chi si erge a oppositore rimane dentro la struttura che combatte, è il suo riflesso contrario, il suo negativo necessario. Ecco perché il gigantismo oppositivo è un’illusione: chi si affanna a combattere il linguaggio dominante finisce per essere già dentro quel linguaggio, per alimentarlo, per rafforzarne la necessità dialettica. Il sistema non si combatte opponendosi ad esso, ma dimenticandolo, superandolo, sciogliendolo nell’unità originaria del logos. La società non è una somma di individui, ma una totalità formale che è, allo stesso tempo, informe e indeterminata. Cercare di definirla, di darle un nome compiuto, è già una perdita. Il poeta che si fa portavoce del collettivo crede di estrarre una misura dall’indistinto, ma in realtà si sta solo astrendo dalla totalità per ridurla a un concetto, a una posizione, a un’ideologia. Il vero atto poetico non è determinare, ma astrarsi concretamente dalla totalità, portare il linguaggio al punto in cui esso si dissolve nella sua stessa impossibilità, nel momento in cui smette di essere descrittivo per farsi puro evento. La poesia è ciò che resta dopo la lotta mortale con il linguaggio, è la materia che non si piega alla volontà di definizione, che non può essere ridotta a funzione, che non può servire perché esiste oltre il concetto di servizio. L’opposizione è il residuo di una mente che si pensa ancora nella logica del conflitto, della divisione, della necessità di avere un nemico per definirsi. Ma oltre l’opposizione sta l’unità del logos, il luogo in cui ogni frammento ritorna alla sua origine indivisa. Eraclito lo sapeva bene: la guerra è padre di tutte le cose, ma la guerra è anche ciò che deve essere superato. Il poeta non è colui che si getta nel caos per combatterlo, ma colui che lo abbraccia fino a scioglierlo in una nuova sintesi, che non è né sintesi dialettica né risoluzione forzata, ma pura espressione dell’essere nel suo farsi e disfarsi. Ecco perché scrivere d’amore è già di per sé un gesto rivoluzionario. Non perché ignora il negativo, ma perché lo oltrepassa. Non perché rifiuta il dolore, ma perché non ne fa una bandiera. Il vero poeta non denuncia, non oppone, non si fa servo di nulla, neppure della lotta. Il vero poeta esprime se stesso, e proprio in questa autenticità si sottrae a ogni tentativo di incasellamento, di ingaggio, di subordinazione a uno scopo. Non c’è libertà nella negazione. La libertà è nell’essere, e la poesia è il doloroso anelito di uscire dalla gabbia delle volontà verso la libertà propria al solo Destino della Necessità. Elisa de Silva

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