25 ottobre 2024

COSA VUOL DIRE "TRANSCULTURALE"?

 


Che cosa vuol dire transculturale? Parte I

Alfredo Ancora
25 Ottobre 2024

Il termine transculturale non vuole indicare nuove etichette nel campo già affollato delle discipline psicologiche, psichiatriche, sociali. Con la parola transculturale si vuole cercare di costruire una direzione di cambiamento nel processo di osservazione di un dato fenomeno scientifico e non, passando attraverso (trans) e non sopra i modi di pensare e le loro manifestazioni culturali

Foto ed elaborazione di Giovanni Izzo

Spesso si avverte un certo disagio da parte di coloro che sentono i limiti dei mezzi di osservazione di fronte al nuovo mondo multiculturale che si sta configurando. Come ben dice Michel Serres «Il vecchio mondo non comprende ancora, cercando di gestire il nuovo mondo, la nuova società, i nuovi uomini con mezzi politici, economici, finanziari culturali… tratti dal mondo scomparso!» (in G. Polizzi e M. Porro 2015). Un diverso approccio potrebbe iniziare dal considerare i migranti e i rifugiati come rappresentanti di altri mondi e modi di conoscenza con cui rapportarsi e non una minaccia da cui difendersi. Diventa importante (e necessario) disegnare nuove traiettorie per procedere nell’attuale dibattito, proponendo direzioni verso le quali incrociarsi e inter-correlarsi, senza tracciare solo campi d’azione ben definiti nei loro confini e quindi più rassicuranti. Una società complessa e in trasformazione – a dispetto di chi voglia ancora negarlo – può mettere in difficoltà l’operatore psico-sociale, evidenziandone anche i limiti dei servizi in cui lavora. Una “modalità transculturale” è importante per attraversare nuove contesti di conoscenza nella ricerca, nella cura, nell’assistenza a persone di diverse culture . Non aiuta certo rimanere ancorati ad una posizione culturocentrica, secondo cui ogni società pensa che la sua cultura sia “centrale” rispetto al “resto” con cui viene in contatto.

È quindi necessario un viaggio mentale, una mobilitazione dentro e fuori di sé per prepararsi a un nomadismo di pensiero-azione, necessario per bagnarsi in altro e nell’altro, contaminando e contaminandosi. La cultura, concetto quanto mai vago e insieme complesso, può diventare allora un momento di materializzazione dell’incontro con l’altro, con tutti i rischi che una sfida conoscitiva comporta, previa sospensione o adeguamento delle sue vecchie categorie di pensiero.

Il termine transculturale non vuole indicare nuove etichette nel campo già affollato delle discipline psicologiche, psichiatriche, sociali. Con la parola transculturale si vuole cercare di costruire una direzione di cambiamento nel processo di osservazione di un dato fenomeno scientifico e non, passando attraverso (trans) e non sopra i modi di pensare e le loro manifestazioni culturali. In questo passaggio da pratiche e saperi diversi, si assiste a contaminazioni ed adattamenti che ogni incontro/scontro con culture altre sollecita e provoca. Tale attraversamento crea la possibilità di mettersi in discussione, di “scommettersi” da parte dell’operatore-terapeuta-ricercatore (secondo il pensiero/azione che viene adoperato). In caso contrario si rischia di riproporre la solita immobilità, frutto di rigide griglie conoscitive di “un oggetto” sempre più lontano e sempre più da studiare, tanto caro a teorie eurocentriche e etnocentriche dure a morire.

In realtà, “l’oggetto è diventato da tempo soggetto! È qui fra noi, con tutto il suo carico di sofferenza, di diversità e anche di ricchezza. La sua presenza, fra l’altro, pare continuamente chiederci come ci poniamo di fronte a quel “qualcosa che avanza”, a quello straniero che irrompe nei nostri pensieri, oltre che nei nostri servizi ambulatoriali, centri di accoglienza, comunità, e che spesso ci fa riflettere su quanto noi ci sentiamo stranieri a noi stessi! È soltanto uno scontro/incontro culturale con le sue visioni del mondo, con le sue concezioni sulla malattia e sulla cura, con le sue credenze? O anche qualcosa che ci muove dentro? Una società mobile mette sicuramente a dura prova la tenuta dell’operatore e i contesti nei quali egli lavora. Un quadro necessariamente dinamico, permeabile a flussi migratori forieri di attraversamenti “altri”, oltre atteggiamenti difensivistici, non connessi con la realtà in movimento. Per questo parliamo di una modalità “transculturale”, di un atteggiamento mentale capace di sospendere codici di conoscenza noti e di acquistarne di nuovi, senza la paura di smarrirne quelli precedenti.

Urge un passaggio a una posizione multicentrica in cui il “centro” non sia appannaggio di una sola cultura (come sosteneva l ‘antropologo cubano Ferdinando Ortiz creatore del concetto di “transculturacion”, per rappresentare la trasformazione delle culture, senza alcuna gerarchia).

L’operatore di una società molteplice deve essere pronto a una mobilitazione dentro e fuori di sé, a una preparazione ad un nomadismo di pensiero/azione, necessario per bagnarsi in altro e nell’altro, perdendo forse un po’ di purezza metodologica e aprendosi a ricche contaminazioni. È da tempo ormai che l’immagine dell’osservatore inerme non va più bene; egli ha bisogno, nel momento che interagisce con il contesto della sua ricerca, di ingranare un’ulteriore marcia: quella dell’”esploratore”, un po’ “sporco”, con delle macchie addosso e segni “del contagio”! Il viaggio diventa allora meno esotico e mitico per assumere le sembianze di un processo di trasformazione all’interno dei propri pregiudizi e delle proprie visioni del mondo, toccando veramente quanto sia difficile superare le dogane interne. Tale processo richiede una mobilità mentale necessaria a costruire quei ponti di collegamento “fra i fatti della vita e ciò che sappiamo oggi sulla natura della struttura e dell’ordine” di cui parlava Gregory Bateson nel suo verso un ecologia della mente per coniugare menti e persone, malati e contesti di cura, sconfinando in territori dove ”il cosiddetto intervento tecnico” non sembra essere sufficiente.

Il mondo dei migranti rappresenta un occasione per sperimentare nuove modalità per entrare in contatto con “l’altro”, non con il “diverso di turno”. Una esperienza a tutto campo per la ricerca di nuove chiavi d’apertura e l’attivazione di canali comunicativi, fondamentali per chi si pone in una relazione di aiuto e cura. L’incontro diventa un “luogo fisico, psichico ed emotivo” dove espletare una comunicazione in carne d’ossa, aperta a nuove acquisizioni nel processo di conoscenza reciproca, sia di chi chiede, sia di chi dà. L’operatore dovrebbe poter usufruire di strumenti formativi idonei ad affrontare i disagi con cui viene a contatto, dove l’elemento culturale (e sociale) connota la relazione di cura. I “nuovi utenti” con problematiche psichiche come migranti, rifugiati, richiedenti asilo, spesso trovano di fronte “vecchi servizi”, in difficoltà nel ridefinire domande complesse.

L’operatore transculturale del terzo millennio è la nuova figura di cui deve disporre la società che si va delineando – nonostante “compressioni” e opposizioni di vario tipo – in cui contesti di cura, sistemi culturali e sociali si intersecano (e influenzano)a vicenda. L’approccio verso “lo straniero” può divenire un’occasione di crescita, oltre che di confronto con altre culture, necessario a un pensiero arroccato a difendere solo la sua “unicità” e quanto mai bisognoso di linfa vitale.

Vorremmo qui raffigurare il percorso transculturale come una possibile direzione nel processo di conoscenza. Ci serviamo quindi di un breve percorso per illustrarne tappe e significati: a) Origini e passaggi; b) Le possibili applicazioni: psichiatria e psicoterapia transculturale; c) Per approfondire attraversamenti culturali.

Se volessimo cercare un quadro di riferimento del termine Transculturale, una parola/pensiero, dovremmo prendere in esame – fra i tanti – almeno tre autori per noi significativi. Precisamente: lo psichiatra Emile Kraepelin (1856-1926), l’antropologo Ferdinando Ortiz (1881-1969) e il filosofo Wolfang Welsch (1944). Ognuno nella sua opera ha rappresentato un punto di riferimento fondamentale per ogni ricercatore, indipendentemente dai suoi interessi specifici (filosofici, psicoterapici, antropologici etc.). Per quanto riguarda il mio campo di ricerca ho tenuto presente soprattutto Ferdinando Ortiz, antropologo cubano, il cui concetto di transculturacion mi è sembrato più idoneo a esprimere la mobilità e la dinamicità dei processi psichici e culturali, alla base della psichiatria e psicoterapia transculturale (ben rappresentati in Europa da Julian Leff  [2] George Devereux [3].      

Emile Kraepelin [4], psichiatra e psicologo tedesco, noto anche per i suoi studi sulla dementia precox e mania depressiva, scrisse Vergleichende psychiatrie, psichiatria comparata. Un’opera sicuramente “rivoluzionaria” per quei tempi. Come è noto l’autore dopo un viaggio a Giava nel 1904, dove visitò l’ospedale psichiatrico locale, notò differenze nelle manifestazioni cliniche fra i pazienti giavanesi rispetto a quelli tedeschi (rarità del quadro catatonico, di allucinazioni uditive, etc.). Più precisamente ipotizzò che l’assenza di idee di colpa e tendenze suicidarie nei quadri depressivi fossero da rapportarsi anche a una “diseguaglianza di razza” fra quella tedesca e indonesiana. Kraepelin resta una pietra miliare nella storia della psichiatria e non possiamo certamente trascurare le sue ricerche pionieristiche svolte fuori dalla Germania (che oggi possono sembrare “anacronistiche”). Basti pensare che il suo illustre connazionale Sigmund Freud, pur non rimanendo indifferente alle tematiche antropologiche [5],  non si staccò mai da Vienna (a differenza di C. Gustav Jung che fece ricerche anche fuori dal suo Paese).

Con il concetto di transculturalità Wolfang Welsch [6], filosofo tedesco postmoderno esperto di estetica, intendeva focalizzare come le culture odierne non sono più omogenee e monolitiche ma mostrano diverse connessioni e interdipendenze. Sul piano dell’identità, su cui si sono cimentati diversi autori, egli sostiene che non è fissa e immobile, ma il prodotto di fattori di diversa origine culturale. Quindi, gli individui di oggi, compresi migranti e rifugiati, sono necessariamente transculturali. L’essere un concetto mobile [7] consente ad essa (l’identità) di interagire meglio perché più aperta alle diverse modalità comunicative di un mondo in continuo movimento. Il merito del filosofo tedesco è quello anche di aver riconosciuto a un suo illustre connazionale, Friedrich Nietzsche, sostenitore del «soggetto come moltitudine» un’analogia con il concetto della transculturalità. In sintesi Welsch afferma come la società moderna, complessa e transculturale, sia necessariamente inclusiva e sempre più interconnessa e per questo un baluardo contro teorie etnocentriche che difendono pretestuose purezze dure a riconoscere l’esistenza di un mondo sempre più ibrido e meticciato.

Ferdinando Ortiz, antropologo ed etnomusicologo, utilizzò il termine transculturación (transculturazione)per la prima volta nell’opera Contrapunteo [8] cubano del tabaco y el azúcar pubblicata nel 1940 per indicare il fenomeno della convergenza e della fusione di culture differenti. In particolare, evidenziò il dinamismo della cultura cubana attraverso la pratica del «toma y daca» (“prendi e dai!”) [9]. Egli attinge a questa metafora musicale (il contrappunto) per accentuare l’originalità e la dignità delle diverse culture, ognuna con il suo valore specifico indipendentemente dall’eventuale accordo finale fra di esse. Riconoscere ad ognuna cultura ricchezza e diversità vuol dire mettere da parte pretese egemoniche. Non c’è spazio per culture “superiori”!

Più approfonditamente Ortiz descrive la società cubana utilizzando la diversità (e contrapposizione) di due prodotti caratteristici dell’isola: tabacco e zucchero. L’obiettivo del saggio è di esporre attraverso questa dettagliata analisi – per contrappunto – la sua teoria della transculturazione, fenomeno di commistione e contatto di culture diverse che si influenzano reciprocamente. Come è noto zucchero e tabacco sono due prodotti che si contrappongono sia a livello economico sia a livello sociale, ma nella suggestiva raffigurazione dell’autore prendono le sembianze di due personaggi importanti della storia cubana: Don tabacco e Donna Zucchera (asucar in spagnolo è femminile!). Il tabacco è amaro e possiede un aroma. Lo zucchero è dolce e non ha odore, il tabacco è audacia, lo zucchero è prudenza. Il tabacco è maschile, lo zucchero è femminile.

Uscendo dalla rappresentazione scenica (e originale) dei personaggi che si contrappongono e interagiscono fra di loro, resta il messaggio fondante dell’autore divenuto nucleo fondante delle nostre ricerche teorico-cliniche. La dimensione transculturale ha caratterizzato un filone di pensiero del mondo “psy” (fra cui chi scrive) attento alle contaminazioni, al meticciamento per cui ogni segno/sintomo viene inserito nel suo contesto culturale e sociale – non decontestualizzato – in nome di cosiddette linee guida oggettivanti e neutrali. Le applicazioni cliniche della psichiatria e psicoterapia transculturale [10] sono uno dei suoi possibili sviluppi. Riprendendo anche Deleuze e Guattari (2017) [11] consideriamo la psichiatria transculturale come «una scienza dei margini, degli interstizi, della liminarità connaturata alla dimensione dell’incontro e della relazione con tutti gli imponderabili a cui questa linearità conduce». In questa direzione la consideriamo come una scienza di confine e di confini [12], un percorso, un andirivieni attraverso le culture, con l’acquisto di nuovi codici senza la paura di smarrire la chiave della cassetta di sicurezza del nostro sapere! Parliamo di “modalità transculturale” per connotarne un atteggiamento mentale aperto e flessibile, atto a costruire un pensare/agire transculturale, necessario ad avvicinarsi ai nuovi fenomeni che una società sempre più in movimento pone, richiedendo uno “sguardo più da vicino”. Con la proposizione Trans riusciamo meglio a raffigurare l’idea di processo conferendogli un senso attivo e progettuale.

In sintesi l’espressione “psichiatria transculturale” non vuole introdurre una nuova etichetta nel campo già affollato di termini tecnici delle discipline psicologiche e psichiatriche, bensì cercare di costruire una direzione di cambiamento nel processo di osservazione, passando attraverso (non sopra) i vari stili di pensiero e le loro manifestazioni culturali. In questo passaggio fra pratiche e saperi diversi, si assiste spesso a contaminazioni e adattamenti che ogni incontro/scontro con culture altre sollecita e provoca. Tale attraversamento rende possibile all’osservatore, al terapeuta, al ricercatore, di mettersi in discussione, di scommettersi. Se non si coglie questa opportunità, si rischia di ingabbiare in rigide griglie conoscitive “un oggetto”, sempre più lontano e sempre più “da studiare”, tanto caro a teorie etnocentriche dure a morire. In realtà, l’oggetto è diventato da tempo soggetto! È qui fra noi, con tutto il suo carico di sofferenza e di diversità. La sua presenza, tra l’altro, pare continuamente chiederci come ci poniamo di fronte a quel “qualcosa che avanza”, a “quello straniero” che irrompe nei nostri pensieri oltre che nei nostri servizi ospedalieri e ambulatoriali con la sua visione del mondo, con la sua concezione della malattia e della cura, con le sue credenze.

Una società complessa, divenuta da tempo multiculturale e multietnica – a dispetto di chi voglia ancora negarlo – può mettere in difficoltà l’operatore non preparato [13] e porre in forse l’adeguatezza dei servizi in cui lavora. Una “modalità transculturale” forse può aiutare in quegli attraversamenti verso altri mondi e modi di conoscenza, rendendo possibile una modificazione dell’orizzonte della ricerca, della cura e, in generale, dell’approccio ad eventi e persone di diverse culture [14]. Non aiuta certo rimanere ancorati a una posizione culturocentrica, secondo cui ogni società pensa che la sua cultura sia “centrale” rispetto al “resto con cui viene in contatto”.

È quindi necessario un viaggio mentale, una mobilitazione dentro e fuori di sé per prepararsi a un nomadismo di pensiero-azione, necessario per bagnarsi in altro e nell’altro, contaminando e contaminandosi. La cultura, concetto quanto mai vago e insieme complesso, può diventare allora un momento di materializzazione dell’incontro con l’altro, con tutti i rischi che una sfida conoscitiva comporta, previa sospensione o adeguamento delle sue vecchie categorie di pensiero [15]. La questione si sposta sul pensare/agire dell’operatore transculturale del terzo millennio, calato in un processo trasformativo che connota ogni incontro di conoscenza e di cura. Una figura simile a quella “del terapeuta del deserto” precisando che la parola terapeuta non si riferisce solo al medico o allo psicologo sensu strictu. Esso va allargato, prendendo spunto dai padri del deserto che erano anche medici, psicologi, educatori: «Ognuno di noi è invitato ad essere terapeuta, cioè quella persona che si prende cura del corpo, della psiche, della dimensione poetica, alimentandosi alla fonte del soffio» (2010) [16].

Alla luce di quanto detto finora volevamo accennare a una iniziativa che vorrebbe intercettare le richieste in questo campo di strumenti formativi. La nascita di una collana di testo ad hoc, di «ingegneria epistemologica» (Gregory Bateson) vorrebbe contribuire a costruire ponti e collegamenti fra differenti saperi. L’obiettivo è di disegnare direzioni verso le quali incrociarsi e inter-correlarsi, mettendo a fuoco mondi e i modi nuovi di studio, di ricerca, di cura “per seguire il passo” del nuovo che avanza: processi migratori, società multiculturali, nuovi nuclei familiari, di gruppo, di coppia, etc.. Il mondo in movimento rappresentato da popoli, culture, costumi, credenze invia segnali e bisogni di nuovi approcci atti ad attraversamenti di culture. Per cui si vuole dare voce a tutte quelle perturbazioni proprie di ogni sapere, senza la prevaricazione di uno sull’altro ma nel rispetto della pari dignità. Non esiste una cultura migliore dell’altra: «potenzialmente ogni cultura è tutte le culture» (Paul Feyerabend).

Questa proposta vorrebbe posizionarsi su spazi aperti dove le culture si definiscono e vengono ridefinite. Gli stranieri, i migranti sono espressione di prodotti culturali (Bateson) con cui è necessario confrontarsi reciprocamente più che difendersi da un possibile attentato alla integrità della propria cultura. Abitiamo tutti in una terra di frontiera e dovremmo, di conseguenza, essere consapevoli di pensare, agire, educare, curare su una linea di confine fisica e invisibile, concreta ed utopica. Lì in uno spazio reale ed ideale, l’osservatore/ricercatore/terapeuta si colloca come methòrios, ossia colui che sta sulla frontiera con lo sguardo rivolto al suo territorio e allo stesso tempo proteso oltre il confine, pronto con il suo orecchio ad ascoltare le ragioni dell’altro. Il confine, il limen, la soglia, sono anche luoghi dell’anima che ci fanno sentire con gli occhi le diverse esperienze, i valori e le strategie di sopravvivenza e con la mente la loro forza contaminante e trasformativa.

Nelle nostre società “autocentrate” c’è bisogno di un decentramento osservativo, di tentativi di “dissoluzione del centro”, perché vengano fuori istanze periferiche di noi, degli altri e di tutti quei fenomeni culturali definiti minori. In queste “terre del pensiero” pullulano fermenti, movimenti dalle forti tensioni, scambi e contatti, collisioni e collusioni, trasformazioni e resistenze dove nuovi e vecchi saperi vengono continuamente in contatto. La collana Attraversamenti culturali vuole intercettare questi “germogli creativi” e offrire un nuovo ritmo del conoscere, polifonico, aperto a pause, interruzioni e contrappunti.

Un’ultima considerazione: alla luce di queste premesse, possiamo chiederci cosa significhi occuparsi di scienza oggi, in un mondo di passaggi e di gente di passaggio? Siamo veramente sicuri che il tipo di società che stiamo cercando di costruire preveda (anche) l’uomo, inteso come “animale epistemologico” con le sue sfumature, i suoi dettagli, le sue debolezze, le sue domande e le sue diverse “anime” di cui è composto: la socialità, la culturalità, l’etica, la spiritualità? 


Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024


Note

[1] in Michel Serres, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Riga 35, Marcos Y Marcos Milano, 2015.

[2] J. Leff, Psichiatria e culture una prospettiva transculturale, Sonda Torino, 2008

[3] G. Devereux, Saggi di etnopsicoanalisi complementarista, FrancoAngeli Milano, 2013 (nuova ed.)

[4] Considerato da molti il fondatore della psichiatria moderna scrisse Vergleichende psychiatrie (Psichiatria comparata) Centralblatt für Nervenheilkunde und Psychiatrie, 27 (15): 433-437  (1904a) e Psychiatrisches aus Java: 231, in: Jahresversammlung des vereins bayrischer irrenarzte. Centralblatt für Nervenheilkunde und Psychiatrie, 27 (15): 468-471. (1904b)

[5] Si fa riferimento alle opere del cosiddetto Freud “Antropologico” dalle Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1914), Il disagio della civiltà (1929) fino alla sua ultima opera, L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Tre saggi 1934-38. I sentimenti sociali derivano, per lui, dall’identificazione con gli altri, sulla base degli ideali dell’Io partecipati, cioè dei valori culturali. Soprattutto in Totem e tabù (il cui sottotitolo è: “Concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici”) 1913, Freud descrive il parallelo fra i rituali magici dei primitivi e la ripetizione compulsiva e i processi primari dei nevrotici. Così come i nostri antenati vivono nel rispetto del Totem, i bambini e i nevrotici vivono nella paura di trasgredire i tabù: esisterà allora una relazione fra “primitivi, nevrotici e bambini”, quindi tra ambiti antropologici e psicoanalitici. Uccidere il totem (cioè il padre) e sposare le donne che appartengono al Totem (cioè alla sua famiglia) racchiude tutta «l’ambivalenza affettiva sia delle società arcaiche sia dei processi psichici più infantili» come sostiene F. Laplantine (L’etnopsichiatria, Tattilo Editore Roma, 1973). Lo stesso George Devereux considerava Freud (con cui aveva un rapporto, ora di accettazione tout cour,t ora di differenziazione dal suo metodo ortodosso.)non… «come il fondatore di una nuova scienza, ma come un psico-sociologo particolarmente meticoloso che ha condotto il suo lavoro sul campo tra gli indigeni di Vienna e ha formulato una serie di conclusioni generali aventi il tratto dei soli viennesi…». Saggi di Etnopsicoanalisi complementarista (cit. 2014) cap. III: 37.

[6] Cfr. anche D. Reichardt (2017), Teoria della francofonia transculturale. Il concetto di “transculturalità” in Wolfgang Welsch e il suo interesse nella didattica. Novecento Transnazionale. Letterature, Arti e Culture1, 40–56. https://doi.org/10.13133/2532-1994.

[7] Sul concetto mobile dell’identità cfr. A. Ancora, Verso una cultura di dell’incontro Studi per una terapia transculturale, FrancoAngeli, Milano 2017: 96-100.

[8] In italiano contrappunto, termine derivato dall’uso proprio della musica del sec. XIII di mettere una nota contro l’altra (punctum contra punctum ), che nella prassi musicale odierna designa l’arte di combinare con una data melodia una o più melodie, più o meno autonome; nella polifonia è dato dalla sovrapposizione delle melodie in senso orizzontale (mentre le relazioni tra note in senso verticale costituiscono l’ armonia. Cfr Ferdinando Ortiz Contrappunto cubano del tabacco e lo zucchero le origini del pensiero transculturale Borla Roma, 2024, nuova ed. (di prossima pubblicazione come n. 1 della Collana, cui seguiranno i seguenti titoli: 2) Rita El Kayat, La violenza sulla donna nelle culture tradizionali; 3) Alfredo Ancora, La formazione Transculturale un nuovo modo di pensare la cura; 4) Cecile e Edmond Ortigues L’Edipo Africano decolonizzare il sapere della cura.

[9] R. Terranova Cecchini Introduzione a A. Ancora, La consulenza transculturale della famiglia i confini della cura (FrancoAngeli, sec. ediz. Milano 2002: 18-19

[10] Preferiamo questo termine transculturale, più di interculturale o termini simili per sottolinearne maggiormente gli aspetti dinamici, processuali e reciproci, oltre le vecchie definizioni di solo di “confronto o di comparazione,sic et simpliciter, di un determinato disagio all’interno di due o più culture differenti” (Douglass R. Price – Williams, 1975).

[11] G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani capitalismo e schizofrenia, Orthotes Nocera Inferiore (SA) 2017:56

[12] Cfr A.Ancora La consulenza transculturale della famigla i confini della cura, 2002 (nuova ed.) cit: 24-25.

[13] Il problema della formazione dell’operatore è una questione molto delicata non sempre affrontabile con “logiche di mercato”. Spesso ad una domanda di formazione sempre più crescente non sempre viene data una risposta adeguata Basti pensare al proliferare di “scuole e scuolette” di formazione ad hoc (non tutte degne di questo nome). Sembra che il pullulare di questi “luoghi della formazione” non con qualche presunzione indichi anche un bisogno di delega a posti asettici e decontestualizzanti dove poter imparare come comportarsi nell’incontro con l ‘altro, il migrante, il rifugiato o il diverso di turno! Forse bisognerebbe prendere in considerazione anche i luoghi dove nasce il disagio, dove l’operatore lavora, valorizzando la sua esperienza anche in funzione formativa con l’aiuto di aiuti esterni alla struttura (cfr. A Ancora,2017, cit.: 218-223.

[14] Un’altra applicazione della modalità transculturale è costituita dalla sua applicazione nella psicoterapia transculturale e precisamente nei Gruppi transculturali (come e noto la dimensione gruppo per molti popoli è esistenziale, un modo di essere e di vivere. Per cui proporre incontri di gruppo vuol dire anche offrire l’esperienza di un viaggio insieme che diventa il momento di una possibile storia scritta o riscritta insieme. Per approfondire le esperienze di Psicoterapia di gruppo transculturale, cfr. anche A. Ancora Quale psicoterapia: un ‘esperienza clinica di gruppo in I costruttori di trappole del vento formazione pensiero e cura in psichiatria transculturale FrancoAngeli Milano,2010, sec. ed.: 45-55.

[15] A proposito di un nuovo lessico cfr. Per una semiotica transculturale in A. Ancora Verso una cultura dell’incontro 2017 cit.: 74-105)

[16] I terapeuti del deserto di L. Boff, J. Y. Leloup, Gribaudo Milano 2020.

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