ITALIANI E
GUERRE
Parlare di
eserciti e di guerre può rivelarsi un esercizio ben poco premiante. Non è forse
un caso che la storia militare, e più in generale gli studi in materia, in
Italia abbiano avuto scarso seguito. A fronte di un numero significativamente
ristretto di ricercatori che si sono dedicati all’indagine sull’evoluzione e le
trasformazioni dell’istituzione militare, riversando i risultati dei loro
lavori sia in ambito accademico che nella pubblicistica, il tema in sé continua
ad essere osservato da molti come sostanzialmente estraneo rispetto
all’orizzonte della vita comune. Oppure viene banalizzato, semplificato,
ricondotto a letture tanto affrettate quanto semplicistiche. La diffidenza, che
in alcuni casi si trasforma in aperta ostilità, verso riflessioni sul merito
della vita e della morte in divisa, deriva senz’altro da molteplici fattori
storici. L’Italia non è un paese il quale nutra in sé maggiori sentimenti
pacifisti rispetto al resto del consesso europeo, che resta il vero metro con
il quale vanno misurate differenze e analogie di condotta. Tuttavia, nella sua
storia più recente, dall’unificazione in poi, proprio sul terreno non
propriamente bellico bensì militare in senso più lato, si sono manifestati una
serie di nodi che ad oggi rimangono irrisolti. Il primo tra tutti è un debole
contratto sociale, ossia una sfiducia reciproca tra ordinamenti istituzionali e
cittadinanza, quindi tra pubbliche amministrazioni e individui privati.
SE LA
DIFESA CON LE ARMI del
perimetro comune conosciuto come «Patria», al netto di qualsiasi considerazione
etica di principio, per la nostra Costituzione è «sacro dovere del cittadino»,
la considerazione che le Forze armate hanno raccolto ha spesso polarizzato
l’opinione pubblica. Nel pensiero conservatore è stata tematizzata, sotto il
velo di richiami a idealità e sentimenti più o meno «nobili», come uno
strumento per governare parte dei mutamenti che hanno attraversato la società
italiana dall’Unità in poi.
Di fatto,
per questo campo politico e ideologico tutto ciò che ruota intorno al ricorso
alla funzione militare è stato inteso come uno strumento di disciplinamento
delle classi sociali. Un tale approccio, ad oggi è ancora saldamente presente
nei ritualismi, nelle iconografie, nei linguaggi e nei mitologemi che si
accompagnano alle destre, costituzionali e non, quand’esse tematizzano lo
spazio pubblico come un territorio da gerarchizzare. Speculare a tale
approccio, ancorché inverso, è quello che, nel nome dell’inclusione e della
progressiva estensione del campo dei diritti, ha sviluppato perplessità, e poi
aperto sospetto, verso gli apparati ai quali è consentito il legittimo ricorso
alla forza. In ciò ha letto, e continua a leggere, la perversione del principio
di autorità in autoritarismo. Peraltro, l’internazionalismo si è sempre
presentato come l’opposto dei nazionalismi. Ciò facendo, ha sostituito alla
chiamata alla leva la chiamata alle armi del «popolo» intero.
Un secondo
nodo è quello della concreta storia degli italiani, dove il fantasma della
guerra, ossia di una violenza istituzionale di massa finalizzata politicamente,
ha accompagnato quasi tutte le generazioni, quanto meno fino al 1945. Il
ripudio del ricorso ad essa, sancito nella Costituzione, se ha un valore
programmatico, tuttavia non impedisce che, nel quadro del persistente mutamento
geopolitico, concretamente le cose siano in più occasioni andate diversamente.
LA
PROFESSIONALIZZAZIONE delle
forze armate, in un contesto europeo e all’interno di una rete di accordi
istituzionali vincolanti, spinge da tempo in tale senso, con missioni di guerra
variamente giustificate. Di certo, l’esperienza bellica non è più affidata ad
un esercito di massa bensì ad un insieme di reparti la cui stessa ragione
d’essere riposa nel costituire segmenti separati dall’ambito civile. Al quale
pure debbono rispondere, ancora più di quanto non avvenisse nel passato,
attraverso la mediazione politico-istituzionale. La storica funzione di
strumenti nella gestione dell’ordine pubblico interno, peraltro, si è
fortemente allentata, mutando peraltro la natura stessa dei conflitti sociali
all’interno dei quali le forse armate erano chiamate ad intervenire in funzione
repressiva. All’idea di una guerra «gloriosa», fatta di grandi campi di
battaglia e sacrifici collettivi, si è progressivamente sostituita quella – non
importa quanto in sé illusoria – di un intervento chirurgico il cui principale
obiettivo è quello di tenere fuori dai confini nazionali la violenza bellica.
Le analogie con il modello statunitense meriterebbero forse di essere
maggiormente colte e quindi analizzate, soprattutto dal momento che questa
impostazione incentiva il passaggio della nostre società da sistemi di Welfare
inclusivo a circuiti dove è maggiormente presente il peso del Warfare, inteso
non tanto come stato di guerra permanente quanto come orizzonte di impegno
economico. Un terzo elemento critico è il rapporto con il pacifismo, qui inteso
non tanto come una dottrina organica che tematizza la negoziazione dei
conflitti prescindendo dal ricorso alla violenza bellica quanto come sentimento
tanto diffuso quanto dai tratti generici e, spesso, assai contraddittori.
COME TALE, capace di tenere insieme il rifiuto
della guerra (in casa propria) insieme ad una rinnovata fiducia verso le
istituzioni militari, oggi più che mai vissute come organismi professionali
garanti, ancora più che della sicurezza fisica collettiva, senz’altro di una
altrimenti irrisolta idea di unità nazionale. A fronte dell’abituale esercizio
di auto-discredito, molti italiani sembrano confidare, assegnandogli un ruolo
quasi taumaturgico, nei corpi armati dello Stato.
In tutta plausibilità, questo comune sentire è il prodotto anche di una
profonda e lunghissima depoliticizzazione della società, laddove la delega
diventa il principio al quale ancorarsi a fronte di una diffusa decadenza dello
spirito critico. Il profilo istituzionale che è innervato negli apparati che
hanno in delega l’esercizio del monopolio della forza, sembra in tal senso
offrire una sorta di rassicurante orizzonte. Marco Mondini con un titolo di per
sé programmatico, Il ritorno della guerra. Combattere, uccidere e
morire in Italia 1861 – 2023 (il Mulino, pp. 402, euro 25) affronta,
con un affresco corposo, centocinquant’anni di vicende nazionali. Il volume,
firmato da uno dei pochi storici militari di nuova generazione presenti
nell’accademia italiana, è un excursus sul rapporto tra società italiana,
istituzione militare, esperienze belliche, raffigurazioni ideologiche e
istituzioni collettive.
NON È UNA
STORIA delle
forze armate italiane. Ovvero, non si ferma a questo quadro di riferimento.
Semmai è un repertorio degli ondivaghi rapporti tra società civile ed esercito
fino agli anni più recenti. L’urgenza di queste riflessioni nasce dal titolo
medesimo. Poiché la guerra sta tornando ad essere una prospettiva europea. In
sette capitoli, più un epilogo, Mondini traccia in filigrana la traiettoria del
sodalizio militare all’interno di un paese dalle memorie irrisolte. Ne emergono
alcuni tratti fondamentali: le complesse relazioni tra classi dirigenti e ceti
subalterni; le irrisolte conflittualità tra militari e politici e le diverse
concezioni non solo del «fare la guerra» ma anche del mantenere la pace; il
frazionamento e le competizioni intestine tra forze armate; così come la
rielaborazione e la ricezione popolare del ricordo delle guerre attraverso le
sensibilità delle diverse generazioni; la selettività delle memorie medesime e
quant’altro. Ne emerge un ritratto a tinte mutevoli. L’intelligenza dello
studioso evita il grande numero di luoghi comuni e di stereotipi che si
accompagnano a questo come ad altri discorsi.
Il tono di
fondo è quello che àncora ad un robusto disincanto, privo di qualsiasi omaggio
a retoriche di parte (che siano apologetiche o detrattive) un oggetto di
analisi – la vita e la morte all’ombra delle guerre, più che gli eserciti come
tali – che invece è quasi sempre filtrato attraverso appartenenze ideologiche o
identità precostituite. La linea di non ritorno, in fondo, è stata dettata una
volta per sempre dal 2022, quando la faglia del conflitto russo-ucraino ha
imposto ai paesi dell’Europa occidentale di considerare come il tempo della
lunga pace, inauguratasi quasi ottant’anni prima, si stia definitivamente
concludendo.
Claudio
Vercelli, Le
contraddittorie tinte dei conflitti, il manifesto, 31 agosto
2024
Articolo ripreso
dal blog di Giovanni Carpinelli Belfagor
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