Disegno a volo d’uccello delle fabbriche Malvica alla Rocca sotto Monreale (Immagine dal Cat. Mostra “Terzo Fuoco a Palermo” 1997)
Ceramiche inglesi del primo Ottocento decorate a Palermo
nell’Opificio del Barone Malvica
di Rosario DAIDONE
Dal mercato antiquariale è di recente
emerso, inaspettata reliquia del primo Ottocento, un interessante piatto di
terraglia finemente decorato (FIG.1)
Dal mercato antiquariale è di recente emerso, inaspettata reliquia del primo Ottocento, un interessante piatto di terraglia finemente decorato (FIG.1) destinato alla mensa di monaci benedettini dell’Ordine del Santo Sepolcro, frati che a Palermo erano presenti nel Convento della Chiesa medievale di San Cataldo che si trova con le sue belle cupole rosse nella piazza Pretoria, affiliata, sino al 1787, al famoso Monastero di San Martino delle Scale. (FIG. 2)
Nel piatto di candido smalto campeggia, al
centro del cavetto, circondata da una corona di piccole
foglie verdi, enfatica la scritta PAX sormontata dalla croce
“patriarcale” o “di Lorena” (croce-spada). Nella tesa distinta da filetti blu e
porpora, un articolato nastro foliato su fondo giallo è interrotto da quattro
piccole metope con l’immagine ripetuta di un’articolata casa di campagna.
Miniature dipinte nel tipico colore ferraccia chiaro affiancate da uno, due o
tre cipressi che costituiscono l’unica distinzione dei minuscoli paesaggi. Un
impianto decorativo tipico dell’Opificio palermitano del Barone Malvica riscontrato
in diversi esemplari noti (1) agli studi che verrà ripreso anche dalle
maestranze napoletane rientrate in patria intorno agli anni Venti del XIX
secolo dopo la chiusura della fabbrica siciliana. (Fig. 3)
Il reperto è capace di suscitare
particolare attenzione da parte degli studiosi perché
riveste singolare importanza, non tanto per la destinazione alla sontuosa
abitazione dei privilegiati committenti, giacché non pochi serviti della stessa
fabbrica erano riservati a diverse potenti istituzioni religiose, quanto per la
presenza del marchio BRAMELD che, non senza sorpresa, si legge incusso nel
verso del piatto. (Fig.4)
Brameld è
infatti il nome della famiglia di imprenditori inglesi che
nel 1807 divenne proprietaria della famosa impresa Rockingham che
fin dal Settecento aveva prodotto porcellane e maioliche di successo a Swinton
nel sud dello Yorkshire. Trattandosi quindi di un semilavorato importato
dall’Inghilterra, decorato dopo il 1807 nella prestigiosa fabbrica palermitana,
occorre stabilire quali ragioni muovessero l’interesse del Barone
Malvica all’importazione di piatti a smalto bianco da rifinire con le
ornamentazioni dei delicati colori della terza cottura nel suo Opificio della
Rocca sotto Monreale. Non escludendo la riconosciuta qualità del biscotto e
dello stagno inglesi che si giovavano sin d’allora di moderni metodi
industriali nelle varie fasi della lavorazione della terraglia che abbassavano
notevolmente i costi di produzione e all’esenzione doganale di cui godeva
Malvica per dispaccio del governo borbonico. Si potrebbe generalmente pensare
alle stesse motivazioni e agli stessi criteri che adottava il settore della
moda con gli ottimi tessuti provenienti dalle fabbriche inglesi confezionati
nell’arte sartoriale italiana. Se si paragonano infatti i reperti della ditta
esportatrice alle opere rifinite a Palermo, non c’è chi non noti le peculiari
differenze del gusto e delle valenze culturali delle rispettive aree
geografiche.
Delle particolari qualità artistiche delle
opere allestite nel suo atelier era d’altronde fermamente convinto lo
stesso fondatore che nelle iscrizioni dei vasi dedicati alla corona insiste sul
fatto che “quelli stranieri cedono ai siciliani proprio per la qualità”.
Donandone poi una pregevole coppia alla stessa regina Maria Carolina, moglie
di re Ferdinando, in visita dell’Opificio nella primavera del 1800,
su uno di essi Malvica ribadiva lo stesso concetto facendovi
scrivere a caratteri d’oro:
“POCULA TRINACRIAE EXTERNIS PRAESTANTIA
CERNE/ FORMA, PICTURA, ARTE, DECORE, MODIS” (Ammira [Regina] i vasi di
Sicilia, più belli di quelli stranieri nella forma, nella pittura, nell’arte,
nella decorazione, nelle proporzioni).
Un’orgogliosa esternazione che si concreta nella
scelta del latino della dedica, fatto di non secondaria importanza, a
testimonianza della cultura di Giuseppe Malvica volta ai
contenuti di chiara matrice neoclassica che si riscontrano nella decorazione
delle opere di cui si è dato conto dettagliato nel catalogo seguito alla Mostra
organizzata nel 1997 nella Galleria Regionale della Sicilia; un’iniziativa
culturale che costituisce nell’ambito della storia della maiolica siciliana un
passo avanti rispetto agli studi tradizionali che si erano fermati all’esame
dei reperti siciliani più antichi ignorando la grande stagione che attraversava
Palermo, dalla seconda metà del ‘700 al primo ‘800, nell’ambito del
Neoclassicismo. (Fig. 5)
Dal punto di vista non soltanto artistico
l’illuminato Barone di Terranova, che aveva raccolto
agli inizi del XIX secolo diverse attività produttive in un unico falansterio vagheggiato
da filosofi ed economisti del Settecento(Fig. 6), si rivelava particolarmente
accorto anche nella conduzione strategica dell’impresa considerando da parte
nostra quanto appaiano evidenti le sue intenzioni che al guadagno anteponevano
la qualità e la bellezza delle opere destinate ad un pubblico esigente che
detestava gli orientamenti della nuova borghesia proclive all’acquisto di
prodotti stranieri che l’Inghilterra sin dal 1784 proponeva a Palermo
attraverso la fabbrica Wedgwood.
E se potrebbero apparire contraddittorie
le importazioni inglesi da parte del Barone, che seppure
molto rare, restano documentate anche da un altro piatto semilavorato che
proviene dall’Inghilterra, decorato anch’esso nell’Opificio di Malvica che reca
nel cavetto le intrecciate iniziali del committente entro una ghirlanda di
foglie colore verde scuro e nella tesa un tralcio scandito da piccole rose
accoppiate, residuo di un servizio da tavola allestito per un cliente
siciliano,(FIG.7) non si possono escludere, insieme ai vantaggi economici
percepiti, le simpatie e l’ammirazione che Malvica nutriva per
la Gran Bretagna che trovano eco e si riflettono persino in alcune produzioni
plastiche della sua fabbrica compreso il calamaio che ha come soggetto un
gentiluomo vestito all’inglese con pantaloni attillati, stivali neri, redingote
e bombetta (Fig. 8)
In sostanza era quello del Barone Giuseppe
Malvica un guizzo non disinteressato di esterofilia che se
ridicolizzata da una non numerosa élite di intellettuali, era
incoraggiata e indirettamente sollecitata dai rapporti politico-militari che
gli Inglesi avevano stabilito con la monarchia borbonica alla quale egli era
strettamente legato in nome dei prestiti di denaro, delle franchigie doganali e
dei diritti di “privativa” ricevuti nella fondazione del suo Opificio.
Lo stesso ammiraglio Nelson, da poco
scomparso (1805) rispetto alla data di esecuzione dei due piatti, agli
occhi del neo Barone di Villanova, che nel Gattopardo il
cognato Principe di Salina definiva “coglione” dal punto di vista politico,
doveva apparire come l’eroe che nel 1789 aveva aiutato il suo re a fuggire da
Napoli per raggiungere la Sicilia in seguito allo scoppio della rivoluzione che
porterà alla formazione della Repubblica Partenopea di breve esistenza.
Probabilmente Nelson si configurava agli occhi del Barone come
l’angelo che con la spada aveva ristabilito l’ordine voluto da Dio consentendo
alla monarchia di riconquistare il trono l’anno successivo. In verità
l’Ammiraglio e l’Inghilterra godevano nel regno borbonico di stima e popolarità
non soltanto da parte di Malvica tanto più che re
Ferdinando, In seguito alla sconfitta subita dalla flotta francese ad
Abukir, il 10 ottobre del 1799 aveva assegnato a Nelson la
ducea di Bronte in Sicilia che elevava al rango nobiliare il fedele alleato
dalle modeste origini familiari.
Per comprendere meglio le simpatie
malvichiane e il ricorso ai semilavorati inglesi occorre
quindi fare riferimento al clima politico voluto dai Borbone che
a Napoli avevano nominato, su suggerimento della regina, segretario di
stato Sir John Acton mentre dal punto di vista commerciale,
ormai prendevano piede nel regno le imprese come quella di Benjamin
Ingham, parente dei Withaker, originario di Leeds
nella contea di York, città che vantava, oltre a quelle dei tessuti,
un’importante manifattura di terraglie.
Era questo un momento particolare che in
Sicilia soltanto a Palermo attraversava la ceramica. Nel
solco della tradizione essa volgeva lo sguardo all’Europa con cui in verità si
era già misurata a partire dalla seconda metà del Settecento la Fabbrica di
Santa Lucia al Borgo che produceva
“bellissimi vasi, statuine ben
lavorate, di un bianchissimo stagno e di un gusto eccellente da venir preferite
a quelle di tutte le migliori fabbriche d’Europa”(2)
e che, nello stesso torno di anni, nell’atelier del
Duca di Sperlinga mastro Calogero Pecora realizzava “con
meccanica d’ingegno” altre ricercate ceramiche di terraglia che definiva
“uguale alli servigi di tavola
d’inghilterra” (3).
La storia della maiolica siciliana che affondava le
sue radici nel XVI secolo si concludeva nell’Opificio di Malvica che
dall’inizio dell’Ottocento, per una ventina d’anni anni forniva straordinarie
opere in terraglia in stile neoclassico tendenti al romanticismo e che, come si
vede dalla rarità dei reperti, solo incidentalmente si serviva delle
importazioni giacché la quasi totalità della produzione, come si evince dagli
esemplari pervenuti che recano la sigla BM (Barone Malvica) incussa, utilizzava
impasti e smalti stanniferi siciliani di qualità. (FIG.9)
Queste opere, custodite nei musei, ritenute oggetto di
avvertito collezionismo, riconosciute come maturata espressione della cultura
neoclassica italiana in transito verso i metodi della produzione industriale,
vedranno la loro definitiva esistenza alla fine del secolo XIX nella moderna
fabbrica dei Florio che, interessandosi anche al settore della
ceramica, produrranno con metodi industriali innumerevoli serviti a basso costo
ai quali gli aristocratici proprietari degli oggetti “antichi” assegnavano con
malcelato disprezzo la definizione di “terraglie” arrivata con lo stesso valore
negativo sino ai nostri giorni. In questo caso, si tratta effettivamente di
prodotti, spesso di non eccelsa qualità, decorati con abusate decalcomanie,
presi in considerazione dagli studi quasi esclusivamente per dovere di
citazione storica, ma forse, anch’essi destinati a diventare oggetto di futuro
interesse antiquariale.
In conclusione occorre osservare che le
manifatture palermitane, pur mantenendo vive le esigenze
culturali, avvertendo nel Settecento la necessità di aprirsi all’Europa, si
erano quasi accidentalmente avvicinate alle produzioni industriali agli inizi
del XIX secolo ed entravano soltanto alla fine del secolo nella produzione
seriale per inderogabili esigenze di mercato. Ma occorre sottolineare che la
Sicilia non si rassegnava tuttavia ad abbandonare per sempre i metodi
artigianali e la fantasia creativa che si rispecchiano nelle cosiddette
produzioni popolari dello stesso periodo in cui, con Burgio e Collesano
assumevano un ruolo di primo piano le creazioni artistiche di Caltagirone.
Oggetti questi ultimi che, non più riservati agli usi sussidiari di cucina,
sono diventati, insieme alle opere di Malvica, monumenti di un
mondo perduto, nostalgiche presenze nella società dei consumi che vivono nei
musei e nelle case dei collezionisti.
Rosario DAIDONE Palermo 20 Ottobre 2024
Note
- Terzo
fuoco a Palermo 1760-1825, Ceramiche di Sperlinga e Malvica, Cat. Mostra a
cura di L. Arbace e R. Daidone; Arnaldo Lombardo Editore, Palermo 1979
- ASCP,
Provviste, Vol. 806/191 anno 1973-74 f. 212
- BCB,
Villabianca QqD 95-96, foglio 315-316, in Nuove Miscellanee di Sicilia,
1766
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