Il Questionario poetico di Gisella Blanco per Il Talento di
Roma
In questa
rubrica, poniamo ai poeti romani o che risiedono o transitano spesso nella
Capitale, due tra le domande più emblematiche tratte dallo storico
saggio Il pubblico della poesia di Alfonso Berardinelli e Franco
Cordelli che, dal 1975, per ben tre edizioni, pone ai poeti i doverosi
interrogativi sul linguaggio letterario, nonché sul presente e sul futuro della
poesia italiana. Dal confronto e dall’intersezione delle risposte potrà
emergere la possibilità di fare un quadro, seppur non esaustivo ma almeno
verosimile, dello stato dell’arte poetica contemporanea e dell’annosa questione
dell’industria della cultura di oggi.
- Hai idee generali organizzate in
ipotesi (e tesi) teoriche intorno allo scrivere poesia in generale e allo
scriverla oggi?
Valerio Magrelli: Mettere un chiodo nella presa elettrica: questo, per me,
significa affrontare la questione della “poetica”. Tanto vale prenderne atto:
scrivere di poetica per me non è possibile, poiché non posso sapere in anticipo
dove va la mia scrittura – ne scrivo appunto per scoprirlo, come provai a
spiegare nella voce Gnarus dell’abbecedario Che cos’è
la poesia? (libro e cd, Sossella 2005, Giunti 2013): [Gnarus] è una
parola latina che, confesso, non avevo mai sentito, prima di scrivere questo abecedario.
Ne utilizziamo spesso la negazione, ovvero l’aggettivo “ignaro”. Ma proviamo a
vederla da vicino. Il termine significa “ben informato”, “esperto”, “pratico
di”, e deriva dalla radice indoeuropea gna, che sta per
“conoscere”. Ad essa è correlato un vocabolo come “gnoseologia”, ma anche
termini quali “narratore” e “narrazione”. Dunque, secondo il suo etimo, il
narratore è colui che sa, cioè che conosce la storia da narrare. Ora, se questo
è vero per chi guida il racconto, sarà lo stesso anche per chi compone versi?
Altrimenti detto: che cosa sa il poeta della sua poesia? Insomma, conosce
davvero ciò che scrive? Dobbiamo considerarlo gnarus o ignarus? E ancora: siamo
poi veramente sicuri che oggi il narratore sia ancora così informato come un
tempo sui fatti da narrare?
Mi piacerebbe affidare la risposta a
un romanziere, Giuseppe Pontiggia: “Io non metto il messaggio nel testo, ma
glielo chiedo. È da lui che lo aspetto, per scoprire ciò che non sapevo di
sapere”. I nostri dubbi trovano conferma. Se il narratore stesso è diventato,
almeno in parte, ignaro, figuriamoci il poeta…
Come uscire da un tale labirinto?
Forse il modo più semplice consiste nel capire che l’opera non va considerata
come un oggetto dominato dall’autore, bensì come un processo che trasforma
l’autore medesimo. Chi scrive versi, infatti, non lo fa per trasmettere un
dispaccio, bensì per cercare qualcosa che non potrebbe mai trovare altrove.
Riprendendo la mia testimonianza
personale, confesso che di solito mi limito a commentare le mie poesie nelle
letture, anzi, accetto di intervenire in pubblico proprio per poter esaminare quei versi “ex post”,
improvvisando e prendendo appunti nel corso delle conferenze. Già su questo
dettaglio, a ben vedere, ci sarebbe molto da dire. Io tendo a preparare una
scaletta, un canovaccio, su cui eseguire variazioni (cadenze, modulazioni,
svisate). Il risultato è che le mie note vengono stilate mentre parlo,
o dopo aver parlato, quasi mai prima. Questa è la ragione per cui ho sempre
detestato il sistema del power-point, ossia quel tipo di relazione che richiede
una rigorosa pre-disposizione del materiale iconografico. Viceversa, la mia
esperienza di docente è stata rivoluzionata dall’arrivo della rete, che
consente aperture improvvise, ricerche estemporanee e spesso inattese per
l’insegnante stesso.
Insomma, sono arrivato alla
conclusione che il mio motore mentale, come la mia poetica, funziona “a
trazione posteriore”. Per questo motivo, scrivere di poetica mi risulta
inconcepibile: ritengo anzi che un atto del genere rappresenti il frutto
avvelenato dell’avanguardia, e in particolare del dadaismo, un movimento di cui
cominciai a occuparmi oltre trent’anni fa (Profilo del dada, Lucarini
1990, Laterza 2006). Ogni manifesto pre-scrive, mentre io posso soltanto
produrre post-scritti, ovvero una sterminata serie di addenda (rinvio
su questo tema alle acute pagine in cui Michel Jarrety definisce l’intera opera
di Paul Valéry come un unico, lungo post-scriptum). Se proprio dovessi
capitolare, preferirei allora optare per una “post-poetica”, così come nel
cinema si parla di post-produzione.
Ho provato a riassumere tante
diverse impressioni, in una poesia tratta da Il sangue amaro e
ispirata a una splendida riflessione di Isabelle Stengers (co-autrice, insieme
al premio Nobel per la Chimica Ilya Prigogine, del saggio La nuova
alleanza). La storica della scienza rifletteva sul fatto che le cavie, in
biologia, sono molto diverse dagli oggetti degli esperimenti in fisica. In
pratica, Galileo non poteva certo “affezionarsi” alla palla di piombo che gli
servì per dimostrare la rotazione della terra. Del pari, uno scienziato di oggi
probabilmente non desidererà portarsi a casa il bosone che sta studiando,
mentre uno zoologo si legherà alla scimmia su cui lavora, e magari vorrebbe
tenerla con sé. Ebbene, ritengo che il poeta, nei riguardi delle poesie che va
elaborando, sia un po’ come uno zoologo. Ogni poesia è una cavia, ma una cavia
animale e animata:
Cave cavie!
O forse sono cavie,
queste poesie che scrivo,
per qualche esperimento concepite,
che tuttavia non so.
Non so perché si formano,
eppure mi affeziono e le chiamo per
nome,
topolini vivissimi, allarmati
da che?
- Che cosa sono per te il
pubblico, il mercato culturale e l’industria editoriale (nel presente
quesito vengono unite due distinte domande del questionario, nda)?
Valerio
Magrelli: Sono tre cose che in
poesia esistono a malapena, per l’irrisorio numero di vendite e per la
caratteristica di questo linguaggio, che si segnala per la sua complessità. La
poesia sta agli antipodi della canzone d’autore: là tutto è dopato dalla
musica, qua, spoglia di ogni droga sonora, rimane la parola “in purezza”, come
si dice di certi vini. Io amo le letture pubbliche, specie nelle scuole dove i
docenti (veri eroi intellettuali del nostro tempo) hanno già arato il terreno
della pagina.
Mercato culturale e industria
editoriale possono fare cose buone, anche se spesso ne fanno di pessime.
In questa parte dell’intervista, approfondiamo il rapporto
dei poeti con la letteratura e il territorio.
- Quali sono tre titoli
fondamentali, tra narrativa, poesia, saggistica o altro, per il tuo
percorso da poeta?
Valerio Magrelli: Narrativa: tra mille titoli possibile indico l’opera
di un cileno vissuto in Messico e finito a Barcellona – Roberto Bolaño, Detective
selvaggi. C’è una corrente vitale irresistibile che mi ha catturato
all’istante, e poi è morto appena nel 2003!
Poesia: le poesie di Osip
Mandel’štam, vittima dei Gulag staliniani. Leggerle fu un incontro traumatico,
un urto, uno choc.
Saggistica: il padre di questo
genere letterario, il suo inventore nella Francia della seconda metà del
Cinquecento, tra guerre religiose di orrenda violenza. È un cardine della
cultura umana, i Saggi di Montaigne.
- Che relazione ha la tua
scrittura con Roma?
Valerio Magrelli: Un nome solo: Giuseppe Gioachino Belli. A metà
dell’Ottocento, questo poeta è all’altezza di Foscolo, Leopardi, Porta, il che
vuol dire Baudelaire, Keats, Hölderlin. Esagero? Non credo, visto che un
grandissimo traduttore dell’autore tedesco fu Giorgio Vigolo, poeta in proprio
e sommo commentatore di Belli. Belli è osceno e sacro, turpe e creaturale,
ironico e tragico. Non per niente ha provato a tradurlo il romanziere della
crudeltà assoluta, l’Anthony Burgess di Arancia meccanica.
Pezzo tratto da: https://www.iltalentodiroma.com/2024/10/09/valerio-magrelli-apre-il-questionario-poetico/
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