Se c'è un libro che ha preannunciato il '68 in Italia questo è senz’altro
Lettera
a una professoressa. L’ autore ci diede occhi diversi per guardare il mondo e ci cambiò la vita. Quello fu il momento in cui
decidemmo da che parte stare e che cosa andava fatto.
In questo blog, se
cercate con il motore di ricerca interno, trovate diversi pezzi dedicati al
grande educatore. La lettura della sua famosa Lettera è stata decisiva per la
mia formazione. Non avevo neppure 18 anni ed ero ancora un giovane dell'Azione
Cattolica di Marineo, quando scoprii Don Milani. Ricordo ancora che
organizzai una lettura di gruppo del libro nei locali parrocchiali
del paese. Allora non avevo letto neppure un rigo di Gramsci e Pasolini.
Scoprii molti anni dopo che lo scrittore corsaro arrivò a considerare
quel libro come uno dei testi più rivoluzionari del 900. (fv)
Luca Kocci e Alessandro Santagata
La contestazione secondo Don Milani
Un aneddoto raccontato da Tullio De Mauro a Matteo Mennini spiega bene il cortocircuito, a cavallo del ‘68, fra don Milani, la scuola di Barbiana e la contestazione studentesca: «Conservo la fotografia di una scritta su un muro dell’università di Napoli che diceva: El niño que no estudia no es buen revolucionario firmato Fidel Castro», ricorda il linguista, fra i primi accademici a occuparsi di Milani. «Negli asterischi Laterza alcuni anni dopo il ‘68, una persona illustre e anche brava scriveva: “Come ci ordina il comandante Castro, el niño que no estudia…”. Sortita da Barbiana la frase di un bambino cubano era passata di bocca in bocca ed era diventata una frase di Fidel Castro».
Il nucleo profondo di un pensiero e di un’esperienza, più orecchiato che studiato, genera un mito in cui convivono verità e falsificazioni, tirato a destra e a manca a seconda del contesto e delle convenienze politiche, da cinquant’anni a oggi. È questa una valutazione sostanzialmente condivisa negli ultimi studi a conclusione dell’«anno milaniano» appena trascorso.
Tra le pubblicazioni più interessanti, il libro di Vanessa Roghi, La lettera
sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole (Laterza, pp. 268,
euro 16). Ricostruzione appassionata e davvero piacevole alla lettura, il
volume investiga la storia culturale di Lettera a una professoressa, che ha
lasciato un segno indelebile nella società italiana, soprattutto nella
pedagogia e nella scuola.
L’istituzione scolastica di oggi, sottolinea l’autrice, è il risultato di alcune delle migliori intelligenze militanti del secondo Novecento, ma presenta ancora caratteri fortemente classisti. I dati Istat del 2016 rilevano che si continua a bocciare e allontanare le fasce sociali più deboli, in un meccanismo di dispersione-selezione che smentisce platealmente chi ha identificato in Milani, e in un presunto «donmilanismo», le radici di una crisi.
Uno dei
meriti principali del libro è di collocare Milani nel suo tempo, nel grande
dibattito degli anni ‘60 sulla lingua e in quella galassia composta dai tanti
che don Lorenzo incontrò sulla sua strada. Tra le figure principali emergono
quelle di De Mauro, autore nel 1963 della Storia linguistica dell’Italia unita,
e di Mario Lodi, come Milani promotore dell’uso didattico della scrittura
collettiva ed esponente di spicco del Movimento di cooperazione educativa. Di
notevole interesse è poi lo studio della ricezione della Lettera in Italia, ma
anche all’estero, dove si tese (non senza forzature) ad associare l’esperienza
di Barbiana a quella di Summerhil e poi ad altre esperienze scaturite dalla
contestazione studentesca.
«Il pensiero di Milani – precisa Roghi – non è il viatico del Sessantotto. Il
suo è un progetto classista, pensato contro chi già studia, la sua è lotta di
classe. Perché Lettera a una professoressa non è, non vuole essere, un libro
scritto per i ragazzi che occuperanno le università, né per i loro genitori, ma
per i genitori di chi, all’università, non ci arriverà mai».
Il volume ripercorre l’entusiasmo crescente attorno alla figura del priore di
Barbiana, prima con la circolazione di L’obbedienza non è più virtù (i
documenti del processo sull’obiezione di coscienza al militare), e poi la
diffusione e la «sloganizzazione» della Lettera.
Don Lorenzo
Milani muore nel giugno 1967, quindi prima dell’esplosione del ‘68, ma fa in
tempo a illustrare ad Alex Langer le ragioni della propria distanza dalla
borghesia studentesca in corso di radicalizzazione. Anche se, negli ambienti
della contestazione, il nome di Milani risuona forte sia nei gruppi spontanei
post-conciliari, nelle letture dei «contro-quaresimalisti» di Trento e
all’Isolotto di Firenze, sia nel più ampio movimento studentesco, come ricorda
Guido Viale, all’epoca leader all’università di Torino.
Si occupa in maniera specifica di questo complessivo processo di ricezione il volume collettivo Salire a Barbiana. Don Milani dal Sessantotto a oggi (a cura di Raimondo Michetti e Renato Moro, Viella, pp. 292, euro 28). Nel ‘68, si legge nel saggio di Giovanni Turbanti, Lettera a una professoressa diventa «uno dei più importanti testi di riferimento della contestazione», oggetto di seminari e gruppi di studio, citata nei volantini e nei documenti del movimento, insieme a Che Guevara, Mao, Lenin e Marcuse. Un successo conquistato per varie ragioni: la contestazione dell’autoritarismo degli insegnanti, la tendenza alla radicalizzazione e alla politicizzazione delle esperienze individuali («il problema degli altri è uguale al mio, sortirne tutti insieme è politica, sortirne da soli è avarizia»), la contrapposizione fra privilegiati (i «Pierini») e i diseredati (i «Gianni»), la critica alle istituzioni (a partire dalla scuola) che realizzano la selezione di classe e conservano la struttura iniqua della società.
Ma per i
suoi allievi don Milani non è un «padre del ‘68». Tanto che decidono di
denunciare il regista Franco Enriquez, che alla biennale di Venezia (settembre
1968) mette in scena Discorso per la Lettera a una professoressa della Scuola
di Barbiana e la rivolta degli studenti, spettacolo teatrale sul movimento
studentesco «ispirato» da Milani. E il pretore – ricostruisce Federico Ruozzi
nel suo saggio su don Milani fra cinema, teatro e televisione – dà loro
ragione: impone a Enriquez di modificare il copione e di togliere ogni
riferimento a Barbiana, «perché – sentenzia – il lavoro teatrale tradisce sia
nel titolo che nel testo lo spirito del libro».
Il nodo allora è la lettura selettiva sessantottina di Milani, diventata
egemone. Anche se in realtà, rileva Turbanti, a sinistra alcuni evidenziano le
contraddizioni con le istanze del movimento. Le critiche di Milani alla
selezione riguardano la scuola media (dell’obbligo), mentre per i livelli
superiori contempla «una selezione lontana da ogni discriminazione di censo» ma
«severa»: il contrario del sei o del diciotto «politico» («quegli studenti
universitari che protestavano contro la selezione di classe perché agli esami
non gli davamo a tutti il 18, beh… don Milani li avrebbe bistrattati
duramente», spiega De Mauro a Mennini, autore anche di un saggio sui
«pellegrinaggi politici a Barbiana»).
Punta il
dito contro l’autoritarismo della scuola, ma «l’autorità del priore» e «dei
genitori» non è in discussione. I richiami evangelici – Milani è un prete
libero ma fedele alla dottrina e obbediente alla Chiesa – stanno stretti ad una
parte del movimento, che imputa a Milani «limiti di populismo e volontarismo».
E Franco Fortini rimprovera Milani di riformismo, «di non sapere o non voler
dare l’unica risposta possibile all’ingiustizia, quella della rivoluzione».
Quindi Lettera a una professoressa ispiratrice del ‘68, ma entro certi limiti, anche per quanto riguarda la contestazione cattolica, in larga parte incentrata sulla polemica sulla ricezione-attuazione del Vaticano II a cui Milani è estraneo. Don Milani «rimarrà un prete scomodo per tutti – scrive Renato Moro – ma è significativo quanto di questo Paese, in quel profeta scomodo, abbia cercato di specchiarsi».
Nell'analisi
di Vanessa Roghi il giudizio si fa quasi rovente quando affronta da un lato la
rapida retromarcia ideologica, alla fine degli anni ‘70, dei «sessantottini»
diventati insegnanti – proprio nella fase in cui la scuola si sta
democratizzando anche dal punto di vista legislativo –, e dall’altro gli
attacchi al pensiero di Milani da parte di coloro che identificano in lui uno
dei «cattivi maestri» di una scuola troppo permissiva e poco meritocratica.
Una polemica che è stata in molti casi un segmento di un più ampio attacco alle
culture degli anni ‘60 al quale non si sono sottratti numerosi «volontari» da
sinistra. Una corrente ancora oggi molto forte, sovente da parte di chi, per
«salvarlo», contrappone strumentalmente Milani alla stagione dei movimenti, con
il risultato di non comprenderlo e di isolarlo… ancora una volta
il Manifesto
– 3 aprile 2018
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