20 gennaio 2025

KIT DI AUTODIFESA NELL' ERA TRUMP


Imperialismus, Autoritarismus, Egoismus

 Kit di autodifesa nell’era Trump 2 #1

[Oggi si svolge l’investitura di Trump, e possiamo senza difficoltà prevedere che una nuova fase storica si apre, e che essa non riguarda solamente il destino degli Stati Uniti. Nei primi giorni della sua presidenza, Trump ha promesso di firmare una tempesta di decreti, che renderanno effettivi i suoi obiettivi in fatto di politiche migratorie, statali, commerciali e culturali. In questo nuovo contesto, mi sembra che sia necessario fare il punto su quali strumenti di difesa intellettuale abbiamo e vogliamo condividere con altri. Io in ogni caso comincio da qui. a. i.]

di Andrea Inglese

“I nuovi fascismi si limitano a risaldare le gerarchie di razza, genere, classe; la strategia politica rimane quella neoliberista. La missione dei nuovi fascismi non è combattere un’opposizione inesistente, ma portare a termine il progetto politico che è alla base delle politiche neoliberiste.”

Maurizio Lazzarato, Il capitalismo odia tutti



Per alcuni, il capitalismo è la notte in cui tutte le vacche sono nere. Esso è una realtà monolitica nello spazio e nel tempo. Ha senza dubbio un valore globalmente molto negativo, ma è considerata risibile la pretesa di rischiararne le articolazioni, d’ipotizzare che esso, avendo una dimensione storica, anche si distingua per fasi, e non sia soggetto a un fatale determinismo.

Quale che sia la definizione o il concetto che siamo in grado di formulare intorno al mostro “capitalismo”, che per altro ci culla giornalmente, dovrebbe apparire chiaro che esso sta manifestando una attitudine aggressiva e violenta, che non ha precedenti storici almeno dal Dopoguerra in poi. Tra i principali soggetti interessati a questa trasformazione, ossia tra quelli che dovrebbero innanzitutto percepirla, ci siamo noi europei, usciti dalle macerie e dai massacri della Seconda Guerra mondiale con uno slancio democratico largamente condiviso. Questo slancio si basava su un paio di presupposti fondamentali: le ideologie fasciste e razziste si consideravano incompatibili con lo sviluppo capitalistico e questo obbligava le élites politiche ed economiche a venire a patti con il resto del corpo sociale, lavoratori in testa. (Per altro, alcune organizzazioni politiche dei lavoratori avevano contribuito direttemente alla sconfitta delle forze nazi-fasciste in Europa.) Questo non ha di per sé fatto sparire né la mentalità razzista né i funzionamenti discriminatori delle istituzioni, ma li ha ogni volta esposti a varie forme di critica e anche a mobilitazioni d’ordine politico. La guerra francese in Algeria come la guerra in Vietnam degli Stati Uniti sono stati eventi che, piuttosto che creare consenso nella popolazione, hanno innescato divisioni, critiche, conflitti politici. Quello che sta accadendo, oggi, invece, è un riuso su larga scala, potenziato dalle piattaforme digitali, del razzismo e dell’autoritarismo come forme di governo e ordinamento sociale. Sotto nomi nuovi come “sovranismo”, “suprematismo”, “mascolinismo”, il fascismo storico riemerge, acquista legittimità mediatica e politica nei parlamenti, e ha nella superpotenza mondiale statunitense un nuovo propulsore, nell’era Trump 2. I nostri opinionisti sono ancora occupati a chiedersi se gli attacchi di Musk al primo ministro britannico laburista o al cancelliere tedesco Olaf Scholz siano motivati dagli interessi economici del suo impero aziendale o da una specifica convinzione ideologica. Ma Musk ha appunto mostrato che il suo capitalismo assume pienamente la dimensione ideologica del nuovo fascismo, ossia collima con le parole d’ordine dei partiti di estrema destra europei. E le parole d’ordine non sono mai solo parole d’ordine sono anche uno stile, una modalità d’azione, basata su attacchi violenti e intimidazione.

A rendere le cose più chiare, in seno alle élites economiche, ci sono state le comunicazioni fatte dal padrone di Meta, il 5 e 7 gennaio. Dapprima Zuckerberg ha annunciato che sulle proprie piattaforme (Facebook, Instagram e Threads) rinunciava alla politica di moderazione e di fact-cheking affidata a esperti indipendenti, per salvaguardare “la libertà di parola”. In sostanza, Meta si allinea al modello promosso da Musk su X. Ancora più esplicito Zuckerberg lo è stato in un intervista concessa a Joe Rogan, curatore di podcast gratuiti ed estremamente popolari negli USA, oltreché convinto sostenitore di Trump. In quell’occasione Zuckerberg ha dichiarato di abbandonare anche il programma DEI, (diversity, equity and inclusion) che fino ad allora era adottato dalle risorse umane dell’azienda, e questo in nome della buona e sana “energia maschile” (“The masculine energy is good”), quella che si esprime ad esempio nelle arti marziali miste (MMA), che sia lui che Joe Rogan praticano. Qualcuno ha detto che il viraggio di Zuckerberg è una non-notizia, sempre perché nella notte capitalista non ci sono gradi, fasi, conflitti interni, lotte per l’egemonia, ma solo un continuum di cattivi e di cattiveria. Io considero che è un’ulteriore notizia inquietante dal fronte, dal momento che alla truppe d’opinione e intimidazione che Musk riesce a mobilitare attraverso X, ora si affiancano quelle che si potranno scatenare su Meta. Inoltre, il fatto che la facciata “liberal” sia caduta, non è solo una notizia di “facciata”. Il mondo californiano della tech ha certo avanzato “mascherato” dagli anni Novanta in poi, ma questo era frutto di un’esigenza di consenso presso nuove generazioni che sognavano di sposare senza contraddizioni imprenditoria capitalista e sensibilità progressista, stipendi da fiaba e grande autonomia creativa. Ora anche la tech californiana decide di abbondonare del tutto la sua vecchia mitologia e di far proprio l’orizzonte ideologico del duo Trump-Musk.

Diciamo che in un contesto del genere, uno vorrebbe sentire crescere innanzitutto intorno a sé un certo spavento. Infatti, i nemici naturali di queste nuove élites e delle loro “milizie” più o meno virtuali, siamo noi, e lo siamo perché democratici convinti, perché anticapitalisti, perché socialisti, perché anarchici, perché femministi, perché gay e trans, perché immigrati, perché non-bianchi, perché lavoratori, perché disoccupati, ecc. Allora vorrei che questo “noi” avesse mantenuto, nonostante la confusione e l’insidia dei tempi, un sano istinto di autoconservazione sociale, e il relativo senso del pericolo che esso implica.

Vorrei cioè che uscissimo non tanto da Meta o da X, ma innanzitutto dal diniego e/o dalla paralisi. Vorrei, in altri termini, che non facessimo finta di niente, ma che iniziassimo a pensare alla nostra autodifesa e agli strumenti che possiamo mettere in campo per garantirla. Sono un po’ pessimista in questo momento, quindi non me la sentirei di parlare di contrattacco, anche se non lo escludo come principio. (Come non escludo la possibilità di manifestare la virtù del coraggio, ma per avere coraggio dovremmo già, prima, provare paura. Avere coraggio non significa non percepire la paura – questo si chiama incoscienza –, ma il vincerla.) In ogni caso, parlare di approntare strumenti di autodifesa vuol dire assumere una prospettiva strategica e di “guerra” in corso. Già questo mi sembrerebbe un grosso passo avanti.

Ora il senso di questo mio intervento, oltre ad essermi sforzato di giustificare con argomenti la mia percezione di “nuova fase” e di “pericolo crescente”, è quello di fornire un’arma concettuale particolarmente solida e utile, in mezzo a tanti tentativi di analisi limitati o addirittura fuorvianti. Si tratta di Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione di Maurizio Lazzarato (DeriveApprodi).

È un libro che ho letto a sprazzi. Iniziato prima del 7 ottobre e del successivo scatenamento israeliano contro Gaza, continuato nella fase di distruzione e massacro sistematici nella striscia, e finito con la vittoria di Trump alla presidenza. Ad ogni tappa di lettura, mi rendevo conto che le analisi di Lazzarato si manifestavano sempre di più efficaci nel leggere una realtà in rapida e caotica evoluzione. Ma questo libro è stato pubblicato nel 2019. Eppure lo si capisce fino in fondo solo oggi, nel 2025, con l’arrivo del duo Trump-Musk alla Casa Bianca..

Da tempo, e non sono certo l’unico, considero che la questione della tecnica e, nello specifico, delle nuove tecnologie informatiche, costituisca un nodo ambiguo ed enigmatico, ma centralissimo per definire lo statuto del capitalismo contemporaneo e dei suoi effetti di alienazione, sfruttamento e dominazione sulla popolazione. Tecnologie informatiche vuol dire, ad esempio, le piattaforme dei social, che sono divenute dei veri e propri ambienti, in cui si svolge una parte importante della nostra vita relazionale, comunicative e creativa, a cavallo tra tempo libero e tempo lavorativo. Ma tecnologie informatiche significa anche introduzione crescente in questi ambienti dell’Intelligenza Artificiale e dei suoi specifici effetti.

Per parte mia, proprio su Nazione Indiana, ho dedicato a questa questione alcuni interventi approfonditi. Ne ricordo due: Umanisti del nuovo secolo e sottomissione tecnologica e Citazioni sulla natura instabile dell’informazione (Darnton, Cristianini, Vonnegut). Il motivo ispiratore di entrambi gli interventi, è stato il tentativo di combattere due opinioni che considero false e dannose, e che puntellano una condivisa attitudine nei confronti delle nuove tecnologie in generale e dell’uso delle piattaforme in particolare.

La prima di queste opinione è senz’altro la più insidiosa. La potremmo formulare semplicemente così: le conseguenze sulle nostre vite delle attuali evoluzioni tecnologiche sono inevitabili come lo sono queste stesse evoluzioni. Con questa frase, si vogliono affermare almeno due verità importanti. Le evoluzioni che riguardano il mondo della tecnica sono parte di un processo storico, ma quest’ultimo si svolge secondo una propria logica, indipendente dalla volontà politica dei soggetti umani che ne sono coinvolti. In altri termini, le macchine, con tutti i loro vantaggi e svantaggi, s’impongono per forza propria nelle nostre vite, e noi non possiamo che cercare di adattarci a esse nel modo migliore possibile.

La seconda opinione è quello riassumibile nella frase: ogni tecnica non è che uno strumento neutro, ciò che conta è il modo in cui un individuo la usa. Questa affermazione paradossalmente può coabitare in uno stesso discorso con l’affermazione precedente. Il progresso tecnologico così come lo conosciamo è ineluttabile, ma possiamo utilizzarlo bene o male secondo la nostra volontà individuale. In ogni caso, qui il problema non riguarda l’idea che della tecnica sarebbe possibile appropriarsi, ossia piegarla ai nostri bisogni e alle nostre esigenze, ma il fatto che ciò potrebbe essere frutto di una decisione e di una pratica individuale.

Il libro di Lazzarato ci fornisce un’analisi convincente, attraverso un dialogo critico con Anders, Foucault, Mumford, Fanon, Simondon, Negri, Deleuze e Guattari, del rapporto che esiste tra la dimensione politica e quella tecnologica, tra la strategia delle élites capitalistiche e le possibilità che le macchine offrono a essa. È un punto che necessita di essere sviluppato più approfonditamente, ma qui mi limito a fornire le conclusioni a cui perviene Lazzarato. Il modo in cui funzionano le nostre macchine, ciò che le nostre macchine fanno o non fanno, non è frutto di uno svolgimento “interno”, di una sorta di determinismo tecnologico, ma di un’incorporazione di certe loro funzioni, in quella che viene definita “la macchina da guerra del capitale”. Quest’ultima è una realtà di natura socio-politica, costituita da una costellazione ideologica e di pratiche, che orientano quella che Rossi-Landi avrebbe chiamato la “programmazione sociale”. In altri termini, la tecnica funziona come un organo del capitale, ma questo avviene in quanto il capitale (ossia i concreti capitalisti) intercettano, piegano alle proprie strategie di arricchimento e controllo, certe virtualità presenti nei dispositivi tecnologici. Se noi siamo asserviti alla tecnica, la tecnica lo è alle decisioni delle élites economiche e politiche.

Leggiamo, ad esempio, questo passo di Lazzarato, su quello che definisce il cyber-fascismo:

“[Il cyber-fascismo] Mette in crisi tutte le utopie – dal cyberpunk al cyberfemminismo, dalla cybersfera alla cybercultura – che, dal dopoguerra e con un’intensificazione negli anni Settanta, vedono nelle macchine la promessa di una nuova soggettività post-umana e una liberazione dal dominio capitalista. Bolsonaro e Trump hanno usato tutte le tecnologie disponibili della comunicazione digitale, ma la loro vittoria non deriva dalle tecnologia: scaturisce invece da una macchina politica e da una strategia, che articola la micropolitica delle passioni tristi (frustrazione, odio, invidia, angoscia, paura) con la macropolitica di un nuovo fascismo che dà consistenza alle soggettività devastate dalla finanziarizzazione.

Per dirla con i termini che adotteremo in questo capitolo: la macchina tecnica, in tutte le sue forme, è assoggettata alla strategia messa in campo dalla macchina sociale neofascista che, nelle condizioni del capitalismo, non può che essere una macchina da guerra.” (p. 73)

Potremmo chiamare in altri modi quello che Lazzarato definisce la “macchina da guerra”, ma la formula non è per nulla enfatica. Non lo è rispetto alla retorica che, per primi, personaggi come Bolsonaro, Trump, Musk, Milei, utilizzano. Ma sappiamo che, a questa retorica, corrispondono delle concrete scelte politiche, e soprattutto delle componenti della popolazione considerate come pericolose, e quindi da combattere come un nemico interno: si va dagli immigrati ai disoccupati, dalle minoranze etniche e religiose agli ecologisti.

In quest’ottica, è chiaro che ogni pretesa individuale di non farsi condizionare dall’uso di certi dispositivi tecnologici è ingenua. Con questo non si vuol dire che le scelte individuali non contano, ma che esse contano in quanto anticipano o suggeriscono la necessità di scelte collettive. Queste scelte collettive, però, ci ricorda Lazzarato, devono elaborarsi a partire dalla “macchina da guerra capitalista”, ovvero in risposta alle strategie offensive dei nuovi fascismi. Ma questo atteggiamento necessita un certo grado di anamnesi storica. In perfetta sintonia con quanto sostiene un pensatore come Castoriadis, “Il capitalismo odia tutti” ci invita a considerare il ciclo di rotture rivoluzionarie che hanno scosso il Ventesimo secolo, non perché si peschi in esso qualche ricetta da applicare più o meno fedelmente, ma perché si esca almeno dalla superstizione del determinismo (che affligge anche i marxisti). Cito di nuovo Lazzarato:

“L’affermazione della discontinuità della storia, la critica della sua causalitàe dei sui determinismi ritrova l’imprevisto di [Carla] Lonzi e l’imprevedibilità di Fanon: il soggetto rivoluzionario deriva, ma non dipende, dalla storia; se proviene dalla situazione economica, politica e sociale, non è deducibile da questa situazione. Il soggetto rivoluzionario non può essere anticipato con l’immaginazione, con un progetto, con un programma, né compreso a dovere dal sapere, dalla scienza, dalla teoria” (134-135).”

Non si tratta qui di una semplice confessione di “agnosticismo” teorico, ma di ribadire la dimensione imprevedibile del divenire storico. Nello stesso tempo, sappiamo che la macchina da guerra del capitalismo attuale, nelle sue forme apertamente fasciste, ha come scopo invece di “prevedere” e quindi “controllare” i comportamenti collettivi. E questa previsione passa anche attraverso quegli ambienti digitali e telematici che ormai fanno parte integrante della nostra vita più intima. Cominciamo allora ad armarci per una nostra difesa. I libri (certi) possono servire anche a questo.

Pezzo  ripreso da: https://www.nazioneindiana.com/2025/01/20/kit-di-autodifesa-nellera-trump-2-1/



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