Riprendiamo
in anteprima da https://www.leparoleelecose.it/?p=50723 un contributo di Enrico Redaelli contenuto nel nuovo numero
di “Shift.
International Journal of Philosophical Studies”, intitolato “Radical
Thought 2”, a cura di Daniela Calabrò e Massimo Villani, di prossima uscita per
le edizioni Mimesis
PER UNA STORIA DEL PATRIARCATO
di Enrico
Redaelli
Nome
Il
patriarcato è stata una forma di biopolitica. Ossia, come direbbe Foucault, un
certo modo di gestire la vita umana e la sua riproduzione. Per molti secoli,
nelle società patriarcali, la vita è stata gestita e riprodotta sulla base del
Nome. Il Nome del padre tramandato di generazione in generazione. Ossia, il
patronimico. Non semplicemente un cognome, come è oggi, ma il contrassegno
dell’appartenenza a una dinastia, a un clan familiare, a una tribù: un
vessillo, uno stemma, una bandiera. Di più. Il Nome è, nel contesto delle
società arcaiche, un vero e proprio dispositivo di soggettivazione: una sorta
di stampo attraverso cui la vita si riproduce prendendo una determinata forma.
In quella forma venivano forgiati soggetti, ruoli, relazioni, usi e costumi.
Marchio
Leggiamo nel
Genesi: «A centotrenta anni Adamo generò come sua somiglianza secondo la sua
Immagine» (Gn 5,3). L’atto generativo umano perpetua l’immagine (la «forma»)
del padre, in questo caso Adamo, a sua volta creato a immagine e somiglianza
del Padre. Nelle società patriarcali non si riproduce mai la semplice e
generica vita, ma sempre una vita forgiata nella forma, ossia una «forma di
vita». Il Nome è qui il primo «marchio» che iscrive la vita ancora anonima
all’interno della comunità: nei termini di Lacan, è il «tratto unario» che
soggettivizza[1], sicché l’essere vivente, nel momento
stesso in cui è nominato e viene alla luce come soggetto, è marchiato. Sarà
perciò erede di questo marchio e indebitato con la sua provenienza. Infatti,
secondo un leitmotiv tipicamente indoeuropeo, il Nome imprime alla vita
naturale ancora indistinta (matrice «femminile» della generazione) la forma
culturale della Legge (lo stampo «maschile» che mette ordine al caos).
Nella
cultura occidentale questa concezione della vita e della sua riproduzione trova
una formulazione esemplare nelle Eumenidi di Eschilo – vera e
propria fondazione mitologica del patriarcato – dove il principio maschile e
paterno è elevato a forza attiva e generatrice della vita, mentre il principio
femminile e materno viene retrocesso a semplice supporto passivo[2]. L’azione della cultura sulla natura è
perciò vista come una dominazione del maschile sul femminile che trova il suo
analogo nel lavoro agricolo dove l’azione culturale dell’uomo (la tecnica
agricola) permette di penetrare e seminare una natura passiva (la terra da
arare). La stessa logica di fondo permea la metafisica aristotelica (l’atto
agisce sulla potenza come la forma plasma la materia e come l’intelligenza
maschile domina la natura femminile[3]).
Eternità
Verso la
fine del film Barbie (Greta Gerwig, USA 2023) a un certo punto
si dice che gli esseri umani inventano cose come il patriarcato per affrontare
la morte. Profonda verità. Quale altra funzione dovrebbe avere il Nome? Se esso
è il primo dispositivo biopolitico è perché, in quanto «forma», è la vera
garanzia contro la morte. Infatti, la vita individuale è inevitabilmente
destinata al trapasso. Non così il Nome, da intendersi come stampo che
riproduce la vita entro la stessa forma, come marchio che si perpetua nel
tempo. Si radica qui il sogno di vita eterna del mondo antico: «io morirò, ma
il mio nome (il buon nome di famiglia, la fama, la gloria, lo stemma) saranno
eterni». S’intende: se i figli sapranno portare questo Nome, se cioè
ricalcheranno le orme del padre, se la loro vita si plasmerà nel calco di
questa forma. Leggiamo nel Libro del Siracide: «suo padre è defunto, ma è come
se non fosse morto, perché ha lasciato dopo di sé uno simile a sé» (Sir 30,4).
Grazie ai figli è come se non si morisse del tutto. La discendenza assicura la
sopravvivenza del Nome: eternità della «forma di vita» – al di là della morte
del singolo individuo – riprodotta nel Nome del padre.
Patria
potestas
Affinché il
Nome sia la forma eterna entro cui la vita si riproduce sono necessarie due
condizioni. La prima è che la discendenza sia di sangue. E poiché mater
semper certa, pater numquam, il possesso esclusivo della donna è l’unica
garanzia della consanguineità della prole.
La seconda
condizione è che tale prole viva, appunto, nel Nome del padre, prosegua cioè la
sua opera, la sua vita, le sue regole. Riferendosi a Yoyakin, re di Giuda
deportato a Babilonia, dice Geremia: «Registrate quest’uomo come sterile, uno
che non è riuscito nella sua vita, perché della sua discendenza neppure uno
riuscirà a sedere sul trono di Davide e a governare su Giuda» (Ger 22,30).
In breve, le
due condizioni per sconfiggere la morte attraverso la reiterazione del Nome,
sono la disposizione esclusiva della moglie e la disposizione asservita dei
figli, ossia la patria potestas. Ma quella codificata nel diritto
romano è solo la versione più celebre di una delle più antiche forme di
biopotere conosciute dall’essere umano nelle società patriarcali: potere sulla
vita per rendere eterna la propria «forma di vita».
Pedine
Nelle
società patriarcali i figli sono perciò proprietà dei genitori, sorta di
«protesi vitale» del padre attraverso cui la sua «forma di vita» è garantita
contro la morte. Più se ne hanno, più si allarga il cerchio delle parentele e
la possibilità di perpetuare il proprio Nome. Per questo motivo, i figli
diventano pedine sulla scacchiera sociale, ossia doni scambiati con altri
gruppi familiari. Hanno origine qui le relazioni di scambio all’interno della
comunità (la cosiddetta «economia del dono» studiata da Mauss e Malinowski). In
particolare, il corpo delle figlie (in quanto in grado di rigenerare la vita)
diventa uno dei doni più preziosi (l’uomo che lo riceverà potrà riprodurre il
proprio Nome) ovvero la prima effettiva forma di moneta. Grazie a questa è
possibile tessere alleanze e parentele con gli altri clan, da cui il noto
scambio delle donne ampiamente indagato da etnologi e antropologi[4]. Ricevere il Nome significa perciò essere
accolti, ma anche immediatamente subordinati, in quanto iscritti nella rete
patriarcale dei doni e dei loro scambi, ossia nella rete dei debiti e dei
crediti sociali.
Numero
Se il
patriarcato è un modo di gestire la vita nel tentativo di sconfiggere la morte,
la sua crisi, avviata con l’inizio dell’età contemporanea, è anzitutto una
crisi del Nome come dispositivo biopolitico. Il dispositivo patriarcale non è
sostituito da uno di segno opposto (femminile o matriarcale), ma da un
dispositivo completamente altro: un nuovo ordine biopolitico che non ruota più
attorno al Nome quanto piuttosto attorno al Numero. Per così dire, non importa
che nome hai ma quanti numeri fai.
Nel corso
degli ultimi secoli assistiamo in più ambiti a un passaggio dal regime del Nome
al regime del Numero. L’alba di questa trasformazione potrebbe essere
ricondotta alla nascita e allo sviluppo della moneta a partire dalla fine del
VII secolo a. C. Questa segna il transito dal regime simbolico dei vincoli e
degli obblighi sociali legati al Nome (l’economia del dono) a un regime di meri
rapporti quantitativo-astratti del tutto anonimi (l’economia monetaria). Se lo
scambio di doni si basava sul Nome e sulla sua rete di alleanze e filiazioni,
ora non importa più chi sei, a che stirpe appartieni, a quale tribù, tradizione
e religione sei legato: pecunia non olet. I due regimi convivono a
lungo, finché, in epoca moderna, la matematizzazione della natura avviata con
Galilei e Cartesio e lo sviluppo del capitalismo non portano a un sorpasso
della potenza del Numero su quella del Nome. È l’ascesa dell’algoritmo sulla
logica «umanistica» della parola.
Prende così
piede il sogno di un mondo in cui l’eternità è garantita non più socialmente (sogno
di rendere eterno il Nome come «forma di vita» che si tramanda attraverso
generazioni) ma individualmente (sogno di rendere eterna
l’identità del singolo travasata in un chip e trapiantata in corpi sempre
nuovi). Un altro sogno biopolitico di vita eterna, un altro tentativo di
sconfiggere la morte, che rende più comprensibile l’altrimenti inspiegabile fenomeno
del calo delle nascite: per interi millenni la prolificità è stata un valore,
nonché un vanto, in tutte le civiltà umane conosciute, mentre nella moderna
società occidentale non si fanno più figli. Il potere non risiede più nel
riprodurre la vita iscritta nella parola e nel Nome della stirpe ma nella capacità
di riprodurre la vita iscritta nel codice informatico.
Monismo
Col crollo
del patriarcato viene meno, un pezzo per volta, anche tutta la metafisica
sottostante. Non semplicemente i rapporti tra uomo e donna e tra padre e figli,
ma l’idea stessa di una natura passiva segnata da un’azione della cultura. Non
a caso l’odierno pensiero ecologista – da Bruno Latour a Timothy Morton – e
alcune avanguardie del pensiero femminista – da Donna Haraway a Jane Bennett a
Karen Barad – non si limitano a mettere in questione l’idea di un mondo in cui
la natura sarebbe inerte e passiva e l’agency un’esclusiva
dell’essere umano, ma smontano lo stesso dualismo natura/cultura prediligendo
una visione monista: tra la materia inorganica e l’organizzazione organica in
tutte le sue forme, compresa la vita umana, non c’è soluzione di continuità. Già
nei primi anni Novanta Judith Butler aveva mostrato come il paradigma di una
cultura (attiva) che incide/insemina/plasma la natura (passiva) è un paradigma
pregiudicato che informa anche la nostra concezione di sesso/genere, per cui vi
sarebbe un sesso (naturale) come base e supporto sul quale viene poi a
iscriversi il genere (culturale)[5].
A non
reggere più è un intero sistema di metafore, di dualismi, di partizioni e di
ruoli (passivo/attivo, naturale/culturale, femminile/maschile) che tentano
ancora di catturare la vita e la sua riproduzione a patire dalla logica del
Nome. Il crollo coincide con un grande processo di emancipazione della vita
individuale e sociale mentre tutti i vincoli si spostano altrove. Vincolante è
ora solo la logica del Numero, le cui promesse di libertà e le cui nuove forme
di schiavitù sono tutte da vagliare.
Note
[1] Lacan ne parla nel Séminaire,
Livre IX, L’identification (1961-1962), inedito.
[2] Cfr. Eschilo, Orestea.
Agamennone, Coefore, Eumenidi, Mondadori, Milano 2017.
[3] Sul dominio dell’uomo sulla
donna cfr. Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 1973, in
particolare 1252a-1252b.
[4] Cfr. in merito il fondamentale
lavoro di Claude Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela,
Feltrinelli, Milano 2010.
[5] Cfr. J. Butler, Corpi
che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Feltrinelli, Milano 1996.
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