31 gennaio 2025

EMILIA PEREZ: IL FILM DI JACQUES AUDIARD

Attraverso i generi. Emilia Pérez di Jacques Audiard di minima&moralia pubblicato venerdì, 31 Gennaio 2025 · di Marco Arienti Nel finale di Emilia Pérez una folla di messicani porta in processione una statua della protagonista intonando un canto in spagnolo sulla melodia di Les passantes, celebre canzone francese di Georges Brassens (tradotta peraltro in italiano da Fabrizio De André con la cover Le passanti), nella quale una serie di donne passa nuovamente, appunto, sotto lo sguardo di un uomo che le ha incrociate per qualche breve attimo della sua vita, e che ora le riunisce, le ricorda, le re-immagina e infine le riporta a una nuova categoria, un nuovo genere, quello della “passante”. Una bella trovata finale per un film, questo di Jacques Audiard, pieno di ibridazioni e sincretismi spericolati, animato da un’energia noncurante che mira a riscrivere le immagini, far scontrare i poli (anche il maschile e il femminile, certo) e generare nuove configurazioni. Non si tratta di un’opera a tema: ambientata in un Messico in buona parte ricostruito in studio (ma estremamente variegato, tra tribunali, discoteche, sobborghi e ville di lusso), maneggia in maniera abbastanza superficiale questioni complesse riguardo al percorso di transizione di genere e alla condizione interiore ed esteriore delle persone transgender – anche se, vale la pena notarlo, la scena in cui l’avvocata Rita Moro Castro riceve nella toilette delle donne la prima minacciosa telefonata della sua futura datrice di lavoro, appena dopo aver indossato un tampone, “trolla” sottilmente il bathroom argument transfobico, che vede le donne cis nei bagni pubblici potenzialmente esposte alle aggressioni di chiunque affermi, con cattive intenzioni, di identificarsi nel genere femminile. Dal punto di vista dei contenuti, quindi, si può comprendere la delusione per l’occasione mancata di offrire un ritratto trans più sfumato e fuori dagli stereotipi. I film (e i prodotti culturali in generale) sono però da valutare per quello che sono, invece che per quello che potrebbero (o peggio, dovrebbero) essere, e nel caso di Emilia Pérez adottare la chiave di lettura del cinema testimoniale rischia di essere fuorviante. Ad Audiard, infatti, occuparsi di identità di genere serve piuttosto da dispositivo narrativo per operare, quasi come il chirurgo incaricato dell’intervento di Emilia, sull’identità dei generi cinematografici. I diversi codici filmici convocati dal regista sono compressi in un unico corpo filmico, sformati e adulterati nel gioco delle loro interazioni reciproche; al tempo stesso però ognuno di essi, sostenuto dall’ossatura di una storia forte e trascinante con tutti i climax nei momenti giusti, rimane pienamente riconoscibile nei suoi tratti essenziali, che anzi ne escono quasi esaltati. Così, il musical si fa prosaico (nel recitar cantando dei numeri in clinica o nello studio del medico), bizzarro e autoriferito (la Jessi di Selena Gomez che si fa un reel mentre canta, specchiandosi nella videocamera del cellulare), esibendo senza mascheramenti la propria natura artificiosa e fondamentalmente fasulla (il brano “Mi camino”, interpretato sempre da Gomez, è messo in scena in un video-karaoke in cui addirittura si sbagliano le parole). Il gangster movie, coreografato (il caricamento dei fucili) e dominato dalle donne, rivela al di là della violenza la propria matrice passionale, che lo accomuna al melodramma; quest’ultimo, a sua volta contagiato dal musical, è ricondotto alla sua radice etimologica di “dramma cantato”, dove i sentimenti sono spettacolo, più che psicologia. Del cinema cosiddetto “civile”, infine, si prova a mettere in discussione non solo l’afflato edificante e dimostrativo, con Emilia che anche dopo il cambio di sesso e la conversione a benevola patrona dei desaparecidos mantiene attitudini possessive e manipolatorie verso i figli e l’ex moglie, ma pure il feticcio della vocazione a un preteso “realismo”, qui filtrato in molte scene attraverso la presenza di media (tele)giornalistici oppure, di nuovo, attraverso l’elemento musicale stesso. Il film d’altronde è in qualche modo tutto pervaso dell’aura dell’artefatto: Emilia Pérez è in fondo una spudorata pantomima postmoderna, come sembra suggerire già la primissima inquadratura di un gruppo di mariachi coi sombreros illuminati dalle lucine. Come la sua eroina divisa tra due vite, anche Emilia Pérez è una creatura ancipite: un esempio di ottimo cinema dall’anima classicamente narrativa (il consenso riscontrato nella stagione dei premi non è casuale) che però, per quanto ben lontano dall’avanguardia, si apre a sperimentazioni e innovazioni nei suoi moduli di riferimento. Da una parte sceglie di ancorarsi alla tradizione dei generi canonici, ma dall’altra, allo stesso tempo, cerca di contaminarli e sconvolgerli per stare dentro a una contemporaneità fluida (usiamo pure quest’aggettivo), in cui gli steccati tra i segni cadono e i significati si rimescolano tra loro. Una forma che si adegua alla materia del racconto, assumendo la transizione come propria principale cifra espressiva.

Nessun commento:

Posta un commento