26 gennaio 2025

L' EUROPA INGRATA DIMENTICA QUANTO DEVE ALLA BANDIERA ROSSA

 








Questa non è la nostra Europa

Ci sarebbe solo da essere fieri della falce e martello, emblema delle lotte operaie e dell'emancipazione dei contadini e dei braccianti, uniti per un futuro di benessere e di pace ove non vi fosse posto per lo sfruttamento. Un simbolo di vita migliore, di giustizia, di eguaglianza.

Le generazioni che ci hanno preceduto ci hanno insegnato a rispettarlo e a tenerlo sempre in alto. Hanno subito violenze, lottato, combattuto, avendo quel simbolo nel cuore.

L'uso violento che ne è stato fatto - nella Russia di Stalin come altrove - non ne inficia in alcun modo il significato: quanti, peraltro, sono stati uccisi nel nome di Cristo e della sua parola? Ne inficia questo il messaggio?

Il messaggio politico e umano di quella grandiosa icona del movimento operaio rimarrà sempre valido, fulgido, incontaminato.

Se l'Europa attuale lo equipara alla mortifera svastica nazista, che tutto può essere tranne che un simbolo di vita e di giustizia, non è e non può essere la nostra Europa. Ed è una vergogna che si sia giunti a tanto senza che un grido di sdegno attraversi le coscienze europee.

PIER GIORGIO ARDENI      

 

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       Versi di Pasolini dedicati alla bandiera rossa


 Per chi conosce solo il tuo colore,

bandiera rossa,

tu devi realmente esistere, perché lui

esista:

chi era coperto di croste è coperto di

piaghe,

il bracciante diventa mendicante,

il napoletano calabrese, il calabrese

africano,

l'analfabeta una bufala o un cane.

Chi conosceva appena il tuo colore,

bandiera rossa,

sta per non conoscerti più, neanche coi

sensi:  /  tu che già vanti tante glorie borghesi e

operaie,

ridiventa straccio, e il più povero ti

sventoli.


 PIER PAOLO PASOLINI


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NON SVENTOLA PIU’

Rossana Rossanda 

Era gonfia di vento sul cielo umido e scuro di novembre la prima volta che l’ho vista, la bandiera rossa sul Cremlino; come ieri l’altro, prima di essere ammainata.

Era il novembre del 1949 e quel tempestoso drappo rosso, incrociato dai proiettori, pareva sospeso sopra la città, come le stelle di granata sulle cinque torri, che si dice non fossero state spente neanche con i tedeschi alle porte di Mosca.

Nel 1949 era ancora la bandiera issata sul Reichstag a Berlino, quella della guerra più crudele, vinta con più morte e più distruzioni, le tracce del passaggio tedesco visibili in tutta la piana a ovest della capitale, macerie su macerie. E Mosca era grigia e emozionante, metà orgoglio metà Requiem dell’Achmatova, impressionante come la Moscova gelata e le foreste immense e le strade con poche macchine e molta gente, provata e cortese.

Quella volta non percepii altro che la dimensione della povertà e del dolore, ma – mi parve – legati a una identità forte.

Venti anni dopo, ancora a novembre, il Pci escludeva da sé i compagni del manifesto perché avevano detto e scritto che quel vessillo era stato troppe volte insopportabilmente issato sui tanks di invasione, sconfitte politiche consumate e negate. Nel 1956 s’erano ancora mescolati orrore e speranza, ma, finito Krusciov, questa s’era spenta.

Sull’agosto cecoslovacco quella bandiera sventolava contro tutte le sue e nostre ragioni.

Era dunque uno straccio troppe volte insozzato, quello che ieri l’altro è stato calato, e l’Urss era ormai da mesi in agonia. Perché ci ha impietrito vederlo ricadere su se stesso e sparire? Perché così insignificante è apparso il tricolore russo, per ora non adorno del suo stupido pollastro a due teste, l’aquila imperiale?

Perché questo che sventola ora non è che il simbolo di uno stato, quella lo era di una idea del mondo, delle generazioni che hanno creduto e voluto una rivoluzione che ha diviso il secolo, delle sue folgoranti libertà e dei suoi abissali errori.

Non, come si dice oggi, la bandiera dell’utopia – non sono utopia i milioni di uomini e donne che si riconoscevano ai quattro angoli della terra e la cui vita e morte nel comunismo ha avuto un senso. Questa è una realtà spessa come corpi, materia storica che ha attraversato i decenni, ben prima del 1917, dal 1848 e la Comune di Parigi.

Nel 1917 come nel 1945 a Berlino essa è parsa vincere: non era vero. Quando lo sarà, avverrà in altri modi nei quali la bandiera ammainata del Cremlino è una traccia bruciante come il suo colore.

Con le parole di Bucharin al figlio l’abbiamo veduta scendere dal pennone: «Quando guardi la bandiera del nostro paese, ricordati che è fatta anche del mio sangue».

Un popolo senza confini l’ha riposta dentro di sé con qualche pietà.

ROSSANA ROSSANDA

Archivio del manifesto, 27 dicembre 1991

 

 



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