Questa non è
la nostra Europa
Ci sarebbe
solo da essere fieri della falce e martello, emblema delle lotte operaie e
dell'emancipazione dei contadini e dei braccianti, uniti per un futuro di
benessere e di pace ove non vi fosse posto per lo sfruttamento. Un simbolo di
vita migliore, di giustizia, di eguaglianza.
Le
generazioni che ci hanno preceduto ci hanno insegnato a rispettarlo e a tenerlo
sempre in alto. Hanno subito violenze, lottato, combattuto, avendo quel simbolo
nel cuore.
L'uso
violento che ne è stato fatto - nella Russia di Stalin come altrove - non ne
inficia in alcun modo il significato: quanti, peraltro, sono stati uccisi nel
nome di Cristo e della sua parola? Ne inficia questo il messaggio?
Il messaggio
politico e umano di quella grandiosa icona del movimento operaio rimarrà sempre
valido, fulgido, incontaminato.
Se l'Europa
attuale lo equipara alla mortifera svastica nazista, che tutto può essere
tranne che un simbolo di vita e di giustizia, non è e non può essere la nostra
Europa. Ed è una vergogna che si sia giunti a tanto senza che un grido di
sdegno attraversi le coscienze europee.
PIER
GIORGIO ARDENI
Versi di Pasolini dedicati alla bandiera rossa
Per chi conosce solo
il tuo colore,
bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui
esista:
chi era coperto di croste è coperto di
piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese
africano,
l'analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore,
bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi
sensi: / tu che già vanti tante glorie borghesi e
operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti
sventoli.
******
NON
SVENTOLA PIU’
Era
gonfia di vento sul cielo umido e scuro di novembre la prima volta che l’ho
vista, la bandiera rossa sul Cremlino; come ieri l’altro, prima di essere
ammainata.
Era
il novembre del 1949 e quel tempestoso drappo rosso, incrociato dai proiettori,
pareva sospeso sopra la città, come le stelle di granata sulle cinque torri,
che si dice non fossero state spente neanche con i tedeschi alle porte di
Mosca.
Nel
1949 era ancora la bandiera issata sul Reichstag a Berlino, quella della guerra
più crudele, vinta con più morte e più distruzioni, le tracce del passaggio
tedesco visibili in tutta la piana a ovest della capitale, macerie su macerie.
E Mosca era grigia e emozionante, metà orgoglio metà Requiem dell’Achmatova,
impressionante come la Moscova gelata e le foreste immense e le strade con
poche macchine e molta gente, provata e cortese.
Quella
volta non percepii altro che la dimensione della povertà e del dolore, ma – mi
parve – legati a una identità forte.
Venti
anni dopo, ancora a novembre, il Pci escludeva da sé i compagni del manifesto perché
avevano detto e scritto che quel vessillo era stato troppe volte
insopportabilmente issato sui tanks di invasione, sconfitte
politiche consumate e negate. Nel 1956 s’erano ancora mescolati orrore e
speranza, ma, finito Krusciov, questa s’era spenta.
Sull’agosto
cecoslovacco quella bandiera sventolava contro tutte le sue e nostre ragioni.
Era
dunque uno straccio troppe volte insozzato, quello che ieri l’altro è stato
calato, e l’Urss era ormai da mesi in agonia. Perché ci ha impietrito vederlo
ricadere su se stesso e sparire? Perché così insignificante è apparso il
tricolore russo, per ora non adorno del suo stupido pollastro a due teste,
l’aquila imperiale?
Perché
questo che sventola ora non è che il simbolo di uno stato, quella lo era di una
idea del mondo, delle generazioni che hanno creduto e voluto una rivoluzione
che ha diviso il secolo, delle sue folgoranti libertà e dei suoi abissali
errori.
Non,
come si dice oggi, la bandiera dell’utopia – non sono utopia i milioni di
uomini e donne che si riconoscevano ai quattro angoli della terra e la cui vita
e morte nel comunismo ha avuto un senso. Questa è una realtà spessa come corpi,
materia storica che ha attraversato i decenni, ben prima del 1917, dal 1848 e
la Comune di Parigi.
Nel
1917 come nel 1945 a Berlino essa è parsa vincere: non era vero. Quando lo
sarà, avverrà in altri modi nei quali la bandiera ammainata del Cremlino è una
traccia bruciante come il suo colore.
Con
le parole di Bucharin al figlio l’abbiamo veduta scendere dal pennone: «Quando
guardi la bandiera del nostro paese, ricordati che è fatta anche del mio
sangue».
Un
popolo senza confini l’ha riposta dentro di sé con qualche pietà.
ROSSANA ROSSANDA
* Archivio
del manifesto, 27 dicembre 1991
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