Dopo Il manoscritto del Principe (2000) dedicato a Giuseppe Tomasi
di Lampedusa e La stranezza (2022) dedicata a Luigi Pirandello, Roberto
Andò ritorna alla sua Sicilia con L’abbaglio che racconta un episodio
minore della Spedizione dei Mille, tratto dal racconto Il silenzio di
Leonardo Sciascia del 1963, pubblicato postumo da Adelphi nella raccolta Il
fuoco nel mare (2010). Protagonista è il colonnello Vincenzo Giordano Orsini,
(interpretato da Toni Servillo) figura storica della Spedizione, aristocratico
palermitano, democratico e mazziniano, animato dagli ideali risorgimentali di
libertà, unità nazionale e riscatto sociale, definito da Andò antigattopardo, ma non accecato dalle ideologie e lucidamente
consapevole sia delle difficoltà militari sia della complessità politica dell’impresa
garibaldina e perciò intimamente logorato dal dubbio su quale sarà l’esito
della rivoluzione che sta sostenendo. Al colonnello Orsini Andò affianca due figure
d’invenzione Domenico Tricò (Salvo Ficarra) e Rosario Spitale (Valentino
Picone) contadino l’uno, baro l’altro, soldati per caso, arruolatisi tra le
fila dei volontari garibaldini al solo scopo di sbarcare in Sicilia per poi
disertare e continuare in qualche modo a vivere la loro picaresca esistenza. Attraverso
il duo Tricò-Spitale la Storia viene vista dal basso, da chi ha l’unica
preoccupazione di riempire la pancia e salvare la pelle, mentre nei dialoghi
del Colonnello Orsini con Garibaldi e soprattutto con il giovane tenente
Ragozin (Leonardo Maltese) emergono gli ideali, la passione e il coraggio sino
al sacrificio di sé, la speranza dei tanti giovani provenienti da ogni parte
della penisola che la Storia la volevano cambiare. Il regista adotta quindi un
doppio registro espressivo, alterna alto e basso, drammatico e comico, senza
intaccare la fluidità della narrazione. Ne consegue un ritmo ora pausato - le
scene dei due tangheri nei campi o nel convento - ora incalzante - le scene
epiche dello sbarco o delle battaglie in campo aperto - animato dalla vibrante e
appropriata colonna sonora (di Michele Braga ed Emanuele Bossi) che permette
allo spettatore una fruizione attenta e godibile.
La formula già sperimentata ne La stranezza di veicolare un
discorso alto, in quel caso critico letterario, attraverso una vicenda
divertente e personaggi spassosi è riproposta ne L’abbaglio per
raccontare un fatto storico trascurato della grande impresa garibaldina: la
manovra diversiva del colonnello Orsini che ripiegò verso Corleone con una
sparuta colonna di soldati, inseguita dall’esercito borbonico, permettendo così
a Garibaldi di avanzare nella direzione di Palermo con il grosso del suo
esercito. Ma i garibaldini come furono accolti dalla popolazione locale? Racconta
Sciascia ne Il silenzio e Andò nel film che il paese di Giuliana, con i
suoi notabili, non volle fornire alcun aiuto mentre il paese di Sambuca offrì
generosa ospitalità, dando rifugio e cure ai soldati affamati e feriti nelle
case più povere e perciò meno sospette ai Borbone.
Grazie alla originale chiave narrativa di Andò, uno dei momenti più alti
della nostra Storia Unitaria viene raccontato con rigore e passione ed insieme
con leggerezza, in un’alternanza di serio e di comico attraverso personaggi
fortemente caratterizzati che esprimono punti di vista diversi. Il risultato è
un film che diverte mentre induce a riflettere, non soltanto sulle dinamiche
dei grandi eventi che si intrecciano con la microstoria degli uomini comuni, ma
anche sull’oggi. Dove sono oggi i giovani disposti a sacrificarsi per un
ideale? Orsini, pur essendo disincantato, dice al vicentino tenente Ragozin venuto in Sicilia a
combattere per l’Unità: “la speranza che
hai di cambiare il mondo tienitela stretta” e lo esorta anche a “mordere la vita”. E’ questo forse il
messaggio più forte rivolto dal regista ai giovani di oggi attraverso il suo
alter ego nel film, il colonnello Orsini.
Nello scarno panorama dei film storici sul Risorgimento, tra i quali
ricordiamo il celebrativo Viva l’Italia di Rossellini del 1961, centenario
dell’Unità, e Noi credevamo di Mario Martone del 2010, L’abbaglio si pone come film dovuto, necessario,
perché - in un momento di facile revisionismo storico e
diffuse nostalgie borboniche - rimette le cose a posto. Come Martone in Noi
credevamo, Andò mostra ne L’abbaglio la forza degli ideali di tanti
giovani volontari ma anche il loro fatale infrangersi contro la mediocrità e la
corruzione diffusa, (palesi nell’epilogo del film nel 1880, quando Orsini
ritrova i due impostori - che erano stati capaci di compiere un gesto eroico - ritornati alla loro istintiva vocazione
all’imbroglio). “Sia il mio film che Noi credevamo di Mario Martone
esprimono la disillusione sull’Unità d’Italia”. Il titolo del film di Martone
ha un duplice significato: noi avevamo una fede incrollabile, ritenevamo
possibile un rinnovamento sociale, politico, economico, credevamo di costruire
una nazione moderna, di unire un popolo attorno a nuovi ideali, di salvare i
contadini dalla miseria, ma anche: noi ci illudevamo che tutto questo fosse
possibile e siamo rimasti delusi. Il titolo L’abbaglio si collega al
secondo significato di “noi credevamo” e Andò si pone nella scia degli autori
siciliani che da Verga a De Roberto, da Pirandello a Sciascia, hanno espresso
la loro disillusione postrisorgimentale. Tale cocente delusione però non
sminuisce l’ammirazione per quegli uomini che lottarono per realizzare il sogno
di un’Italia libera e unita e il cui coraggioso e generoso impegno civile
rimane ancora oggi un modello. Ha detto Andò in una intervista che motivo del
suo film è anche “rimettere insieme un sentimento nazionale”.
Questo antidoto
al revisionismo storico e alla autonomia differenziata Roberto Andò ci regala
con il suo ultimo film e dobbiamo essergliene grati.
ROSELLA CORRADO
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