18 marzo 2024

SI PARLA DI DANILO DOLCI ANCHE ALL' UNIVERSITA' DI PALERMO

 


In pochi anni si sono affollati tanti centenari di grandi educatori (Mario Lodi, 2022; Bruno Ciari 2023; Don Milani 2023) e ora Danilo Dolci e Franco Basaglia, 'scomodi' ieri e oggi, e in buona parte sconosciuti ai ragazzi.

Approfittando dell'evento di oggi dell'Istituto Gramsci di Palermo e della cortesia di Francesco Virga, ho pensato a un piccolo percorso per i miei studenti delle Lauree Magistrali. Ascolteremo, guarderemo alcuni filmati, leggeremo alcune pagine di Danilo Dolci, rifletteremo sulle 'parole degli altri'.

Non ci sarebbe stato motivo di renderlo pubblico se non fosse che mi piacerebbe sapere se almeno nelle scuole siciliane, almeno a Partinico, guardando in faccia i propri studenti e ragionando con loro, tanti piccoli 'operai della conoscenza' come me, stiano rileggendo 'Inchiesta in Sicilia', 'Racconti siciliani', 'Processo all'articolo 4' etc. Facciamolo tutti insieme, con semplicità, senza il grande esperto on line. 

MARI D’AGOSTINO, professore ordinario di Linguistica italiana nell'Università di Palermo. Dirige la Scuola di Lingua italiana per Stranieri 


DANILO DOLCI VISTO DA GOFFREDO FOFI

 





























Questo pomeriggio, al Gramsci di Palermo, Goffredo Fofi parlerà di Danilo Dolci. A me piace ricordare stamattina quanto ha scritto lo stesso Fofi sull'anomalo sociologo nel 1999 in un libro che mi è tanto caro: Le nozze coi fichi secchi. (fv)

17 marzo 2024

GARIBALDI VISTO DA MARIO PINTACUDA

 




A PROPOSITO DI FRASI FAMOSE

Mario Pintacuda


Quando andavo alle scuole elementari (nel periodo tardo neolitico), la parte storica del mio sussidiario - il nostro Wikipedia dell’epoca - era costellata di roboanti citazioni di “frasi famose”.

All’epoca si pensava che i bambini dovessero memorizzare le nozioni storiche consolidandole con delle “frasi ad effetto”, degli slogan “indimenticabili”, utili per “inchiodare” nella loro mente alcune situazioni. In effetti, grazie a questa impostazione, mi ritrovo ancora oggi a ricordare diverse “frasi storiche” che invece mi accorgo essere quasi del tutto ignote, ormai, non solo agli alunni, ma perfino a molti dei loro docenti, dirottati a loro volta fin da piccoli su altre metodologie didattiche meno retoriche e aneddotiche. Del resto, io stesso già da bambino ero ironicamente scettico su alcune “frasi famose” e mi ponevo dei quesiti irriverenti su molte di loro.

Gli esempi sarebbero tanti e partirebbero dal mondo antico; ma per queste epoche remote mi limiterò a un solo esempio, cioè alla famosa frase di Cesare “il dado è tratto” (ἀνερρίφθω κύβος, “alea iacta est”), ricordata in una drammatica pagina di Plutarco.

Come scrive il biografo greco, Cesare, prima di passare in armi il Rubicone e di iniziare così la guerra civile contro Pompeo, «rifletteva sull’entità dei mali cui avrebbe dato origine per tutti gli uomini quel passaggio, e quanta fama ne avrebbe lasciata ai posteri. Alla fine, con impulso, [..] pronunciando questo che è un detto comune a chi si accinge a un’impresa difficile e audace: “si getti il dado”, si accinse ad attraversare il fiume» (“Vita di Cesare” 32, 7-8).

Il bello è che Cesare era solo, a sentire Plutarco; infatti “a pochi aveva detto prima di seguirlo” e poi era salito “su un carro preso a nolo” (oggi avrebbe noleggiato un monopattino); giunto al Rubicone, era rimasto a riflettere “tra sé e sé”.

Così almeno credeva, non sospettando che nei pressi, dietro qualche canna palustre o fitto cespuglio, fosse appostato il testimone della sua frase storica, pronto ad annotarla e a trasmetterla ai posteri (ma non escluderei che Cesare si fosse accorto della presenza del testimone e che proprio per questo abbia pronunciato la frase: anche nell’antica Roma l’apporto dei “media” per creare consenso era ritenuto fondamentale…).

Per le epoche moderne gli esempi di “frasi famose” sarebbero innumerevoli, ma mi limito a citarne tre.

1) A Genova, dove sono nato, è stata sempre molto popolare (non certo per la sua esaltazione in epoca fascista) la figura di “Balilla” (Giambattista Perasso), il giovane undicenne da cui il 5 dicembre 1746 avrebbe preso avvio la rivolta popolare contro gli austro-piemontesi nel sestiere genovese di Portoria.

Che “Balilla” sia esistito realmente è documentato da un resoconto inviato al governo austriaco che riferisce come «la prima mano onde il grande incendio si accese, fu quella di un picciol ragazzo, che dié di piglio ad un sasso e lanciollo contro un ufficiale tedesco».

Dunque la popolazione genovese fu incitata all’insurrezione dal ragazzo, che scagliò una pietra contro un nemico e, nel farlo, pronunciò la sua celebre frase storica, prontamente annotata da qualche potenziale insorto appostato alle sue spalle: «Che l'inse?».

Il grido, poco chiaro, dovrebbe voler dire "La comincio?" cioè "Volete che cominci [la rivolta?]"; ma un cronista dell’epoca (Giuseppe Maria Mecatti) scrive invece che voleva dire “La rompo?” e fosse riferita alla pietra (da “rompere” in testa al nemico).

Qualunque sia il significato dell’espressione, resta il fatto che da quel lontano 1746, ogni volta che i ragazzi “zeneixi” hanno preso a pietrate i loro antagonisti (cosa avvenuta piuttosto spesso, specie intorno al 1968), non è mancato da parte loro un propiziatorio “Che l’inse?”.

2) La seconda frase storica è “Tiremm innanz”, pronunciata nel 1851 dal patriota milanese Amatore Sciesa (che nome da gigolò!).

Si trattava di un umile tappezziere, che l’anno prima era entrato in contatto con alcuni gruppi clandestini che cospiravano contro gli Austriaci. Si era a due anni dalle famose “cinque giornate di Milano” e il feldmaresciallo Radetzky stava attuando una politica ferocemente repressiva per impedire altre rivolte. Sciesa, coinvolto nella diffusione di compromettenti manifesti rivoluzionari, fu arrestato vicino Porta Ticinese il 30 luglio 1851.

Condannato a morte in un processo sommario, fu condotto alla forca: in questa occasione, secondo la tradizione popolare, un gendarme, mentre lo portava al patibolo, avrebbe fatto passare il patriota sotto le finestre di casa sua, per commuoverlo e per esortarlo a rivelare i nomi dei suoi complici in cambio del rilascio. Ma Sciesa rispose fieramente: «Tiremm innanz» (“Andiamo avanti”); poco dopo fu fucilato.

Anche in questo caso non mancano altre versione dei fatti; ma, volendo dar fede a quella riferita, c’è da credere che la frase famosa dovesse essere pronunciata dal condannato in modo forte e chiaro, tanto da poter essere annotata e trascritta da qualche zelante cronista. E “tiremm innanz” è rimasto a indicare la cocciutaggine granitica di chi prosegue senza dubbi e tentennamenti per la sua strada, benché dolorosa e difficile.

3) L’esempio più significativo di “frase famosa” controversa, però, è ambientato in Sicilia.

Si narra che Giuseppe Garibaldi, il 25 maggio 1860, arrivato nel territorio di Marineo, tenne un consiglio di guerra a Gibilrossa (dove ora si trova un obelisco commemorativo) per decidere l’attacco a Palermo. In quell’occasione avrebbe rivolto al suo luogotenente Nino Bixio le famose parole: «Nino, domani a Palermo».

Ora, io mi sono sempre chiesto: chi ha trascritto queste parole? La Masa? Un altro garibaldino? Un abitante di Marineo? Bixio lo escluderei, perché sembra che non avesse troppa dimestichezza con la penna. E comunque, siamo sicuri che il testimone abbia scritto proprio tutto?

Chissà invece che la frase di Garibaldi, molto più pedestremente, fosse questa: «Nino, domani a Palermo ci mangiamo il pane con le panelle». In tal caso, il trascrittore avrà censurato la seconda parte della frase per non depauperare la nobiltà della celebre battuta; oppure, più banalmente, dopo avere annotato la prima parte della frase si sarà allontanato soddisfatto, senza captarne la successiva conclusione “a sorpresa”.

E semmai ci potremmo chiedere se Garibaldi conoscesse il pane con la milza, non meno appetitoso delle panelle.


GUTTUSO E IL CARRETTO SICILIANO

 



















VISITA AL NUOVO ALLESTIMENTO DEL MUSEO GUTTUSO A BAGHERIA

   Oggi pubblico alcune foto fatte durante la visita (fv)
















L' AFFAIRE MORO 2

 




1. "Le lucciole. Il palazzo. Il processo al Palazzo- E come se, dentro al Palazzo, tre anni dopo la pubblicazione sul Corriere della sera di questo articolo di #Pasolini, soltanto Aldo #Moro continuasse ad aggirarsi: in quelle stanze vuote, in quelle stanze già sgomberate. Già sgomberate per occuparne altre ritenute più sicure: in un nuovo e più vasto palazzo. E più sicure, s'intende, per i peggiori. «Il meno implicato di tutti», dunque. In ritardo e solo: e aveva creduto di essere una guida. In ritardo e solo appunto perché «Il meno implicato di tutti». E appunto perché «il meno implicato di tutti» destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni."

📕Leonardo #Sciascia “L'affaire Moro” Sellerio editore, 1978, p.14.


📷 Aldo #Moro e Pier Paolo #Pasolini durante la proiezione del film “Edipo re” nella XXVIII edizione della Mostra di Venezia, settembre 1967©️Graziano Arici/Archivio Arici/Tutti i diritti riservati 

Pezzo ripreso da CITTA'  PASOLINI

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2. Un mio articolo dell'anno scorso

Rileggere “L’Affaire Moro” di Leonardo Sciascia

coverdi Francesco Virga 

«Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato è vivo, forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi» [1] (L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio 1978: 63). 

L’affaire Moro di Leonardo Sciascia viene pubblicato nell’autunno del 1978, qualche mese dopo l’orribile strage della scorta di Aldo Moro, del suo sequestro e successivo assassinio. Il libro viene letto distrattamente da tanti (me compreso) e stroncato da due grandi giornalisti [2]. Apparve frutto di una mente delirante dopo che stampa e tv erano riuscite a convincere l’opinione pubblica che le lettere di Moro non erano state scritte da Moro.

Rileggerlo dopo 44 anni scuote più di quanto non riuscì a fare nel momento in cui vide la luce. Adesso che si sa molto di più sull’accaduto, dopo diversi processi penali, inchieste parlamentari e tanti libri [3] pubblicati sul tema, appare ancora più straordinaria questa singolare opera di Sciascia. Anche se non tutto convince, come vedremo più avanti, impressiona ancora oggi l’acuta e originale analisi delle lettere di Moro compiuta dallo scrittore siciliano [4], in assoluta solitudine, quando tanti preferirono chiudere occhi e cervello.

Sciascia finisce di scriverlo, come si evince dalla data del dattiloscritto, il 24 agosto del 1978. Convinto di avere una bomba in mano, arriva persino a dubitare di poterlo stampare in Italia. Per questa ragione, prima ancora di parlarne con l’editore palermitano Sellerio, si reca a Parigi per accertare che l’editore Grasset sia disponibile a stamparlo in lingua francese. 

Appare utile, per meglio comprendere L’affaire Moro, tenere presente il contesto che lo prepara: nel maggio 1977, presso la Corte di Assise di Torino, inizia il processo contro Renato Curcio e alcuni presunti capi storici delle Brigate rosse. Nell’occasione alcuni membri della giuria popolare rinunciano al mandato di giudicare gli imputati. Pochi giorni dopo, in un’intervista, Eugenio Montale ne giustifica il comportamento condividendo il sentimento di insicurezza dominante in quel periodo in Italia. Si avvia così un’aspra polemica giornalistica circa il coraggio e la viltà degli intellettuali che avrà in L. Sciascia e in G. Amendola i contendenti maggiori [5].

Bologna, manifestazione del Movimento 77

Bologna, manifestazione del Movimento 77

Qualche mese prima, esattamente nel febbraio 1977, all’Università di Roma viene contestato il leader sindacale Luciano Lama; nel mese successivo, dopo un violento scontro tra studenti e polizia nel centro di Bologna, viene ucciso il militante di Lotta Continua Francesco Lorusso. Sono questi, sommariamente, gli esiti più drammatici del cosiddetto Movimento del ‘77 che, tra strette repressive della magistratura inquirente, chiusura di radio sospette di fomentare l’illegalità, si protrarrà per almeno un biennio. Di un tale clima è frutto l’Appello degli intellettuali francesi del luglio 1977, in cui si chiede la «liberazione immediata di tutti i militanti arrestati, la fine della persecuzione e della campagna di diffamazione contro il movimento e la sua attività culturale». L’Appello – predisposto da Maria Antonietta Macciocchi già direttrice del periodico comunista degli anni sessanta Vie Nuove, dove Pasolini scrisse alcuni dei suoi pezzi più belli – viene sottoscritto, tra gli altri, da J. P. Sartre, M. Foucault, R. Barthes, G. Deleuze e F. Guattari. 

In questo contesto Sciascia scrive il libro che arriva in tutte le librerie italiane e francesi nell’ottobre del 1978. Oggi sarebbe stato considerato un instant book perché il suo contenuto riguarda quanto accaduto in Italia nei 55 giorni del sequestro Moro, dopo la strage della scorta, avvenuta a Roma il 16 marzo 1978. 

A prima vista siamo di fronte ad un pamphlet, il cui titolo richiama immediatamente alla memoria il celebre libretto di Emile Zola che tanto clamore suscitò alla fine dell’Ottocento. Ma basta leggerne le prime righe per capire che si tratta di ben altro. I primi due capitoli, i più letterari dell’opera, sono dominati e illuminati da due scrittori particolarmente amati dallo scrittore siciliano: Pasolini e Borges. 

9788855290425_0_424_0_75Come ha ben visto Massimo Onofri siamo di fronte a un libro profondamente sciasciano: in esso convergono «quella contro-storia d’Italia tracciata dalle Parrocchie in poi» e il dialogo con la tradizione letteraria universale (Borges, Manzoni, Tolstoj, Stendhal, per citare solo alcuni dei nomi a lui più cari), intesa come «sistema trascendentale, repertorio di possibilità, della verità» [6]. Acuta ci appare anche la lettura che ne ha fatto il critico più amato dall’autore, Claude Ambroise, secondo cui il libro è un vero e proprio saggio sulla tragedia e sugli equivoci generati dal linguaggio e dalla comunicazione umana [7]. D’altra parte, in quasi tutti i libri di Sciascia, si sono sempre intrecciati generi diversi. Ma in questo lo stile saggistico prevale nettamente su quello narrativo. 

Il prologo pasoliniano 

Nelle prime sei pagine de L’affaire Moro Sciascia riprende letteralmente brani interi del famoso articolo Il vuoto di potere in Italia, pubblicato da Pasolini sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975, raccolto successivamente nei suoi Scritti corsari col titolo L’articolo delle lucciole. E sembra che sia stata proprio una lucciola intravista nella crepa del muro della sua casa di campagna, alla Noce di Racalmuto, a fargli tornare alla mente Pasolini: 

«Era proprio una lucciola […]. Ne ebbi una gioia immensa. E come doppia. [...]. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia, i ricordi, […] – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo terribile paese che l’Italia è diventato, mutato in se stesso […]. Fraterno e lontano, Pasolini per me. Di una fraternità senza confidenza, schermata di pudori e, credo, di reciproche insofferenze» [8]. 

92a909ae-b609-4df5-85f6-6164e4b62ae9_largeL’amicizia tra Pasolini e Sciascia nasce nei primi anni cinquanta del secolo scorso. Un’amicizia scaturita dal comune interesse per le diverse forme della poesia popolare e dialettale nazionale. Non a caso sarà proprio Pasolini a introdurre uno dei primi libri dello scrittore siciliano dedicato alla poesia romanesca e quest’ultimo ad ospitarlo nella rivista nissena “Galleria” nei primi anni cinquanta. L’intesa e la reciproca collaborazione tra i due scrittori si allenta negli anni sessanta per riaccendersi nel decennio successivo, fino agli ultimi giorni di vita di Pasolini. Da qui deriva il rammarico espresso da Sciascia di non aver fatto abbastanza per mostrare all’amico quanto egli si sentisse vicino al suo modo di pensare [9]. 

Le lucciole conducono Sciascia a ripensare all’altra famosa metafora pasoliniana: il Palazzo. Pasolini voleva processare il Palazzo, ossia la classe dirigente democristiana, responsabile ai suoi occhi di aver manipolato il denaro pubblico, di aver trafficato con la mafia, di avere distrutto il paesaggio e di aver fatto un uso illecito dei Servizi Segreti, coprendo i responsabili delle stragi di Milano, Brescia. Pasolini arriverà a chiedere un vero e proprio «processo penale» contro i dirigenti nazionali della DC [10]. 

Potete continuare a leggere il mio articolo che, come hanno detto tanti, è un piccolo saggio  sulla rivista on line, accessibile da tutti gratuitamente, DIALOGHI MEDITERRANEI


NON DATE RETTA AL RE...