28 febbraio 2022

COSTRUIRE LA PACE CON MEZZI PACIFICI

 


PER COSTRUIRE LA PACE CON MEZZI PACIFICI.
Per esempio:

1. esporre la bandiera della pace in tutti i balconi di case, uffici e sedi pubbliche, laiche e religiose;

2. fare pressione non armata su Putin per l'immediato ritiro delle truppe dall'Ucraina;

3. sostenere i pacifisti russi, perché resistano e crescano di numero;

4. creare una Rete Culturale per la Pace tra scuole, università, chiese, associazioni di ogni tipo di tutti i Paesi - Russia e Ucraina comprese;

5. organizzare Forze di interposizione civili disarmate;

6. non fare entrare l'Ucraina nella Nato (e adoperarsi, piuttosto, per lo scioglimento di quest'ultima);

7. non inviare né armi né soldati a nessuna delle parti belligeranti;

8. istituire in Italia - e proporre che venga istituito in ogni Paese - un Dipartimento per la Difesa civile non armata e nonviolenta che possa via via sostituire interamente il Ministero della Difesa (militare).

9. ...

POESIA E POLITICA NEL GIOVANE PASOLINI

 


Autoritratto di Pasolini

Il prossimo 5 marzo ricorre il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (1922-1975). Noi non abbiamo mai atteso gli anniversari per ricordare gli autori maggiormente amati e i lettori di questo blog lo sanno bene. Comunque ci fa piacere vedere pubblicato oggi, su una rivista che ci è tanto cara, un articolo che abbiamo dedicato al giovane poeta. Nel rinviarvi pertanto all' ultimo numero di DIALOGHI MEDITERRANEI per la lettura integrale del nostro contributo, ripropongo di seguito la parte conclusiva di esso. (fv)

La militanza politica del giovane Pasolini

Il 1947 è l’anno in cui Pasolini, non solo aderisce al PCI, ma diventa segretario della sezione comunista di San Giovanni a Casarsa. Anche se le ricostruzioni autobiografiche vanno sempre prese con il beneficio dell’inventario, ci sembra attendibile quello che Pasolini ha scritto di sé a proposito della decisione d’iscriversi al PCI nel 1947, due anni dopo l’uccisione del fratello Guido da parte di un gruppo di partigiani comunisti [16]: 

«Ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del Lodo De Gasperi doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato invece nel 1962 col titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci»[17]. 

Anche se c’è chi dubita dell’effettiva partecipazione di Pasolini alla lotta dei braccianti del dopoguerra, rimane un dato di fatto il continuo rimando a questa esperienza che il poeta, in più luoghi, fa e che costituisce lo sfondo de Il sogno di una cosa. Particolarmente sincera ci sembra, fra tutte, quella riferita l’8 luglio 1961 su Vie Nuove, soprattutto perché rivela il percorso lungo e complicato seguito dal giovane: 

«Allora io vivevo in Friuli, che era un po’ un paese ideale, quasi fuori dallo spazio e dal tempo, una specie di sentimentale e poetica Provenza, per me, che scrivevo poesie rimbaudiane o verlainiane o lorchiane in friulano. Quei mesi di lotte contadine, a cui ho fisicamente partecipato, occhi e orecchi ben tesi, hanno trasformato il Friuli in un paese reale, e i suoi abitanti da antichi provenzali in esseri viventi e storici. Sembrerebbe una cosa così semplice: invece è stata lunga e complicata: ho dovuto compiere con la ragione tutto un viaggio di ritorno dal territorio in cui mi ero addentrato con la più folle, turbata e univoca delle fantasie […] è stata la diretta esperienza dei problemi degli altri che ha trasformato radicalmente i miei problemi: e per questo io sento sempre alle origini del comunismo di un borghese una istanza etica, in qualche modo evangelica»[18]. 

41oeuwcbd-l-_sx279_bo1204203200_Tra i pochi documenti della breve ma intensa militanza di Pasolini nelle file del PCI ci sono rimasti alcuni manifesti, scritti di suo pugno in friulano, verso la fine degli anni ‘40, per le campagne elettorali condotte dalla sezione che dirigeva.

La cosa più sorprendente che salta agli occhi leggendoli è constatare come in essi si ritrovi, tra l’altro, la prima espressione di un tema particolarmente caro al Nostro – il rapporto che lega il cristianesimo al comunismo – ripreso lungo tutti gli anni ‘60 fino agli ultimi suoi scritti. Si ripropone di seguito il testo di uno di questi manifesti, intitolato L’anima nera, scritto nella lingua parlata realmente dai contadini di Casarsa, ben lontana da quella concepita in laboratorio per scrivere le sue prime poesie: 

Se e sia duta sta pulitica ch’a fan i predis cuntra di nualtris puares?
A saressin lour cha varesin da vei il nustri stes penseir;
a ni par che i nustri sintimins a sedin abastanza cristians!
Sers democristians a si fan di maraveja se i Comunisc a van a Messa
quant che i comunisc a podaressin fasì a mondi di pì maraveja par jodi
che i democristians ch’a van a Messa cu l’anima nera coma il ciarbon [19]. 

In queste parole di denuncia dell’ipocrisia dei preti democristiani del tempo noi intravediamo la stessa motivazione etica della critica serrata che, negli anni successivi, Pasolini condurrà contro l’intera classe dirigente nazionale.

Questi manifesti pare che siano stati particolarmente efficaci se, come ha rilevato Enzo Siciliano, hanno contribuito a far vincere le elezioni ai comunisti di San Giovanni, in una regione dove la DC aveva la maggioranza assoluta. Al contempo hanno suscitato invidie e malevoli attenzioni. Così il 15 ottobre del 1949 Pasolini viene segnalato ai carabinieri di Cordovado per presunta corruzione di minorenni. Prima ancora della sentenza giudiziaria che lo assolverà, arriva l’espulsione dal partito per indegnità morale con un comunicato pubblicato su l’Unità: 

«Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese». 

Decisa e puntuale sarà la replica del poeta: 

«Non mi meraviglio della diabolica perfidia democristiana; mi meraviglio invece della vostra disumanità; […] parlare di deviazione ideologica è una cretineria. Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico della parola»[20]. 
Autoritratto

Autoritratto

Secondo Roberto Roversi questa dolorosa esperienza va considerata «nodale» nella storia di Pasolini [21]. L’essere stato messo al bando della società civile, l’aver perso il lavoro, l’essere stato espulso dal partito nel quale militava, l’aver sentito su di sé la condanna e l’esclusione dalla sua classe di appartenenza, hanno sicuramente contribuito a farlo sentire particolarmente vicino al mondo del sottoproletariato romano negli anni ‘50, al residuo mondo contadino sopravvissuto nel Meridione d’Italia degli anni ‘60, e a tutti i “dannati della terra” fino all’ultimo dei suoi giorni. 

Questa sommaria ricostruzione della vita e dell’opera del giovane Pasolini lascia in ombra altri aspetti della sua complessa e sfaccettata personalità. Al riguardo vanno segnalati, tra i tanti, almeno due importanti recenti studi: il primo si deve alla compianta Angela Felice [22] ; il secondo all’originale monografia di Claudia Calabrese, Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances. Roma 2019, che abbiamo recensito in questa stessa rivista nel n. 44 del luglio 2020 [23]. 

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022 

IYA KYVA, Piccolo, questa bara è per te

 

ph. Anna Voytenko


Strazianti questi versi della poetessa ucraina Iya Kyva tradotti da Arianna Bonino (fv)

Piccolo, questa bara è per te,
non aver paura, sdraiati,
stretto nel pugno
un proiettile chiamato vita.

Non credevamo nella morte:
vedi, le croci sono stagnola.
Hai sentito? I campanili
si sono strappati la lingua.

Non ti dimenticheremo, davvero, credimi…
La fede intride del suo sangue
la tua manica.

Canti, preghiere, salmi
sono un groppo in gola
nel mezzo di questo dannato inverno
tutti in mimetica.

Febbraio, prendi l’inchiostro e piangi.*
E la candela gocciola sul tavolo,
continua a bruciare…


ARIANNA BONINO DESCRIVE UN RITRATTO DI EGON SCHIELE

 

F. Beer ritratta da E. Schiele


La stessa F. Beer ritratta da G. Klimt


Dico Schiele e subito penso alle sue ragazze spogliate, alle calze azzurre o rosse e al sonno che viene dopo l’amore. Ma c’è anche Friederike Beer tra le donne che ritrasse. Friederike era una ricca ragazza ebrea che si accompagnava al pittore Hans Böhler e frequentava i circoli artistici, oltre a sostenere la Wiener Werkstätte, forse più per posa e capriccio che per convinzione.

Il ritratto fu realizzato nel 1913 ed è ritenuto l’opera più stravagante di Schiele, considerando:

1. la postura sospesa nell’aria

2. l’inconsueta gestualità delle mani

3. la lunga tunica variopinta (della Wiener Werkstätte; tunica che poi Schiele diede alla sua Wally)

4. che Friederike posò distesa su un materasso e Schiele la ritrasse stando in piedi su una scala

5. che Schiele sparse sulla tunica di Friederike alcune bambole della Bolivia, che risultano infatti incorporate nel ritratto

6. che la domestica di Friederike osservando il ritratto dichiarò che la fanciulla sembrava posta in un sepolcro

7. che il ritratto fu appeso sul soffitto, in modo che lo si osservasse dal basso, come Schiele stesso indicò.

8. che tre anni dopo Friederike fu ritratta anche da Klimt, in posa decisamente diversa.

In ogni caso, verso la fine degli anni Sessanta, Friederike vendette sia il ritratto di Schiele che quello di Klimt, il che le permise di pagarsi una casa di riposo alle Hawaii.

Perché certe cose non hanno prezzo, ma ancora si deve capire di quali cose si tratti.

ARIANNA BONINO






27 febbraio 2022

LE MENZOGNE DELLA STORIA

 





Leonardo Sciascia ha più volte detto e scritto di non credere alle storie scritte dagli storici accademici. Ha dedicato persino uno dei suoi racconti più belli, Il Consiglio d'Egitto, per far riflettere con la sua straordinaria ironia sulle imposture  che si possono creare manipolando archivi e documenti vari.

Oggi ho trovato espresso lo stesso pensiero di Sciascia da Margaret Atwood, una scrittrice vivente, giustamente apprezzata. La Atwood ha trovato parole essenziali, al riguardo: 


C’è la storia,

poi c’è la vera storia,

poi c’è la storia di come è stata raccontata la storia.

Poi c’è quello che lasci fuori dalla storia.

Anche questo fa parte della storia.

Margaret Atwood







LA PRIMA VITTIMA DI OGNI GUERRA E' LA VERITA'

 



La prima vittima di ogni guerra è la verità.

M. PINTACUDA SULLE MENZOGNE RACCONTATE IN OGNI GUERRA

 


OGGI COME IERI: DA TUCIDIDE ALL’UCRAINA

Mario Pintacuda

La storia dell’umanità gronda di esempi di bieco imperialismo, di crudele assoggettamento di Paesi indipendenti e liberi, di giustificazioni ipocrite delle più violente azioni di guerra. Ciò in questi giorni appare quanto mai evidente ed attuale, considerando la tragedia che si sta verificando in Ucraina.

Sarà il caso dunque di rileggere alcune pagine dello storico greco Tucidide, che a questo proposito sono sempre illuminanti.

Nel 416 a.C. Atene decise di assoggettare Melo, piccola isola delle Cicladi e colonia spartana, che non accettava di aderire alla lega delio-attica, costituendo un nefasto esempio per le altre città. Prima di cedere la parola alle armi, gli Ateniesi inviarono gli ambasciatori per imporre ai Meli la resa.

Nell’ampia sezione conclusiva del V libro (capitoli 85-111), Tucidide propone la discussione tra Ateniesi e Meli, che costituisce un vero e proprio esempio di analisi politica dell’imperialismo, ispirato a una visione cinica e pragmatica della realtà.

Rivolgendosi agli abitanti di Melo, gli ambasciatori ateniesi proclamano, a chiare lettere, la legge del più forte (in quegli anni sostenuta dal sofista Crizia): «Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comanda: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della stessa nostra potenza» (V 103; trad. F. Ferrari).

La “Machtpolitik”, la politica fondata sulla forza, sarà ugualmente presente nelle parole di Trasimaco nel I libro della Repubblica di Platone: “io affermo che la giustizia non è altro che l’interesse del più forte” (338 c, trad. Lozza).

Di fronte a questa provocazione, i Meli tentano di convincere i loro interlocutori appellandosi all’utile che potrebbe derivare loro da un atteggiamento conciliante (in caso di sconfitta finale, gli Ateniesi sconteranno a caro prezzo le loro scelte imperialistiche, V 90); citano inoltre il favore divino (“giacché noi, pii, ci opponiamo a persone ingiuste”, V 104) e la loro alleanza con Sparta (V 104).

[Decisamente non mancano analogie possibili con la situazione attuale in Ucraina: chiamate Russi gli ateniesi, Ucraini i Meli e Spartani gli USA e l’Europa e il gioco dell’attualizzazione (sia pure “mutatis mutandis”) è fatto.]

Alle obiezioni dei Meli, la replica degli ambasciatori ateniesi è categorica: la loro “polis” non ha alcun timore di perdere la sua egemonia (ἀρχή, V 91), ritiene inutile confidare negli dèi e considera vana la fiducia dei Meli in un intervento degli Spartani, giacché costoro “considerano onesto ciò che è piacevole e giusto ciò che è utile” (V 105).

Per di più, gli Ateniesi attaccano il “cosiddetto sentimento dell’onore” che, “aiutato dalla forza di un nome ingannevole” (V 111, 3), ha condotto molti alla rovina: il sentimento dell’onore è un miraggio, che deve essere fugato da un’osservazione disincantata della realtà.

Dionigi di Alicarnasso biasimava Tucidide per aver fatto pronunciare agli Ateniesi affermazioni sconvenienti, che neanche “un pirata o un brigante” avrebbero osato fare; dal canto loro i moderni, analizzando il dialogo, si sono chiesti quale fosse il reale pensiero dell’autore.

Secondo Werner Jaeger, nel brano Tucidide mostra “l’imperialismo di Atene nella sua logica estrema e all’apogeo della sua consapevolezza”, ma ritiene che lo storico si limiti a riferire i fatti senza prendere posizione (in questo seguendo la lezione dei sofisti, che in quegli anni proponevano “discorsi duplici”, δισσοὶ λόγοι, su qualunque tema, proprio per evidenziare la possibile duplicità di ogni prospettiva).

Anche la critica più recente tende a credere che lo storico stia oggettivamente a metà strada fra le due parti, senza difendere l’imperialismo ateniese ma senza comprendere davvero il dramma dei Meli, ritenuti implicitamente colpevoli di un’errata valutazione delle circostanze; e tuttavia si ha, a livello subliminale, la sensazione di un’implicita dissociazione dalla decisione degli Ateniesi, che appare priva di lungimiranza. E indubbiamente, rispetto al celebre discorso di Pericle (II 35-46), in cui Atene era definita “scuola dell’Ellade” (παίδευσις), Tucidide mostra in questo dialogo una ben diversa immagine: la città è divenuta la città “tirannica”.

Ma a questo mutamento aveva indotto la guerra, con il suo deleterio effetto corruttore: “in tempo di pace e di prosperità le città e i privati cittadini provano sentimenti migliori, per il fatto che non incontrano necessità che si oppongono al libero volere; al contrario, la guerra, che toglie il benessere delle abitudini giornaliere, è una maestra violenta (βίαιος διδάσκαλος) e adatta alla situazione del momento i sentimenti della folla” (III 82, 2).

Per l’appunto.

La guerra è “una maestra violenta”, stravolge giudizi e criteri, onnubila le menti, induce reazioni, innesca sempre nuovi odi.

Gli antichi Meli sono come gli ucraini di oggi: si oppongono fermamente a una potenza superiore, che si arroga il diritto di imporre la sua forza giustificandone anzi l’uso come “necessario”.

Ma se Putin conoscesse la storia (cosa che, guardando lui e le sue frequentazioni, appare in dubbio), saprebbe anche come andò a finire quella guerra imperialista condotta dall’antica Atene. Dopo il disastro di Egospotami, assediata per terra e mare, nel marzo del 404 a.C. Atene si arrese agli Spartani: dovette consegnare la sua flotta, sciogliere la lega delio-attica, abbattere le Lunghe Mura, accettare al Pireo una guarnigione spartana e modificare le istituzioni in senso oligarchico (ne derivò un anno di spietata repressione attuata dai “Trenta tiranni” filospartani).

Chi maneggia i fuochi d’artificio, rischia di vedersi esplodere gli ordigni fra le mani.

Chi affida le sue speranze di dominio alle armi, rischia di vedersele ritorcere contro.

Chi pensa di avere in tasca una vittoria semplice ed immediata, rischia di impantanarsi in un conflitto endemico e sanguinoso, dai costi umani ed economici altissimi.

Lo dicevano, per l’appunto, gli antichi Meli ai soverchiatori Ateniesi: «Noi conosciamo le vicende della guerra, che talvolta danno una sorte comune alle due parti avverse più di quanto ci si potrebbe aspettare dalla disparità delle forze; e per noi il cedere immediatamente ci priva di ogni speranza, mentre con l’agire c’è ancora qualche speranza di restare ritti in piedi» (V 102).

E oggi, a far apparire gli invasori per quello che sono veramente, bastano le immagini dei bambini spaventati che piangono, delle famiglie che scappano dalle loro case, dei condomini sventrati dai missili, di un popolo che imbraccia le armi e combatte senza arrendersi e senza umiliarsi.

Ci rifletta su chi ucraino non è e si permette in queste ore di giudicare negativamente un popolo che non conosce sulla base della sfacciata propaganda putiniana.

La storia, “maestra violenta”, dovrebbe essere studiata e conosciuta meglio, da tutti.

La “legge del più forte”, a ben vedere, si basa sull’opinione (proclamata unilateralmente) di credersi “più forti” e di mettersi dalla parte di una presunta “ragione”. Ma sono i fatti e gli eventi a dimostrare, col tempo e senza ombra di dubbio, chi è davvero “più forte”.

E comunque la “forza” non consiste certo nel dispiegamento di armi e truppe, bensì nell’adesione incondizionata ai principi di libertà, dignità e parità fra tutti gli uomini di tutti i Paesi, nel rifiuto di ogni atto unilaterale di violenza, nello smascheramento di tutte le menzogne, nella ferma opposizione a ogni prepotenza mascherata sotto ragioni pretestuose.

MARIO PINTACUDA


VOGLIONO LA TERZA ( ossia L'ULTIMA!) GUERRA MONDIALE?

 



È la terza guerra mondiale?

Lorenzo Guadagnucci
27 Febbraio 2022

La Germania e il Belgio hanno annunciato l’invio di aiuti militari a Kiev. L’Italia si prepara a fare altrettanto e una decisione analoga dell’Ue è data per imminente. Biden, intanto, torna a parlare di “terza guerra mondiale” con sconcertante leggerezza. Dice che questa è l’unica alternativa alla via delle sanzioni economiche. Sono parole che servono forse a preparare l’opinione pubblica all’eventualità? Europa e Nato stanno dichiarando guerra alla Russia? Su quali basi? Chi ha deciso? Perché? Con quali obiettivi? “Non lo sappiamo, perché non c’è vero dibattito su questi temi, solo allusioni… – scrive Lorenzo Guadagnucci – Manca soprattutto un’analisi a tutto campo delle origini di questa guerra…”. Chi ha provato a farla è stato zittito, ignorato, deriso

Siamo tutti a chiederci dove porterà la scellerata e criminale aggressione russa all’Ucraina, ma fatichiamo – credo di non essere il solo – a pensare in modo ordinato e sistematico, perché ci troviamo sommersi da molta (forse troppa) informazione impressionistica ed emotiva e da poca (pochissima) voglia di ragionare su questa guerra con apertura mentale e profondità storica.

Le notizie di sabato 26 febbraio sono certamente quelle che arrivano da Kiev aggredita e sotto pressione e dagli altri fronti di conflitto armato, ma più ancora fa impressione – e dovrebbe far notizia – ciò che sta maturando, sia pure in modo poco chiaro, nelle cancellerie europee, al comando Nato, a Washington. Oggi la Germania e il Belgio hanno annunciato l’invio di aiuti militari (armi pesanti) a Kiev; l’Italia si sta preparando a fare altrettanto e una decisione analoga dell’Unione europea è data per imminente. Come noto, l’invio di armi a una delle parti in causa, può essere considerato un atto ostile, un atto di guerra. La domanda che abbiamo il diritto/dovere di fare è allora: Europa e Nato stanno dichiarando guerra alla Russia? Su quali basi? Chi ha deciso? Perché? Con quali obiettivi?

A Washington, intanto, il presidente Biden – pur debole politicamente all’interno del suo Paese e screditato, dopo la precipitosa e fallimentare fuga dal’Afghanistan, sul piano internazionale (o forse proprio per questo?) – è tornato a parlare di “terza guerra mondiale” con sconcertante leggerezza. Ha detto che questa è l’unica alternativa alla via delle sanzioni economiche… Sono parole che servono forse a preparare l’opinione pubblica all’eventualità? A indicare l’esito probabile della scelta di mandare armi in Ucraina?

Non lo sappiamo, perché non c’è vero dibattito su questi temi, solo allusioni. Nella marea di notizie che corre in Europa dalle redazioni di giornali, radio, siti e tv verso i cittadini mancano molte informazioni chiave, manca – soprattutto – un’analisi a tutto campo delle origini di questa guerra. Chi ha provato a ragionare attorno alle scelte fatte all’indomani dell’89, con l’espansione a est della Nato e il mancato avvio di un progetto comune di sicurezza in Europa (esteso alla Russia) e quindi del terreno favorevole così creato allo sviluppo dei nazionalismi in Europa e all’affermazione di un autocrate come Putin in Russia, è stato zittito, ignorato, deriso, a seconda dei casi. È successo per esempio all’ex ambasciatore Sergio Romano, che simili ragionamenti ha proposto in articoli relegati nelle pagine interne del suo giornale e in interviste ad altre testate; a Giulio Marcon, voce storica in Italia della cooperazione internazionale e del pacifismo, autore di un lucido e competente intervento sul Manifesto; al presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, autore di un’analisi storica e politica della vicenda ucraina ben diversa dalle superficiali, manichee e autoassolutorie “opinioni” dei maggiori editorialisti.

Quanto al mondo politico italiano – quasi inutile dirlo – siamo alla categoria del non pervenuto, con prese di posizione stereotipate e poca, pochissima argomentazione: ci si è fermati all’ovvia condanna dell’aggressione russa e del regime putiniano senza approfondire alcunché, senza prefigurare scenari, senza indicare limiti e obiettivi. E il governo Draghi, anche stavolta, ha brillato per opacità, se ci si consente il non casuale ossimoro.

Causa questa sommatoria di ipocrisia e di insipienza ci troviamo a coltivare un dubbio atroce: forse in qualche luogo del potere occidentale (certo non i parlamenti) si è già optato per un’escalation del conflitto in Ucraina e per una prossima estensione della guerra all’Unione europea e alla Nato, con tutti i rischi che ciò comporta? Si è già deciso senza nemmeno informare i cittadini, salvo agire in modo che si preparino un poco alla volta all’idea? Siamo già entrati in una nuova “guerra giusta”? È la terza guerra mondiale?


Articolo ripreso da  https://comune-info.net/e-la-terza-guerra-mondiale/


26 febbraio 2022

ASCANIO CELESTINI CONTROCORRENTE

 


Chi è il colpevole?

Ascanio Celestini
25 Febbraio 2022

Negli ultimi due anni il ministero della difesa (governo Conte II e Draghi) ha chiesto l’approvazione in parlamento di un numero senza precedenti di programmi di riarmo (diciotto). Il 64 per cento della spesa italiana per le missioni militari è destinato a operazioni collegate alla difesa di fonti fossili. Naturalmente il micromondo italiano non è l’unico a fare politica con le armi. La guerra non è un’improvvisa parentesi

Chi è il colpevole di questa guerra? È la Nato che sta allargando i propri confini? È Vladimir Putin che ha scommesso sulla propria forza e ha tirato la corda puntando sulla debolezza statunitense e sulle divisioni dell’Europa? Io penso che la colpa è prima di tutto di chi fa politica con le armi. E mi pare una disquisizione da salotto decidere chi sia più o meno responsabile.

«La spesa militare, a livello globale, è raddoppiata dal 2000 ad oggi, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari all’anno» (dall’appello di cinquanta premi Nobel e scienziati). E se guardiamo in tasca al nostro paese ci accorgiamo che il bilancio del ministero della difesa per il 2022 sfiora i 26 miliardi di euro con un aumento di 1,35 miliardi. «Ci dobbiamo dotare di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora» ha detto Mario Draghi. Ed ecco che un colpevole ce lo abbiamo dentro casa. Fa il presidente del consiglio in Italia.

Un altro si chiama Lorenzo Guerini. Giorgio Beretta, analista della Rete Italiana Pace e Disarmo ci fa sapere che il nostro ministro della guerra «ha sottoposto all’approvazione del Parlamento un numero senza precedenti di programmi di riarmo: diciotto, di cui ben tredici di nuovo avvio».

Greenpeace International ci dice che «circa il 64 per cento della spesa italiana per le missioni militari è destinato a operazioni collegate alla difesa di fonti fossili». Negli ultimi quattro anni abbiamo speso 2,4 miliardi di euro nelle missioni militari collegate a piattaforme estrattive, oleodotti e gasdotti che riguardano l’Eni.

Per me è un piccolo capolavoro di indecenza l’articolo che Ernesto Galli della Loggia ha scritto sul Corriere della Sera il 12 luglio 2020 a proposito dell’Egitto. «Abbiamo bisogno del ben volere di Al Sisi perché l’Eni possa continuare non solo ad estrarre dal suo Paese l’ingentissima quantità d’idrocarburi e di gas che estrae ogni anno» e dunque possiamo evitare di chiedere #veritàperGiulioRegeni. Il bravo giornalista ritiene che sia più significativo «intitolare sempre al nome di Giulio Regeni un certo numero di borse di studio (magari chiamando l’Eni a contribuire al loro finanziamento)…».

Allora? Chi è il colpevole di questa guerra?


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Putin passa il Rubicone Rafael Poch
Cosa si prova in guerra Emilia De Rienzo
Sull’orlo del baratro Alex Zanotelli
Discorsi di guerra e di pace Alessandro Ghebreigziabiher
Gli orrori hanno un sesso Lea Melandri
I popoli e la guerra tra le potenze Raúl Zibechi
Un concerto di cigni starnazzanti e neri Franco Berardi Bifo
Cosa occorre per fermare la guerra Peppe Sini


articolo ripreso da  https://comune-info.net/chi-e-il-colpevole/

25 febbraio 2022

PASOLINI SULLA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA DEGLI ITALIANI

Un fotogramma dell'ultimo film di Pasolini Salò


Riprendo da https://www.nazioneindiana.com/2022/02/26/ questo articolo:

 PIER PAOLO PASOLINI 3. Il tempo della caduta. L’omologazione antropologica degli italiani

di Luca Vidotto

Pasolini, nel 1974, riprende in mano le sue prime poesie friulane e ne scrive una nuova versione, aggiornata in base ai cambiamenti che si sono susseguiti nei trentatré anni che dividono le due raccolte. Il tono cambia radicalmente: l’Italia è, ormai, agli occhi del poeta, stravolta. Il nuovo potere e la moderna tecnica si sono fatti coscienza, causando il genocidio di quei corpi, poveri ma liberi e ricchi, che Pasolini aveva incontrato nella prima parte della sua vita. È stata annientata ogni forma alternativa di cultura, nell’istante stesso in cui risultava in opposizione a quella borghese, la quale, nella sua modernità, è totalmente irreligiosa e non lascia spazio a nessun sentimento che non sia lo sfrenato edonismo legato al consumo, trasformando ogni credenza e ogni culto antico in un insieme di gesti vuoti e parole incapaci di evocare alcunché, lasciando spazio unicamente alla fede nel progresso e nel benessere.
Sotto alla croce di Cristo si riunisce la sola carne vecchia degli anziani, che per fortuna d’anagrafe non riescono a comprendere totalmente il messaggio della modernità. Il sacro si è ridotto da alito vitale a puzzo putrescente, a una maschera di esangue ripetitività, in cui Cristo, la Madonna, Dio e lo spirito da simboli evocativi sono diventati niente più che parole mute e vani pensieri. L’etica cristiana è diventata patetica: la libertà è data dal potere d’acquisto, e si è tanto più liberi quanto maggiore è la possibilità di possedere. Il poter avere e l’aver potere fanno tutt’uno.
Le poesie in dialetto friulano che Pasolini scrisse un anno prima di morire si presentano irriconoscibili rispetto a quelle dei suoi vent’anni, e ciò risulta evidente fin dall’inizio della raccolta, nel confronto tra le due dediche a Casarsa. Così si esprime nel periodo fra il 1941 e il 1943:

 
Fontana di aga dal me país.

A no è aga pí fres-cia che tal me país.

Fontana di rustic amòur.1
 

Così nel 1974:

 

Fontana di aga di un país no me.

A no è aga pí vecia che ta chel país país.

Fontana di amòur par nissún.2

 

Durante la lettura de Le litanie del bel ragazzo restiamo colpiti da come il mondo contadino, che viveva sotto la luce dell’eternità, in cui tutto era chiaro e fermo, e non solo il riso e la serenità del cielo, ma anche la pioggia, le nubi e “un pianto d’inferno”3 erano avvolti in quella luce, non è ora altro che un mondo vecchio, che non ha più niente da dare, come il dialetto che un tempo lo animava. Ma, afferma Pasolini, “non sono vecchio io, è vecchio il mondo, vivendo fino in fondo, io muoio e lui no”4, perché quella terra friulana “non morendo, lascia chi vive senza fondo”5. Il cattolicesimo di cui era permeato si è stemperato, esangue, lasciando che la figura del Cristo, anche lì tra le campagne, si risolvesse completamente nella marca di blue-jeans Jesus: non c’è altro dio se non quello del consumo.
Lo stesso David, il «povero giovane», che avevamo già incontrato e che, «appoggiato al pozzo»6, ci aveva rivolto lo sguardo, ora diventa «un segno dei secoli» finiti per sempre e non più «di un Aprile», destinato ciclicamente a ritornare: nulla più che «una luce nella storia del niente»7.
La stessa gioia che provava Pasolini quando tornava nella sua terra materna, umile e poetica, viene totalmente stravolta e annebbiata da nuovi sentimenti: “Mi sono ingannato giocando al pellegrino che arriva come uno spirito nel mondo contadino. Ma era un gioco nel gioco, e adesso che tutti e due sono finiti nel fuoco spento della storia, maledico la storia che non è in me che non la voglio”8.
Ne Il canto delle campane, Pasolini in un certo senso spiega questo suo sentimento disperato.

 
I no rimplàns ‘na realtàt ma il so valòur.
I no rimplàns un mond ma il so coloùr.

Tornànt sensa cuàrp là che li ciampanis
a ciantavin peràulis di dovèir, sordis coma tons,

i no plans parsè che chel mond a no’l torna pí,
ma i plans parsè che il so tornà al è finít.9
 

Si è conclusa la storia dell’uomo, e ora inizia qualcosa di assolutamente nuovo, che si fa vanto di tale condizione, e che costruisce un mondo non più a misura d’uomo, ma assecondando nuove logiche tecnicizzate, che guardano all’individuo come se fosse un automa. L’atomismo sociale è becero, perché non si prefissa di cancellare ogni intimità fra gli uomini e la natura, ma reinventa il nostro ruolo nel mondo: uomini-massa costruiti sotto la buona stella del consumo.
Che ne è di quei luoghi che avevano generato la vita così come l’aveva conosciuta Pasolini?

 
Diu,
a làssin la ciasa ai usièj,
a làassin il ciamp ai vièrs,
a làassin secià la vas’cia dal ledàn,
a làssin i copsa la tampiesta,
a làssin a l’erba il codolàt,
e a van viae là ch’a a erin
a no resta nencia il so silensi.

Coma il vis’ciu
qualchidún a resta,
‘na fruta cui me vuj,
un fantàt fuàrt e immusàt,
i sint li so vòus.
Ma cui ch’a resta
al è pí lontàn
di chei ch’a son zus.10
 

Pasolini si trova costretto in un’isola solitaria in mezzo al mare della modernità, è il poeta imprigionato in un mondo in cui tutto funziona con una precisione meccanica e l’uomo stesso è diventato un’“arancia ad orologeria”11. In questo mondo è ancora possibile la poesia? Tutto è serio e perbene, e gli occhi sono sempre più ciechi di fronte a quelle presenze del mondo che ci parlano con un linguaggio che scaturisce dalle emozioni e dal turbamento. Sembra persa per sempre la polisemia dei simboli del mondo, tutto ciò di cui si nutre voracemente la contraddittoria poesia e che un tempo si presentava pacificamente nella sua immediatezza e nella sua normalità.
Regna l’ignoranza e la volgarità di chi ha preteso che la cultura di un territorio debba essere una cultura in cui vige una ragione, mortificando lo spirito e la carne degli italiani, imbruttendoli, abolendo il sorriso e l’allegrezza dal loro viso, e dando in cambio il ghigno e la smorfia della presunzione e il tremore della nevrosi.
L’omologazione è una pianta infestante, che non dà, attraverso il proprio modello, nuova vita alla flora preesistente, ma la divora

 
E, in tale coscienza, la realtà si spoglia,
si fa una cosa ripugnante, nuda, come nei sogni.
Solo: io, e la Bava che il mostro lascia passando sul mondo.12
 

Quel mostro di cui parla Pasolini nel finale della poesia, altro non è che il nuovo potere, che ha dato una nuova forma agli oggetti e ai ragazzi che abitano gli antichi luoghi della vita, la quale, ora, si presenta come un ammasso di corpi malaticci e di visi pallidi, completamente immersi nel cemento dei nuovi palazzi che ingombrano e deturpano i profili delle città, le cui vie hanno l’aspetto spettrale dei gironi e delle bolge dantesche, tra il silenzioso frastuono dei centri urbani e l’assordante rumore delle mute periferie. La colpa di questo mondo ce l’hanno infatti i padri, i quali, per una promessa di benessere, hanno venduto al diavolo la propria coscienza e la propria cultura alla società consumistica, dimenticando Cristo e gli antichi valori, per lasciare aperte le porte delle loro case all’Edoné. Ma le tragedie dell’antica Grecia, per bocca del Coro e della sua saggezza, ci insegnano, misteriosamente e quasi in modo per noi (moderni!) inconcepibile, che i figli sono destinati “a pagare le colpe dei padri”13. Quale, allora, la condanna per i figli? “Non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati – in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano – dal fatto che i padri hanno sbagliato”14.
Pasolini non ferma qui la sua critica, e la sua è la voce della disperazione – lui, che nonostante la magrezza e gli spigolosi angoli del viso, aveva sempre avuto degli occhi vivaci e curiosi durante tutti i periodi passati tra i ragazzi che aveva amato, nelle campagne o nelle borgate, ora, durante i suoi ultimi anni di vita – le interviste e i documenti video che ci sono rimasti lo testimoniano – ha lo sguardo coperto da un velo di cupezza spaventosa, ancora più magro di quanto già fosse, ancora più duro e amareggiato nei suoi ragionamenti e nelle sue risposte. Dei sogni e delle palingenesi che avevano segnato la sua giovinezza, resta poco o nulla e la parola speranza viene totalmente abolita dal suo vocabolario, perché, ora, le speranze non sono altro che alibi. Ma Pasolini è ancora più radicale: la sua disperazione ha valore retroattivo e ricopre ogni cosa, distruggendo ogni frammento di passata felicità.
Il 15 giugno 1975, pochi mesi prima del ritrovamento del suo corpo martoriato tra la polvere dell’idroscalo di Ostia, abiurò alla sua Trilogia della vita15, che aveva lo scopo di rappresentare l’ultimo baluardo della realtà da contrapporre alla trionfante “irrealtà della sottocultura dei mass media”16 e che mostravano “gli innocenti corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali”17. L’abiura è dettata dalla constatazione della definitiva fine di quel mondo e dalla “degenerazione dei corpi e dei sessi”18, che getta una lugubre luce anche nel passato:

se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo eran5o già potenzialmente: […] se ora sono immondizia umana, vuol dire che allora […] erano degli imbecilli costretti ad essere adorabili, degli squallidi criminali costretti ad essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti ecc. ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.19

Il mondo si è rovesciato e non ha lasciato nemmeno lo spazio per la nostalgia e il rimpianto di un’epoca che, pur nelle sue misere condizioni di vita, era allegra e necessaria Questo calvario è la genesi stessa delle sue ultime opere, tra le quali sarebbe stata emblematica la Trilogia della morte, di cui conosciamo solo il primo, terribile film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, e il titolo del secondo, Porno-Teo-Kolossal.

In Salò è inscenata l’anarchia del potere, il totalitarismo della ragione calcolante, che avvolge la scena – la quale rappresenta allegoricamente la realtà – di una vuotezza sconvolgente, perfettamente resa dallo stile freddo che non lascia spazio né a sentimentalismi né ad alcuna forma di retorica o pietismo, rivelandosi molto fedele al libro del Marchese de Sade. Il sadomasochismo20 – diventato l’ideale di vita dei quattro libertini, che sono i protagonisti e i padroni della scena – è la metafora del rapporto che il potere ha con tutto ciò che gli è sottoposto, siano questi corpi, ridotti a mera merce, o oggetti, svuotati di ogni significato che non si identifichi immediatamente con la loro funzionalità.

Il potere edonistico-consumistico annienta cioè l’individualità dell’altro. È violenza assoluta. Il titolo e l’ambientazione del film hanno una particolarità, infatti inseriscono la storia, immaginata da de Sade in un lontano castello incastonato nella solitudine delle altezza montuose, all’interno della Repubblica di Salò, cioè dell’ultima sopravvivenza del nazi-fascismo.

Facendo ciò, Pasolini vuole sottolineare, ancora una volta, come la manipolazione dei corpi delle persone operata dalla società dei consumi, che ha causato la loro mutazione antropologica, non abbia niente da invidiare all’applicazione scientifica che mirava alla realizzazione di un’eugenetica ariana, nel nazismo, ad opera di Himmler e di Hitler. Inscena, in altri termini, quel genocidio a cui ha dovuto assistere.

Dopo questa caduta, che l’ha lasciato solo, lacerato ed esangue, mi piace pensare che la morte, l’orribile morte che ha incontrato quella notte a Ostia, sia caduta su di lui come una benedizione.


⇨ PIER PAOLO PASOLINI 1. Il tempo dell’innocenza. Il Friuli e Roma

⇨ PIER PAOLO PASOLINI 2. Il tempo del disincanto. L’avvento della società dei consumi

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NOTE
  1. “Fontana d’acqua del mio paese. Non c’è acqua più fresca che nel mio paese. Fontana di rustico amore” (P.P. Pasolini, La nuova gioventù, cit., p. 7).↩
  2. «Fontana d’acqua di un paese non mio. Non c’è acqua più vecchia che in quel paese. Fontana di amore per nessuno» (Ivi, p. 167).↩
  3. Ivi, p. 12.↩
  4. Ivi, p. 173.↩
  5. Ibidem.↩
  6. Ivi, p. 16.↩
  7. Ivi, p. 178.↩
  8. Ivi, p. 181.↩
  9. “Non rimpiango una realtà ma il suo valore. Non rimpiango un mondo ma il suo colore.
    Tornando senza corpo là dove le campane cantavano parole di dovere sorde come tuoni,
    non piango perché quel mondo non torna più, ma piango perché il suo tornare è finito” (Ivi, p. 187).↩
  10. “Dio, lasciano la casa agli uccelli, lasciano il campo ai vermi, lasciano seccare la vasca del letame, lasciano i tetti alla tempesta, lasciano l’acciottolato all’erba, e vanno via, e là dov’erano, non resta neanche il loro silenzio.↩
  11. Espressione che A. Burgess, autore dell’opera omonima, sente usare per la prima volta da un cockney ottantenne in un pub londinese: la parola lo “incuriosì per la stravagante mescolanza di linguaggio popolare e surreale” (da una lettera inviata al Los Angeles Time il 21 febbraio 1972 e apparsa su Positif n. 139), che lo indisse ad usarla per indicare il momento in cui una persona si riduce – o meglio, viene ridotta – a essere un mero meccanismo, una mera macchina, pre-impostabile e totalmente controllabile, anziché un essere umano con le proprie contraddizioni e le proprie scelte da prendere.↩
  12. P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa, cit., p. 85.↩
  13. P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 17.↩
  14. Ivi, p. 23.↩
  15. Composta dai tre film: Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte.↩
  16. P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., pp. 83-84.↩
  17. Ibidem.↩
  18. Ivi, p. 85.↩
  19. Ivi, pp. 85-86.↩
  20. Parola che ha come padri D.A.F. de Sade, da cui sadismo, e L. von Sacher-Masoch, da cui masochismo