31 agosto 2022

"EREDITA' DISSIPATE" SECONDO BERNARDO PULEIO

 



Nani sulle spalle dei Maestri

img-20220712-wa0002di Bernardo Puleio

Quando, nel primo canto dell’Inferno, Dante, spaesato e terrorizzato, credendo di aver perso la bussola, incontra Virgilio e si accerta di avere di fronte il grande poeta Latino, dice Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore. Il riferimento dantesco non sembri inappropriato nel presentare Eredità dissipate, il libro di Francesco Virga (Casa Editrice Diogene Multimedia, Bologna, 2022), che fa riferimento a tre grandi maestri del ‘900: Gramsci, Pasolini e Sciascia, autentici auctores, maestri, guide scomode nel labirinto della storia e delle idee.

Come mai allora, se i tre autori sono assimilabili, secondo il principio di auctoritas del canone medievale, altri imprescindibili maestri, Francesco Virga intitola il suo acuto, analitico e originale, saggio, Eredità dissipate? L’autore ce ne dà una interpretazione che potrebbe apparire pessimistica nella Avvertenza iniziale. Ma in un tempo come il nostro, in cui si parla sempre più spesso di fine della storia e dove la storia sembra davvero uscita dai suoi antichi cardini, sono tanti a pensare che non ci sia più posto per Gramsci, Pasolini e Sciascia.

E tuttavia fin dall’esergo del primo saggio, dedicato con grande attenzione e accuratezza agli scritti giovanili di Antonio Gramsci, emerge attraverso la citazione di un famoso passo tratto dai Quaderni quello spirito indomito dualistico che si innerva sul contrasto tra pessimismo e ottimismo che, pure in presenza del pessimismo della Ragione, non rinuncia a una lotta aperta titanica e intelligente. «Occorre creare uomini sobri, pazienti, che non disperino di fronte alle difficoltà e non si esaltino ad ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».

Un piccolo preliminare suggerimento metodologico. Non so se Virga, redigendo il suo saggio, abbia pensato a una famosa conferenza tenuta da Michel Foucault il 22 febbraio 1969 che diede poi origine a un famosissimo saggio, Che cos’è un autore? Tra le tante cose inserite in quel denso saggio il filosofo francese attribuiva alla funzione autore – non in tutti i casi ovviamente, ma nei grandi autori, nei grandi riferimenti, nei maestri, si potrebbe dire – una funzione di installatori di discorsività e, in questa categoria, inseriva Marx e Freud, oltreché Omero, Aristotele e i padri della Chiesa. Cioè autori a partire dai quali si sviluppa una riflessione, autori nei quali sono presenti dei segni, diremmo delle chiavi di lettura, per cui è possibile in contesti, campi e momenti storici diversi, ritornare alla loro auctoritas per apprendere nuove possibilità di discussione, di ermeneutica, di interazione tra epoche e contesti diversi.

In ogni caso il testo di Virga sembra muoversi su questa linea interpretativa quando propone questi tre modelli nella loro diversità – riconducibili comunque a un filo unitario che è quello di una visione autonoma eretica, conflittuale, dialettica della storia – in cui certamente, il primo dei tre, Gramsci, svolge una funzione importante per avere tracciato un solco, un campo di discorsività nuovo nella storia della cultura italiana e non solo italiana.

Gramsci, di Guido Scarabottolo

Gramsci, di Guido Scarabottolo

Gramsci

Intanto va osservato, come è stato ricordato da uno storico di valore, Eric Hobsbawm, citato da Virga, che il pensiero di Gramsci è sopravvissuto alla caduta del comunismo e che anzi fuori dall’Italia, e pure fuori dall’Europa, si assiste ad una diffusione sempre maggiore del pensiero dell’autore dei Quaderni, infatti fioriscono studi e saggi sul piccolo grande sardo.

«Gramsci è divenuto ‘importante’ persino fuori dal suo Paese, dove la sua statura nella storia e nella cultura nazionale è stata riconosciuta praticamente fin da subito. Adesso è riconosciuta nella maggior parte del mondo. La fiorente scuola di ‘studi subal­terni’, che ha il suo centro a Calcutta, sostiene anzi che l’influenza gramsciana sia tuttora in espansione. Gramsci è sopravvissuto alle congiunture politiche che furono alla base del suo primo successo internazionale. È sopravvissuto allo stesso movimento comunista europeo. Ha dimostrato la sua indipendenza dagli alti e bassi del­le mode ideologiche […]. È sopravvissuto a quella chiusura nei ghetti delle accademie che pare essere il destino di tanti altri pen­satori del ‘marxismo occidentale’. È persino riuscito ad evitare di divenire un ‘ismo’».

Ma come orientarsi all’interno delle migliaia di pagine scritte da Gramsci? Con acribia filologica Franco Virga ripercorre fin dall’inizio, fin dagli scritti giovanili, l’elaborazione di un percorso e di un processo di formazione che appaiono assolutamente autonomi ed eretici rispetto all’idealismo o al neoidealismo imperante all’inizio del ‘900 con Croce e Gentile ma anche rispetto alla tradizione di Marx. Ne è testimonianza uno scritto del 1916, Socialismo e Cultura, in cui il giovane Gramsci elogia pienamente l’Illuminismo e considera le elaborazioni culturali dei philosophes non intellettualistiche, ma come la base su cui poi si è innervata la Rivoluzione francese, auspicando l’avvenire di una Rivoluzione socialista che possa ugualmente trovare un terreno comune a cultura e idee di progresso. Non siamo ancora alla formulazione di concetti come intellettuale organico e egemonia culturale ma il giovane Gramsci vede nella Rivoluzione francese un modello da seguire, in chiaro contrasto con l’idealismo e il neoidealismo, ma anche in netta antitesi con Marx:

«Ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavoro di critica, di penetrazione culturale. […]. Le baionette degli eserciti napole­onici trovavano la via già spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli, sciamati da Parigi fin dalla prima metà del sec. XVIII, che avevano preparato uomini e istituzioni.
[…]. L’Illuminismo, tanto diffamato dai facili critici della ragione teo­retica, non fu affatto quello sfarfallio di superficiali intelligenze enciclopediche che discorrevano di tutto e di tutti con pari imper­turbabilità, […] non fu insomma solo un fenomeno di intellettua­lismo pedantesco ed arido, simile a quello che vediamo dinanzi ai nostri occhi, e che trova la sua maggiore esplicazione nelle uni­versità popolari di infimo ordine. Fu una magnifica rivoluzione esso stesso, per la quale, come nota acutamente il De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana, si era formata in tutta l’Euro­pa una coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese […] che era la preparazione migliore per la rivoluzione».

Ma c’è di più: il giovane Gramsci legge la Rivoluzione bolscevica in un’ottica anti marxista e anzi reputa che il Capitale di Marx in Russia sia appannaggio della classe borghese ma non dei proletari. La Rivoluzione d’ottobre è La rivoluzione contro il Capitale come si intitola un famoso editoriale apparso su L’Avanti il 24 novembre 1917:

«La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti (perciò, in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo). Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitali­stica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue ri­vendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell’azione esplicata, del­le conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e come si è pensato».

Un altro elemento centrale dell’opera giovanile, che poi diventerà una base della formazione anche del pensiero maturo, riguarda l’educazione: il proletariato si deve affrancare dagli intellettuali di professione non rimanendo emarginato all’interno di una cultura proletaria, ma seguendo gli stessi percorsi di formazione della classe dirigente, in maniera autonoma. D’altronde, mentre redige le pagine della rivista Ordine Nuovo, Gramsci pensa che anche i bolscevichi siano degli educatori. Diventato segretario del Partito comunista d’Italia, nel 1926, di fronte alle aspre lotte interne alla Partito comunista sovietico, Gramsci invia una lettera che ha un sapore profetico. Ma la lettera indirizzata come tramite a Togliatti che era il rappresentante italiano presso l’Internazionale comunista non verrà mai presentata a Mosca. Uno dei passi fondamentali di questa lettera con quasi profetica premonizione dichiara «Voi state distruggendo l’opera vostra».

71xkwem8pwlLa questione meridionale

Gramsci legge la storia in maniera dialettica, certamente non acconsentendo alla retorica borghese e nazionalista dell’Italia post unitaria: leggere ancora oggi a distanza anche più di cento anni alcune delle sue pagine che hanno un senso di freschezza, una intelligenza e un coinvolgimento empatico con il lettore, è cosa di straordinario interesse, uno dei tanti meriti di questo testo che ripercorre, dando la parola agli autori, gran parte del loro modo di pensare, autenticamente, senza forzature e ipotesi precostituite.

È dialettica e antiborghese la sua formazione in quanto comunista e lo è a maggior ragione in quanto meridionalista. Gramsci osserva che col processo unitario le discrepanze tra nord e sud hanno continuato ad esistere, anzi si sono incrementate, peggio ancora, è nata una ideologia che intende legittimare le differenze e in maniera discriminatoria e razzista accusare i meridionali di colpe che non sono loro. Virga analizza con attenzione – e ne traccia una mappatura interessante e fondamentale per chi voglia approfondire studi su questo argomento – il meridionalismo critico di Antonio Gramsci, mettendo insieme per esempio articoli apparsi su L’Ordine nuovo nel 1920 e saggi successivi.

«La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali.
Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura “meridionalista” della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano, e i minori seguaci, che in articoli, in bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la “scienza” era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato».

D’altronde il Risorgimento, nella lettura gramsciana, è un fenomeno in cui la borghesia commerciale e industriale cittadina sopravanza il mondo rurale, che era soprattutto il mondo del sud, senza una partecipazione popolare o, escludendo o, peggio ancora reprimendo manu militari quelle eventuali rivoluzionarie svolte popolari. Un fatto di dominio borghese e reazionario che ha creato un’Italia borghese e reazionaria in cui l’industrializzazione del nord ha colonizzato il sud.

Pasolini, di Davide Toffolo

Pasolini, di Davide Toffolo

Pasolini

È Gramsci che svela a Pasolini la strada da seguire. «Le idee di Gramsci coincidevano con le mie; mi conquistarono immediatamente, e la sua fu un’influenza formativa fondamentale per me». Da Gramsci Pasolini apprende che la ricerca verso la verità non è riconducibile a un unico perimetro d’azione ma che bisogna costruire ponti, non demonizzare gli avversari ma dialogare e comprendere le loro ragioni. Da qui comincia un percorso, del laico Pasolini, ricco di attenzioni nei confronti del mondo cristiano. Per esempio il suo film, il Vangelo secondo Matteo, è un atto di riconoscimento di verità nei confronti di Giovanni XXIII:

«Non sono affatto cattolico, anzi sono certamente uno degli uomi­ni meno cattolici che operino oggi nella cultura italiana […]. Ho amato, alla fine degli anni ‘40, la religione rustica dei contadini friulani, le loro campane, i loro vespri. Ma cosa c’entrava lì il cat­tolicesimo? Sono diventato comunista ai primi scioperi dei brac­cianti friulani. […]. Forse appunto perché sono così poco catto­lico ho potuto amare il Vangelo e farne un film […]. Ho potuto farlo così come l’ho fatto, perché mi sento libero, e non ho paura di scandalizzare nessuno; e, infine, perché sento che la parola d’a­more (incapacità di concepire discriminazioni manichee, istinto di gettarsi aldilà delle abitudini, sempre, sfidando ogni contraddi­zione), parola d’amore di cui è stato campione Giovanni XXIII, va considerata un impegno nella nostra lotta».

Gramsciana è anche l’accusa che Pasolini formula agli intellettuali italiani di essere cortigiani e chiusi dentro il Palazzo, la felice immagine usata dallo scrittore friulano per indicare il luogo del potere, quello che una volta era la Corte. Della corruzione degli intellettuali della società italiana è chiaro segnale il linguaggio del potere, un linguaggio tecnologico e incomprensibile, frutto della nuova linea capitalistica imposta nel Paese.

«I potenti democristiani che in questi anni hanno detenuto il pote­re, dovrebbero andarsene, sparire, per non dire di peggio. Invece non solo restano al potere, ma parlano. Ora è la loro lingua che è la pietra dello scandalo. Infatti ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per colpevolezza, per paura, per furberia, non fan­no altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poiché la loro cultura è una putrefatta cultura forense e acca­demica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia. Non la si può ascoltare, bisogna tapparsi le orecchie. Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe quello di insegnare alla gente a non ascoltare le mo­struosità linguistiche dei potenti democristiani, a urlare, a ogni loro parola, di ribrezzo e di condanna. In altre parole, il dovere degli intellettuali sarebbe quello di rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l’Italia».

Pasolini individuava nella tv il nuovo strumento di omologazione di massa, la nuova epifania di un potere apparentemente più bonario ma che creava una sorta di unitarismo indiscusso e indiscutibile che noi oggi definiremmo ‘politicamente corretto’, una nuova forma di fascismo, deteriorando irrevocabilmente l’identità e la coscienza dei cittadini e realizzando la cosiddetta mutazione antropologica, attraverso il ricorso anche ad un linguaggio apparentemente più vicino alla realtà ma proprio per questo portatore di nuovi rischi, di nuove forme di dogmatismo, di nuove forme di catechismo.

«La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del po­tere e potere essa stessa. [...]. È attraverso lo spirito della televi­sione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. [...] Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appun­to, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre».

Attraverso il consumismo, la concezione fascista del potere capitalistico, a giudizio di Pasolini, ha mutato l’antropologia, il modo di essere, anche di vestirsi, degli Italiani e, in cambio di una maggiore libertà in termini di diritti (vedi per esempio il divorzio), ha guastato e corrotto, degradato moralmente l’intera nazione: tutti allineati lungo lo stesso modello e la stessa concezione della visione del mondo. Osservazioni queste che crearono non poche polemiche a sinistra perché in definitiva la riflessione di Pasolini postulava un circolo vizioso: il potere appariva inequivocabilmente fascista sia quando negava i diritti sia quando, dopo aspre lotte contro il conservatorismo, li concedeva o, per meglio dire, era costretto a cederli.

La conquista – altro che concessione – dei diritti a una massa di persone, il miglioramento sociale, il progresso economico, diciamolo pure la trasformazione di un proletariato privo di tutto in una classe piccolo borghese, proprietaria di case – anche di seconde case –, con la facoltà di effettuare le vacanze, non sono ovviamente la stessa cosa della privazione di tutti questi beni e di tutte queste risorse: non appare né corretto sotto il profilo metodologico né onesto sul piano intellettuale dire che tutto e il contrario di tutto sono la stessa cosa. C’è un rischio, questo sì grave di una pericolosa omologazione, pur di effettuare una critica a tutti i costi del potere, senza discernimento storico delle evoluzioni e delle situazioni: tanto più che quei miglioramenti avvennero grazie alle aspre lotte dei sindacati e dei partiti di massa di sinistra. E pertanto anche a sinistra Pasolini fu attaccato, a volte anche vergognosamente. Ma chiarisce giustamente Virga che, al di là del merito delle riflessioni del friulano, quello che va tenuto in considerazione è il carattere volutamente provocatorio antifrastico dialettico del suo pensiero. «L’originalità sta tutta nella radicali­tà della critica allo “sviluppo” e nella affermazione eretica – dal punto di vista marxista – secondo cui lo sviluppo economico e l’industrializzazione, di per sé, non sono portatrici di Progresso.

Chissà che non gli sia costata la vita questo famoso articolo, Il Processo, pubblicato il 24 agosto 1975 in cui Pasolini criticava la corruzione e il tradimento del regime democristiano:

«Disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, in­trallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, con­nivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, uso illecito dei servizi segreti, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna [...], distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia».

81-qlpwdqdlLa problematicità delle questioni poste da Pasolini viene molto ben evidenziata nel saggio di Virga col riferimento a un episodio meno noto sul quale viene focalizzata un’attenzione notevole. Una delle ultime cose effettuate da Pasolini fu la docenza in un corso di aggiornamento per insegnanti presso un liceo di Lecce, sulla questione della lingua, intitolato Volgar eloquio, con titolo dantesco appositamente scelto dallo scrittore. Pasolini non tenne nessuna relazione, volle sconvolgere l’uditorio dicendo di non essere in grado di insegnare nulla a nessuno, invitando a passare direttamente al dibattito. Pasolini non solo ribadì la sua fedeltà e lealtà ai problemi posti da Gramsci, per esempio sull’identità culturale, ma affermò un principio che ancora oggi è oggetto di discussione e cioè il problema della identità attraverso la lingua.

Un problema che gli intellettuali progressisti sfiorano con un certo imbarazzo perché parlare di identità attraverso la cultura della lingua sembra quasi un terreno favorevole alle riflessioni nazionaliste e di destra. E invece la difesa della identità della lingua materna che come scriveva Dante nel De vulgari eloquentia, il bambino apprende assieme al latte materno, è una difesa trasversale della propria identità, non è una rivendicazione nazionalista, è una rivendicazione di umanità, una mappa, un punto di riferimento che rimanda al senso laico e progressista del principio di auctoritas: senza una mappatura precisa non è possibile sviluppare una identità precisa e si è più vulnerabili.

Sciascia

Per leggere il maestro di Racalmuto, Virga si serve di questa chiave di lettura, un lapidario ma acuto giudizio critico:

«Per usare un’espressione pasoliniana, Sciascia è stato un empirista eretico, che ha osservato la realtà senza aprioristici schemi ideologici. Egli parte sempre dall’osservazione di dati empirici, spesso da fatti di cronaca minuta, e raramente da essi trae conclusioni di carattere generale».
Sciascia, di Turi Distefano

Sciascia, di Turi Distefano

D’altronde l’autore cita una preziosa, quanto rarissima, testimonianza in copia ciclostilata: si tratta degli atti di un convegno tenuto a Palma di Montechiaro nell’aprile del 1960. Un convegno nella città del Gattopardo a cui parteciparono tra gli altri Danilo Dolci e Leonardo Sciascia, che tra di loro non ebbero mai rapporti particolarmente amichevoli o significativi.

Virga in questo suo saggio mette insieme e tesse la sua rete, intrecciando fili di autori e opere che gli sono cari, da Gramsci a Pasolini a Sciascia, passando attraverso le interpretazioni e le correlazioni, in primo luogo, con Franco Fortini, Danilo Dolci e Giuseppe Fiori.

È di lunga data la frequentazione attenta dell’autore nei confronti dell’opera di Sciascia. E di questa acuta analisi è testimonianza la rivista Dialoghi Mediterranei sulla quale Virga ha più volte scritto proprio a proposito del maestro di Racalmuto. E risultano particolarmente interessanti le annotazioni che Virga pone sia a proposito della mafia – ovviamente un capitolo indispensabile di studio dal punto di vista storico e sociologico per chi voglia affrontare l’opera dell’autore de Il giorno della civetta – sia anche relativamente alle contaminazioni culturali e alla presenza di una Sicilia araba. Ecco due passi illuminanti in questo senso: il primo è tratto dal saggio La mafia, un saggio del 1957 inserito in Pirandello e la Sicilia, il secondo invece è un’intervista di Sciascia a Lotta continua del 1979:

«Sarebbe interessante fare un elenco di tutti i capimafia che sotto l’AMGOT trovarono cariche e prebende; e dire come, sotto così esperte mani, subito si organizzò il mercato nero. C’è da chieder­si se ufficiali di Stato Maggiore non portassero, insieme ai piani dello sbarco, precise liste di persone di fiducia che – guarda caso! – erano poi il fiore dell’onorata società: nel qual caso avremmo la prova migliore della potenza della mafia americana e del rapporto da questa costantemente mantenuto con la mafia siciliana». 
«- Trattative per Moro e trattative per lo Scià. Lo Scià lo daresti a Khomeini?
- No, lo Scià non lo darei. Per un antico rispetto delle regole. Tu non puoi buttare in pasto alla morte una persona a cui hai dato rifugio. Sarebbe quello che nella Divina Commedia è il “tradi­mento del commensale”. Avrei potuto non riceverlo, ma non pos­so consegnarlo… I suoi averi sì, certo. Ma forse gli iraniani non si accontenterebbero, perché nel mondo musulmano lo spirito di vendetta è fortissimo. Khomeini non riusciamo a spiegarcelo in­teramente. Per me è il fanatismo […]. Non mi piace. È un uomo molto vecchio, ma non degli anni suoi, degli anni del mondo mu­sulmano. È brutto questo momento, questo mondo. Io amo molto gli arabi, mi sento quasi arabo, ma un arabo che ha letto Monte­squieu. Lo consiglierei anche a loro».

Conclusioni

Lasciamo l’ultima parola all’autore.

«Credo di aver spiegato le ragioni che mi hanno spinto a con­siderare, almeno in parte, dissipata la grande eredità culturale lasciata da Gramsci, Pasolini e Sciascia. I tre, malgrado il suc­cesso che hanno avuto in alcuni momenti della loro vita, sono stati, in gran parte, incompresi dai loro contemporanei. Antonio Gramsci si è sentito isolato e incompreso dai sui stessi compagni di lotta.  […]
La storia di Pasolini è stata, in gran parte, una storia di in­comprensioni. Come ha ben visto Gianni Scalia, dopo la sua morte, i mezzi di comunicazione di massa si sono impadroniti di lui: il poeta bolognese è stato interpretato, giudicato, com­memorato: encasillado (come direbbe Unamuno). Ma non com­preso.
[…] Malgra­do il successo di critica e di pubblico che tutte le sue opere hanno registrato nel mondo intero, in Italia Leonardo Sciascia ha sempre diviso l’opinione pubblica e la classe politica (di go­verno e di opposizione), insieme alle gerarchie ecclesiastiche, hanno guardato sempre con sospetto al suo spirito eretico».
Pasolini e Sciascia

Pasolini e Sciascia

Eredità dissipate dunque nella concezione pessimista che Francesco Virga evidenzia in questo suo saggio. E il verbo dissipare certamente ha a che vedere anche con lo scialacquare, lo sperperare. Dissipare, in senso attivo, rimanda ad un’altra accezione che speriamo questo bel saggio di Virga possa realizzare: dissipare le tenebre dell’ignoranza, per esempio, si dice quando si disperde cacciando qualcosa di pregiudizievolmente negativo. E non ci resta che leggere e ripartire da qui, dalle eredità dissipate, per evitare di dissipare il nostro patrimonio culturale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022

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Bernardo Puleio, insegna Lettere al Liceo Umberto di Palermo. Tra le sue pubblicazioni: I sentieri di Sciascia (Palermo, Kalos, 2003); Il paradigma impossibile: nuovi saggi su Leonardo Sciascia (Palermo, Nuova Ipsa, 2005); Il linguaggio dei corpi straziati. Potere e semantica del potere nell’Italia del XVI secolo (Firenze, Clinamen, 2007). È redattore dei Nuovi Annali del Liceo Umberto I di Palermo.

LA MASSONERIA SCIOLTA DAL REGIME FASCISTA

 


Garibaldi. Numero unico edito dalla Massoneria savonese” rappresenta uno dei pochi documenti sopravvissuti alla devastazione ad opera dei fascisti della casa massonica di Savona e alla distruzione del suo archivio di cui, assieme ad arredi e paramenti, venne fatto un falò sulla pubblica via. Il quaderno, uscito nell'estate del 1907, e destinato, come dimostra il modico prezzo di 20 centesimi, ad una larga diffusione, rappresenta il tentativo dei massoni savonesi di uscire dal chiuso delle loro logge e di presentarsi alla città come un'associazione patriottica e democratica, diretta derivazione delle lotte risorgimentali di cui ancora vivissimo era il ricordo. Da qui il titolo e il taglio di molti articoli.

Di particolare interesse l'articolo scritto da Pietro Sbarbaro che ribadisce il concetto della Massoneria come vera chiesa laica dell'umanità, portatrice di valori di fratellanza e tolleranza. Una risposta alle polemiche di chi, come i nazionalisti, accusavano l'Istituzione massonica di essere una consorteria al servizio di poteri forti finanziari stranieri di cui non si taceva la natura ebraica. Quel complotto pluto giudaico massonico diventato poi uno dei cavalli di battaglia della propaganda fascista che ancora oggi è alla base di molte delle teorie complottiste circolanti su una presunta “Europa dei banchieri” che schiaccerebbe gli interessi nazionali italiani. Unica differenza, l'abbandono del termine “giudaico”, impronunciabile dopo la Shoah, ma sottinteso in ogni riga se non apertamente suggerito come il caso Soros dimostra ampiamente.

Garibaldi. Numero unico edito dalla Massoneria savonese” esprime nelle sue venti pagine il momento forse più alto della Libera Muratoria savonese e italiana. Già l'anno dopo la scissione dell'ala conservatrice legata al Rito Scozzese Antico e Accettato e la nascita di una seconda Obbedienza nazionale, quella cosiddetta di Piazza del Gesù, avrebbe evidenziato le crepe esistenti nel “Tempio” che i massoni italiani, al pari dei loro fratelli del resto del mondo, intendevano costruire alle idee di Libertà, Eguaglianza, Fratellanza. La tragedia immane della prima guerra mondiale avrebbe cancellato quel mondo e quelle generose illusioni. Il fascismo avrebbe poi nel 1925 dato il colpo di grazia con la distruzione manu militari delle logge e una legge parlamentare di messa fuori legge della massoneria come organizzazione “segreta” ed “antinazionale” a cui il solo Antonio Gramsci, pur di idee totalmente diverse, ebbe il coraggio di opporsi con un discorso nobilissimo alla Camera.


G.A.


Il Quaderno può essere letto e scaricato al seguente link:

https://www.academia.edu/85922013/Quaderni_per_la_storia_della_massoneria

MARIO PINTACUDA RILEGGE I BARBARI DI K. KAVAFIS

 


ANCHE NOI: “ASPETTANDO I BARBARI”

Mario Pintacuda

Nella celebre lirica “Aspettando i barbari” (Περιμένοντας τοὺς βαρβάρους), composta dal poeta neogreco Konstandinos Kavafis nel 1908, emerge un senso di inerzia e di accidia di fronte all’arrivo (ansiosamente atteso ma poi non avvenuto) di fantomatici “barbari” che potrebbero rappresentare la “soluzione” ai problemi di una città “civile” (o, forse, dell’individuo Kavafis, anch’egli in perenne e vana attesa di un intervento “esterno” che lo liberi dal tormento esistenziale).

Il contesto è alquanto sfumato.

Nella piazza principale di una capitale senza nome (Roma o Costantinopoli? Poco importa…), le massime autorità attendono l’arrivo delle truppe barbariche in atteggiamento remissivo, pronte a consegnarsi agli invasori senza opporre la minima resistenza, anzi rendendo loro omaggio.

L’imperatore, infatti, ha una pergamena da offrire al capo dei barbari, con “una serie di titoli e di epiteti” (v. 15); i due consoli e i pretori sono preziosamente vestiti ed ingioiellati per “fare colpo” (v. 23) sugli invasori; gli oratori soltanto si tengono lontani dalla piazza, consapevoli che i barbari “non hanno voglia di eloquenza e di arringhe” (v. 27).

Il finale però presenta un evento del tutto inatteso, un deludente “aprosdòketon”: i barbari non arrivano più! Anzi qualcuno ha riferito “che di barbari non ce ne sono più” (v. 34).

Ne deriva nei cittadini un terribile smarrimento, un senso di profonda delusione, dato che viene meno la possibile “soluzione” (λύσις, v. 36) ai loro problemi; nessuno, dunque, porrà rimedio alla loro crisi profonda, al senso paralizzante di passività che li attanaglia.

Il testo si presta a diverse chiavi di lettura; basterà accennare alle due principali, per poi passare a qualche considerazione che ci riguarda, oggi, da vicino.

Una prima interpretazione inquadra la poesia, alla lettera, nel momento della decadenza e del crollo finale dell’antico impero romano, allorché una civiltà ormai esaurita crollava sotto i colpi delle invasioni barbariche. Però in oriente l’impero romano non cadde fino al 1453 ed i “barbari” cui si allude nella lirica non possono essere i Turchi che conquistarono in quell’anno Costantinopoli, anche perché il contesto storico appare, sia pur nella sua genericità, “antico” e collegabile ai primi secoli dell’era cristiana.

L’interpretazione più fortunata, allora, vede nel componimento la metafora della condizione del poeta, il suo isolamento in una situazione avvilente e la sua vana illusione che qualcosa, giungendo “da fuori”, dia una svolta alla sua esistenza. La lirica costituirebbe allora una sorta di beckettiano “Aspettando Godot”, in cui l’animo di Kavafis appare incline a sperare in soluzioni “esterne” alla sua tormentosa condizione di inerzia, piuttosto che ad una consapevole assunzione di responsabilità e ad un’azione decisa e risolutiva.

Perché dobbiamo rileggere oggi questi versi?

Perché anche noi, in questi giorni, “aspettiamo i barbari”.

Ci siamo convinti, a torto o a ragione, di essere stati mal governati, mal amministrati, mal rappresentati.

Abbiamo accumulato delusioni, diffidenze (in quale Paese si cambiano tre volte le coalizioni di governo in una stessa legislatura e due volte con lo stesso presidente del consiglio?), disaffezione alla politica e ai suoi rappresentanti.

Come sempre accade, abbiamo fatto ringalluzzire le opposizioni, ascoltando le facili sirene delle proteste più di quanto abbiamo dato retta ai (più o meno coerenti) programmi governativi.

Il senso della realtà invita oggi a fidarsi dei sondaggi (che ieri davano la coalizione di destra-destra al 49% alle prossime elezioni politiche) più di quanto ci si possa fidare delle tante esternazioni antiberlusconiane, antisalviniane e soprattutto antimeloniane dei social. Non si contano infatti, in questo momento, quelli che a parole esternano preoccupazione e disappunto per la prevedibile vittoria dei conservatori populisti e sovranisti, che postano (con il consueto livore da “haters”) i loro proclami di odio. Ma magari nel segreto dell’urna sfogheranno (vilmente) le loro paturnie votando proprio per i tanto odiati “barbari”.

Subentra in noi la stessa sfiducia di quei cittadini che aspettavano i barbari “riuniti in piazza”.

Che senso ha fare leggi? “Quando verranno i barbari le faranno loro”.

E che fa “il nostro imperatore” (Sergio I, patrimonio dell’umanità)? Ha già pronta la pergamena da offrire al capo (o alla “capa”) dei barbari.

E come saranno questi barbari? Beh, facile immaginarlo: amano e ameranno lo splendore dell’oro e dell’argento, si faranno incantare dalle apparenze seducenti: “queste cose fanno colpo sui barbari”.

E a che serve ammonire, parlare, discutere? “Oggi arrivano i barbari / e loro non hanno voglia di eloquenza e di arringhe”.

Magari, anche per noi, questa lunga giornata di inerte attesa si concludesse con una sorpresa sconvolgente!

Magari, anche per noi, i barbari non arrivassero!

Ma - in questa evenienza così inaspettata - non dovremmo tornarcene a casa “pensierosi”. Dovremmo, anzi, ringraziare il destino che ha fatto perdere i barbari per strada.

Perché quella gente, dobbiamo capirlo bene, non era una soluzione.


ASPETTANDO I BARBARI (di K. Kavafis)


- Cosa aspettiamo riuniti in piazza?

Oggi devono arrivare i barbari.

- Perché tanta inerzia nel Senato?

E perché i senatori siedono e non legiferano?

Perché oggi arrivano i barbari.

Che leggi hanno ormai da fare i senatori?

Quando verranno i barbari le faranno loro.

- Perché il nostro imperatore si è alzato cosi di buon’ora

e se ne sta seduto sul trono, in posa solenne,

presso la porta maggiore della città, con la corona in testa?

Perché oggi arrivano i barbari.

E l’imperatore è in attesa di ricevere

il loro capo. E anzi ha già pronta

una pergamena da offrirgli. Là

gli ha conferito una serie di titoli e di epiteti.

- Perché i nostri due consoli e i pretori

sono usciti oggi con le toghe rosse ricamate?

Perché portano bracciali tempestati d’ametiste,

e anelli pieni di splendidi luccicanti smeraldi?

Perché proprio oggi brandire le preziose picche

con gli stupendi ceselli d’oro e d’argento?

Perché oggi arrivano i barbari:

e queste cose fanno colpo sui barbari.

- Perché non vengono anche gli ingegnosi oratori

a tenere i loro discorsi, a dite la loro, come sempre?

Perché oggi arrivano i barbari

e loro non hanno voglia di eloquenza e di arringhe.

- Perché a un tratto tutta questa apprensione, tutta questa

agitazione? (Come si sono fatte serie le facce).

Perché si svuotano rapidamente le strade e le piazze

e tutti se ne tornano a casa pensierosi?

Perché si è fatta notte e i barbari non sono comparsi.

Anzi qualcuno è venuto dai confini

e ha detto che di barbari non ce ne sono più.

E adesso cosa sarà di noi senza i barbari?

Quella gente, dopotutto, era una soluzione.

(trad. di T. Sangiglio)



ONORE A GORBACIOV 1 e 2

 







È morto Michail Gorbačëv l'uomo che immaginava la Casa Comune Europea dall'Atlantico agli Urali libera da muri, frontiere e patti militari. L'occidente gli preferì un ubriacone per meglio fare shopping con le privatizzazioni, disgregare l'Unione Sovietica, porre fine alle politiche di disarmo e denuclearizzazione del continente rilanciando la corsa al riarmo e l'estensione della NATO come gendarmeria globale degli interessi occidentali. Non era un destino segnato, c'è chi ci ha lavorato con pervicacia affinché quella speranza fosse spazzata via sostituita da più insicurezza, nazionalismi di ogni sorta e scandita dal tempo della guerra mondiale a pezzi. Onore ad uno statista, uno degli ultimi, che ha pensato più all'umanità che all'interesse di parte.

Alfio Nicotra



E' del tutto in malafede chi attribuisce a Gorbaciov la responsabilità del crollo dell'Unione sovietica. I russi sono eccezionali e la Russia è favolosa, ma quel sistema ideologico non si reggeva in piedi e di fatto era in coma irreversibile già all'inizio degli anni Ottanta, come potei sperimentare di persona durante un soggiorno di studio a Mosca di 5 mesi. L'economia era allo sfascio e il sistema sopravviveva artificialmente unicamente in base al ricatto atomico. Onore quindi a Gorbaciov, grande eroe tragico, che di fronte a un compito impossibile riuscì nell'impresa eccezionale di aprire l'Europa dell'Est a un processo di trasformazione e ad evitare un terzo conflitto mondiale. Purtroppo pochi lo compresero e nessuno lo aiutò. Oggi il mondo sarebbe completamente diverso se l'Occidente avesse appoggiato, anche finanziariamente, le riforme di Gorbaciov, invece lo abbandonarono. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Guido Cusinato