31 marzo 2019

ALDO GERBINO PER GIACOMO GIARDINA







Aldo Gerbino è un uomo di scienza che s’intende di poesia più di tanti letterati. Ricordo ancora di averlo avuto accanto, anni fa, mentre parlava di Giacomo Giardina, l’ultimo straordinario poeta futurista siciliano. A Giacomo Aldo ha dedicato questi bellissimi versi:

 “Vorrei incontrarti, quando?”
per Giacomo Giardina*

 Vorrei incontrarti, quando?”
Ecco il biglietto di Giacomo, vecchio
futurista di sogni, riemerso dalle spume
marine dei libri, a chiamarmi, a chiedermi
di un quando a cui non so (non posso) dare
tempo. La rassegna dei nostri colloqui
distanti, le aeree sue braccia, raggiungono
il velo strappato della vita,
le labbra che chiamavano Maria.
Cosa dire, come rispondere all’appello?
Il tempo oggi mi pare più degli altri; di questo
tempo mio così asciutto, così scrostato,
una midolla secca fuoriesce appena
ormai senza peso, quasi senza più danno.

Palermo, 8 dicembre 2001

Da  Aldo Gerbino, Il nuotatore incerto. Poesie recenti, Salvatore Sciascia Editore, 2002.

·         Nello studio di Aldo Gerbino, tra le tante cose preziose, spicca una foto di Giacomo Giardina (1901 – 1994) scattata da Ferdinando Scianna. Ad Aldo si deve, tra l’altro, una raccolta di scritti inediti e varianti del “poeta pecoraio” pubblicata da IPSA Editore nel 1995 con il titolo La corona di latta.

SENSO COMUNE e BUON SENSO









Il Manzoni fa distinzione tra senso comunebuon senso (cfr Promessi Sposi cap. XXXII sulla peste e sugli untori). Parlando del fatto che c’era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione volgare diffusa, scrive: «Si vede che era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica; il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

Antonio Gramsci, Quaderno 11 (XVIII) § (56)

CULTURE E STORIA







La cultura che conta e che pesa nella storia non è solo la cultura alta (dei grandi scienziati, filosofi, artisti e letterati) ma anche quella bassa del popolo, il cosiddetto senso comune di cui si è occupato tanto Antonio Gramsci. 
E sul senso comune dei nostri giorni si dovrebbe lavorare, se si volesse davvero cambiare il mondo. (fv)

30 marzo 2019

GRAMSCI PARLA ANCORA AI RAGAZZI D'OGGI








Questa lettera è stata inviata da Antonio Gramsci il 10 maggio 1928 alla madre, poco prima della sua condanna a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione, comminata dal Tribunale Speciale Fascista, presieduto da Alessandro Saporiti, il 4 giugno 1928. Gramsci fu condannato per attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò concluse la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: «Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Non ci sono riusciti, per fortuna.

***

Carissima mamma,

sto per partire per Roma. Oramai è certo. Questa lettera mi è stata data appunto per annunziarti il trasloco. Perciò scrivimi a Roma d’ora innanzi e finché io non ti abbia avvertito di un altro trasloco.

Ieri ho ricevuto un’assicurata di Carlo del 5 maggio. Mi scrive che mi manderà la tua fotografia: sarò molto contento. A quest’ora ti deve essere giunta la fotografia di Delio che ti ho spedito una decina di giorni fa, raccomandata.

Carissima mamma, non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi.

Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione.

Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente.

La vita è cosí, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini.


Ti abbraccio teneramente.
Nino
Ti scriverò subito da Roma. Di’ a Carlo che stia allegro e che lo ringrazio infinitamente.
Baci a tutti.



Questa è una delle lettere dal carcere che non ho avuto tempo di leggere ieri al Liceo Umberto di Palermo. Un caro saluto ai ragazzi del Liceo che hanno avuto la pazienza di ascoltarmi.  (fv)

28 marzo 2019

LA POESIA DI J. SARAMAGO NEL DESERTO DEL MONDO






Le parole sono nuove: nascono quando
le proiettiamo nell'aria in cristalli
di risonanze delicate o dure.

Siamo uguali agli dei, quando inventiamo
nel deserto del mondo questi segni
come ponti che colmano distanze.

-

As palavras são novas: nascem quando
No ar as projectamos em cristais
De macias ou duras ressonâncias

Somos iguais aos deuses, inventando
Na solidão do mundo estes sinais
Como pontes que arcam as distâncias.

José Saramago

BALLARE NEL CORSO DEL TEMPO




Balli nella storia. L’espressione del corpo nel mondo contadino e altrove 

Massimo Firpo


La danza ha sempre accompagnato la storia umana come un ineludibile linguaggio del corpo, come uno strumento di espressione – quasi sempre collettivo – fondato su una gestualità variamente codificata e in grado di manifestare sentimenti, tramandare miti, tenere lontani nemici, esorcizzare pericoli, ritualizzare eventi e consuetudini sociali, definire codici di comportamento e via dicendo. E in quanto fenomeno sociale e culturale largamente presente nel tempo e nello spazio se ne può fare la storia, anche se con la consapevolezza di muoversi su un campo minato, dove le fonti sono poche e non di rado ambigue, di difficile lettura, cariche di insidie.
Fonti iconografiche, anzitutto, scene di balli campestri e feste di paese (si pensi per esempio alle incisioni di Albrecht Dürer e di Sebald Beham o ai dipinti dei Brueghel o di Rubens) in cui è tuttavia difficile capire il significato di quelle tumultuose feste contadine. Su di esse, infatti, sembra posarsi uno sguardo talora paternalistico, ma alla fin fine condiscendente e simpatetico nei confronti di un mondo semplice, naturale, incorrotto, e talaltra sprezzante e ostile invece, nel solco della satira del villano, dei suoi tratti grotteschi e caricaturali che ne denunciano in termini moraleggianti la rustica rozzezza, gli eccessi nel mangiare, nel bere e nel sesso. Ma «a ballare danze campestri non sono sempre pastori o contadini veri – scrive Arcangeli (L’altro che danza. Il villano, il selvaggio, la strega nell’immaginario della prima età moderna, Unicopli, Milano, 2018) –; la complessità dei rapporti città-campagna in un’epoca di trasformazioni economiche e crisi demografiche, e la serie delle mode culturali con variazioni sul motivo arcadico, condizionano la dinamica di queste vicende».
Da maneggiare con analoga cura sono anche le fonti letterarie, non solo e non tanto i manuali di ballo della civiltà delle buone maniere, ma soprattutto le descrizioni di danze delle popolazioni amerindie o dei neri africani fatte da viaggiatori, esploratori, missionari. Un’immensa letteratura etnografica e antropologica, per così dire, non di rado fantastica e inattendibile, talora di seconda mano, condizionata dal suo stesso voler presentare mondi lontani all’insegna del meraviglioso, del mostruoso, del primitivo, rinchiudendo nel contempo il nuovo, l’inatteso, il diverso nei canoni del noto, imponendo ad essi il proprio sistema di valori e ingabbiandoli nei codici etici e religiosi dell’Europa classica e cristiana, a partire dalla sentenza di Cicerone secondo cui solo i matti ballano e dalla condanna della danza da parte dei Padri della Chiesa per le sue potenziali valenze trasgressive, erotiche e lascive, le sue contaminazioni pagane, le sue implicazioni demoniache o idolatriche attestate anche dalla tradizione ebraica (l’adorazione del vitello d’oro).
Lungi dall’essere descrizioni obiettive, in realtà, tali immagini altro non sono che costruzioni culturali dell’osservatore, che impongono allo storico il non facile compito di decostruirle. Ed è questo lo scopo che si prefiggono le raffinate indagini di cultural history confluite in questo libro, volto a chiarire come attraverso la danza, in particolare tra Cinque e Seicento, si sia guardato all’altro e al diverso, ai mondi lontani disvelati dalla grande espansione europea, o ai mondi vicini e temuti dei contadini, dei marginali, dei diseredati, dei folli, o ancora al mondo demoniaco del sabba stregonesco, contribuendo così a crearne i connotati artificiali, a dar vita a una realtà immaginaria, a trasformare un’ermeneutica in un fatto. In questa prospettiva, limitandosi a tratteggiare le ritualità coreutiche delle corti d’antico regime o della civiltà borghese, la percezione del sé, dello spazio e della disciplina del corpo che sembrano affacciarsi nel Rinascimento, il libro indaga sul significato della danza – o meglio, sui significati ad essa attribuiti dalla cultura dominante – nel mondo contadino, tra i selvaggi portati alla luce dalle grandi scoperte geografiche, dalle esplorazioni, dall’impegno missionario, e infine in quelle temibili presenze stregonesche che trovavano i loro momenti culminanti nei balli sfrenati e diabolici del sabba, che tra Cinque e Seicento Stati e Chiese cercarono di estirpare con violenza.
Del tutto evidente, infatti, è rapporto tra danza e religione, a volte sotto la guida di stregoni e sciamani, con accompagnamento di canti, musica, rullare di tamburi, e con effetti non di rado dionisiaci o visionari (si pensi ai tarantati pugliesi per non andare troppo lontano). Danze talora destinate a protrarsi per giorni e notti intere, a volte sotto l’effetto di droghe, a testimonianza del grande piacere che ne traevano i partecipanti, e quasi sempre motivo di scandalo per gli osservatori europei, capaci di scorgervi solo superstizione, paganesimo, idolatria. Ai loro occhi il ballo era solo uno dei modi in cui quegli esseri primitivi dalla pelle scura sprecavano il loro tempo «in prendere da mattina a sera tabacco in fumo; [...] in darsi alle crapole, a’ bagordi, all’ubbriachezze, alle lascivie et alle dishonestà; e finalmente in gire alla guerra et esercitar la militia, per rubare, saccheggiare, distruggere, ammazzare e satiarsi di carne humana». Un giudizio feroce, ben diverso da quello espresso nel Trecento dal grande viaggiatore arabo Ibn Khaldūn, secondo il quale «i negri sono generalmente caratterizzati dalla leggerezza di carattere, dalla incostanza e dalla emotività. Essi hanno desiderio di danzare appena sentono una musica. Potrebbero sembrare perciò poco intelligenti, ma invece secondo gli studiosi la gioia e il sentirsi felici dipendono dalla dilatazione e dalla diffusione in tutto il corpo degli spiriti animali».
Al ballo delle corti rinascimentali, all’insegna «di eleganza, sobrietà e decoro», caratteri tipici del gentiluomo (nel 1581 Fabrizio Caroso pubblica Il ballarino), si contrappone dunque quello ben diverso dei villici e degli indigeni, all’insegna di «gioia, libertà e sregolatezza», la cui trasgressività esercita tuttavia un’evidente attrazione sulle élites. Una trasgressività che giunge al culmine, fino a caratterizzarsi come consapevole apostasia, nel sabba demoniaco (peraltro non privo di analogie con le forme della festa popolare) in cui la dominante presenza femminile accresce la dimensione dell’alterità. Sarà in una dimensione del tutto rovesciata, invece, che in futuro – e compiutamente nell’Ottocento – la danza si connoterà sempre di più in senso femminile, come arte di creature angeliche capace di sublimare seduzione e corteggiamento, mentre diventa per converso segno di effemminatezza per i maschi. Percorsi complessi, qui appena accennati, che questo libro aiuta a comprendere.

“Il Sole 24 Ore” 15 luglio 2018

27 marzo 2019

M. YOURCENAR SULLA CONDIZIONE FEMMINILE





Tempo fa ci siamo imbattute in un’intervista a Marguerite Yourcenar che guardava al femminismo in una maniera che potrebbe risultare un poco provocatoria, eppure intelligentissima a nostro parere. L’intervista la trovate su YouTube, non è stata trascritta in nessuna lingua, neppure in francese, tantomeno tradotta. Bianca ha deciso di tradurla per sé, Margherita ha fatto la revisione e le ha dato una forma più fruibile. Non tutto è sempre chiarissimo perché nel video le domande che vengono poste alla scrittrice sono state tagliate. E spesso ci sono dei salti di argomento o ampie digressioni tipiche del parlato. Abbiamo conservato le parti che secondo noi sono le più interessanti riguardo la Yourcenar e il suo pensiero.

Osservazioni sulla condizione femminile.            Intervista a Marguerite Yourcenar 
 
di Bianca Moretti e Margherita Macrì


Bisogna iniziare da cosa è una donna, andare all’essenziale e… la prima cosa che verrebbe fuori è che una donna è un essere umano e che, in tutto ciò che non riguarda la sfera sessuale – aspetto che è ovviamente considerevole –, una donna si comporta esattamente come un uomo: digerisce, il suo cervello funziona, cammina, usa le mani per entrare in contatto con gli oggetti e per lavorare, usa i piedi per camminare, quindi, l’insieme dell’organizzazione è innanzitutto un’organizzazione umana.
Credo che questo non bisogna mai dimenticarlo.
In genere, troppo spesso si pensa alle donne in due modi, o meglio, si pensa alle donne dal punto di vista dell’uomo, che dice “Oh, sono delle donne!”, e quindi in qualche modo le si inserisce in un gruppo a parte; oppure si pensa al modo in cui le donne reagiscono agli uomini e quindi le si pensa in quanto donne in opposizione all’uomo.
Quando si lasciano perdere questi due punti di vista, ci si accorge che una signora che compra il giornale, telefona all’idraulico per una riparazione, oppure firma un assegno per pagare le spese mensili, si comporta esattamente come farebbe un uomo nelle stesse circostanze e, alla stessa maniera di un uomo, è prigioniera delle circostanze sociali; mi stupirebbe perciò che questo la faccia sentire particolarmente donna. Mi succede spesso, quando vengo intervistata dalle donne, di chiedere loro quante volte al giorno si sentano particolarmente donne. È molto meno frequente di quello che si possa credere.
Sì, sicuramente ci sentiamo particolarmente donne quando compriamo un abito o delle scarpe e le scegliamo dal reparto donna […] ma mi pare che sono azioni che facciamo in automatico, senza rifletterci o sentirci particolarmente donne.
[…]
Ecco, credo che questa sia una cosa molto importante: “l’essere umano”, in entrambi i generi.
Poi ci sono alcune donne che, almeno in alcuni periodi della loro vita, sono molto più donne di altre, sono donne al 100%, e altre che lo sono molto meno, e hanno peculiarità maschili, e alcune ancora che appartengono a “un tipo mascolino” (grande dibattito su cosa sia un tipo mascolino).
E ci dimentichiamo spesso per esempio che parliamo di quella che era la condizione femminile in passato: si dice che le donne fossero svantaggiate dalle leggi, ed era così in effetti (…) non poter redigere da sole il proprio testamento, non poter gestire il proprio denaro, etc.
Mi pare però che di solito tutto questo è vero sulla carta. Prendiamo per esempio le donne della piccola borghesia che dirigono un negozio: spesso il loro marito ha l’aria del ragazzo delle consegne, ed è la signora seduta alla cassa che prende tutte le decisioni.
[…]
Ci dimentichiamo sempre che, se è vero che le donne del XVII e del XVI secolo non erano ministri né presidenti, avevano comunque un ruolo fondamentale nella politica, e che facevano e disfacevano i ministri e i membri dell’Accademia. Io stessa, quando sono entrata all’Académie Française, in quanto prima donna ad accedere all’Académie (doveva pur essercene una prima), ho avuto il compito di consolare questi signori sostenendo che non erano loro a essere particolarmente retrogradi, ma che semplicemente si adeguavano ai costumi del tempo, e che una volta le donne venivano poste sul piedistallo molto più di oggi, e che le si metteva talmente in alto che l’idea di offrire loro una poltrona non veniva neppure minimamente considerata. E io credo che sia vero da un certo punto di vista. Ciò non toglie che questa gente disprezzava le donne molto più di quanto accade oggi.
E ciò che spaventa del femminismo dei nostri giorni (con il quale io mi trovo assolutamente d’accordo finché si tratta di uguaglianza dei salari, di meriti uguali, della libertà della donna nelle sue peculiarità femminili, come ad esempio la limitazione delle nascite, in tutte le sue forme, etc naturalmente), un elemento piuttosto fastidioso, è la rivendicazione contro l’uomo; è questo che non mi sembra naturale, che non mi sembra necessario, e che contribuisce a creare dei ghetti.
Di ghetti ce ne sono già abbastanza, ne abbiamo troppi. E allora quando vedo le donne aprire delle case editrici per sole donne, o dei locali per sole donne, etc… pur non essendo contraria, mi dico che sono dei nuovi ghetti, e che mi sarei molto arrabbiata 30 anni fa se mi avessero detto “lei ha il diritto di entrare solo in un ristorante per donne”, come quando le ferrovie avevano scompartimenti esclusivamente femminili; e pensare che stiano ricostruendo questo mi pare un vero peccato. E soprattutto che non si stia facendo niente invece per facilitare una maggiore comprensione, collaborazione e simpatia fra uomini e donne.
Io penso che i rapporti umani, rispetto a quelli tra le altre specie, sono salvati dall’empatia, dalla comprensione, e mi piacerebbe pensare alla costruzione di una specie di fraternità umana invece che alla continua opposizione tra un gruppo e l’altro. Ed è ciò che mi impedisce di aderire, o meglio di firmare i manifesti della maggior parte delle associazioni femministe.
Non mi piacciono le etichette, e “Donna” in un certo senso è un’etichetta. Non mi piacciono le etichette, e non mi piace niente che separa e riduce gli esseri umani solo a delle attitudini. Vorrei che una donna avesse la libertà di essere tanto donna quanto poco donna a suo piacimento. Solo che qua c’è un’altra difficoltà che si manifesta nella nostra epoca, ossia che un po’ come per tutte le minoranze, anche un po’ come per le vecchie istituzioni quando si rigenerano, come la Chiesa cattolica e l’ecumenismo, si lotta in favore di libertà che sarebbero state molto utili 50 anni prima; forse si lotta di più per quelle che per libertà che sarebbero più utili oggi.  Comprendiamo bene che, una cinquantina di anni fa o 200 anni fa, quando le donne DOVEVANO essere chiuse in casa a non fare altro che lavori di cucina (se non c’erano i mezzi per avere una cuoca, o sorvegliare la cuoca se ce n’era una), sognavano di fare ben altre cose.
[…]
Ma ai nostri giorni la situazione non è così tanto drammatica, le donne fanno molto più di quello che vogliono, anche nell’ordine della vita casalinga, possono decidere di dedicarcisi o no, e quanto accade purtroppo è che molte donne si fanno un ideale della vita maschile – idea buffa, perché non penso che la vita degli uomini sia poi così ideale – e sognano di essere l’equivalente di un uomo che si sveglia alle 7.30 del mattino, con l’asciugamano al braccio, ingolla rapidamente il caffè e si precipita in ufficio. Questa, come idea di liberazione, devo dire che mi raggela.
E l’idea della carriera, e del successo, del successo economico, del potere, essere… un amministratore insomma, che gestisce le persone in maniera quasi militare, al proprio servizio, ai propri ordini, diventa per la donna – questo emerge bene da alcuni articoli su riviste femministe – l’ideale del successo umano.
A mio avviso è una sconfitta spaventosa, per entrambi i sessi. Se un uomo ha solo questo da offrire, la cosa è molto triste, e se una donna lo imita, e sogna una carriera del genere, si accorgerà a un certo punto che lo scopo della sua vita era vuoto e che si è persa un bel po’ di cose.
E quindi si dovrebbe pensare a un nuovo ideale UMANO, un ideale che offra agli esseri forse non maggiori divertimenti ma più libertà d’azione e di scelta; essere meno prigionieri del lavoro, che è diventato sacrosanto, una forma ipocrita di schiavitù – le persone non fanno che questo, ne sono ossessionate, e quando vanno in pensione non sanno più che fare e muoiono o si mettono a giocare a dei giochetti inutili –, e al posto di questo sarebbe bello stabilire una specie di uguaglianza umana nella quale le persone si dividono i compiti, i lavori, i piaceri, in maniera semplice… da amici.
E fino a ora il femminismo, il femminismo 100%, non ha affatto posto l’accento su questo.
[…]
Ma questa specie di comprensione fraterna che speriamo tra uomini e donne è, anche ai giorni nostri, molto rara. Purtroppo, in queste situazioni,  mi pare che abbiamo creato dei blocchi che ora è particolarmente difficile sbloccare, e che, per esempio, la donna, facendosi in qualche modo l’idea (artificiosa) che l’uomo sia il padrone, il capo, colui che guadagna i soldi, che è realizzato (cosa spesso lontana dall’essere vera), e dandosi questa come immagine ideale, si è terribilmente allontanata dall’ordine delle cose, e ha, per esempio, perso il sentimento (invece, al contrario, pare che alcuni uomini lo stiano guadagnando, perché nulla è mai del tutto perduto) dello charme e dell’importanza della vita domestica. Eppure, in fin dei conti, cucinare, mettere in ordine ciò che si ha intorno, organizzarsi affinché il piccolissimo regno che abbiamo diventi un po’ più gradevole da vivere, più ordinato… ecco, fare dei lavori per abbellire questo piccolo angoletto in cui ci troviamo, è davvero una cosa notevole.
Quanto a occuparsi della cucina, come dicono spesso gli psicologi, si tratta di una forma d’amore. Nutrire gli altri è la maniera di provare loro che li amiamo: noi dimentichiamo la parte sacra di questa cosa. Ai giorni nostri questo aspetto sussiste forse più spesso negli uomini, che a un certo punto iniziano a lavare i piatti, a cucinare, mentre la donna se ne va in ufficio.
E sono loro che ereditano questo grande sentimento umano, mentre a me piacerebbe che restasse non dico privilegio delle donne, ma almeno che non si sentissero sminuite nel ricoprire il proprio ruolo femminile, per il quale sono perfettamente adatte.
Idem per l’argomento figli: adesso gli psicologi ci vengono a dire, forse un po’ in ritardo visto che hanno detto il contrario per 30 anni, che un figlio può tranquillamente vivere molto bene senza un padre, come senza una madre, e che non è una questione di sesso, ma è una questione di cura, di tenerezza, etc., e non è il caso che questo sentimento di cura e di tenerezza si sacrifichi per la carriera.

[…]
Io non sono affatto competitiva, non ho mai avuto il gusto del successo, mi è, diciamo, capitato; non ho mai avuto il piacere di guadagnare soldi, quando non ne avevo semplicemente non ne avevo, e quando ne avevo, be’, molto meglio, insomma… bello spenderli. Ma è il solo pensiero che avevo sull’argomento. C’è stata un’epoca in cui mi sono trovata qui durante la guerra, assolutamente senza soldi, e avevo un lavoro. Per la prima volta in vita mia avevo un lavoro fisso: andavo 3 volte a settimana in un liceo a insegnare, per quanto male, la Letteratura Francese. E in questo periodo ho imparato molto sulla psicologia degli uditori, degli allievi, sull’ignoranza in cui vive generalmente l’uomo o la donna “intellettuale”, che si sente su un livello che gli sembra solido, ma che solido non è affatto, perché la maggior parte della gente sta più in alto o più in basso di lui. E insegnando ho capito la straordinarietà dei livelli esistenti e che non conoscevo prima.
Questa esperienza è durata circa sette, otto anni; in questo periodo è venuta a trovarmi un’amica da Parigi che mi ha detto: “E allora che fa? Non lavora più?” (intendeva il lavoro letterario), “Lei ha scritto 2 o 3 libri che sono buoni, perché non continua?”. Allora ho fatto un cerchio sul tovagliolo di carta del ristorante in cui eravamo e le ho detto: “Ecco. Il lavoro letterario è una fetta di torta piccola così nel panorama dei miei pensieri”. Ed è quello che davvero pensavo, quando non c’erano più editori disposti a farmi lavorare perché non c’era più denaro. E vedete, in quel momento davvero me ne importava poco. E adesso, al contrario, questo successo sfugge, scivola dalle dita e torno nuovamente ad affrontare la questione delle mie priorità, è la mia vita ciò che conta di più, se poi posso esprimere questo attraverso le mie opere, è meglio. Però se non sapessi esprimerlo scrivendo ma piantando una pianta nel mio giardino non sarebbe comunque male. E allora se si hanno questo genere di sentimenti è difficile essere una femminista militante, o una qualsiasi altra militante.
[…]
È importante che tutti abbiano sempre una finestra aperta sul mondo. Ma trovarla dipende in larga parte da noi, e trovarla anche in ambiti che non siano necessariamente remunerativi. Fate in modo di conoscere più esseri possibile e di amare più esseri possibile… e qui si torna di nuovo sulla questione della libertà sessuale etc.
Ovviamente il fatto che una donna non poteva muoversi se non sottobraccio al proprio marito non facilitava molto i rapporti umani. Ma dal momento che gli esseri lasciano gli uni agli altri diverse libertà, e si compiacciono di vedere l’arricchimento che entrambi guadagnano da questa libertà, questo sentimento di schiacciante incatenamento, di prigionia, diminuisce. Ed è molto difficile sapere in questo momento, nella condizione femminile, ciò che attiene veramente agli ormoni femminili, e ciò che attiene invece agli usi, alla vita sociale, alla vita coniugale, alla tutti gli aspetti della vita. Forse servirebbero diverse generazioni per rendersene conto.
[…]
Onestamente se credo che le donne abbiano qualcosa di speciale da portare alla nostra civiltà o a quella che sta nascendo e che ancora non sappiamo bene come sarà? Be’, qui ancora la questione è molto complessa perché noi stessi non sappiamo bene cosa sia una donna.
[…]
Fermo restando che la donna era considerata inferiore all’uomo, che era in una condizione svantaggiata, rappresentava comunque la creatura che metteva al mondo i bambini. Era la creatura che lavava, cresceva, nutriva e vestiva i bambini, dando loro la prima lezione d’umanità, in un certo senso. Era la persona che spesso si prendeva cura dei malati, che preparava i morti, etc… ed era molto più vicina alla realtà di base di quanto lo fossero molti uomini. La donna potrebbe portare questo senso profondo di realtà, fisica, carnale e fisiologica che manca tantissimo nella nostra società. Ed ecco come dovrebbe entrare in gioco la figura femminile: mostrando l’importanza e la sacralità di tutto ciò. E se la donna facesse questo, immediatamente giocherebbe un grande ruolo dal punto di vista del pacifismo, della libertà, del diritto civico, etc., perché comprenderemmo maggiormente i meccanismi della vita e della morte, a cui la donna è per forza di cose, poverina, estremamente vicina da secoli.

da

26 marzo 2019

Pour le réconfort di Vincent Macaigne




Visto stasera al Cinema De Seta di Palermo, per la rassegna del cinema francese contemporaneo, il bel film di Vincent Macaigne, Pour le réconfort, che aiuta a capire, meglio di tanti articoli e saggi, le ragioni della rabbia che sta esplodendo nella Francia dei nostri giorni.

ESEGETI MALDESTRI DI J. J. ROUSSEAU




Troppi Rousseau 

Daniele Giglioli


Su Rousseau circola da due secoli una vulgata che sarebbe caritatevole chiamare liberal-conservatrice, quando invece è francamente reazionaria: pura propaganda. Suona così: Rousseau è il cattivo maestro dei giacobini. Un precursore del totalitarismo. Da Rousseau si va diritti al gulag. Fosse per lui cammineremmo tutti a quattro zampe (questa a dir il vero era di Voltaire, e infatti almeno fa ridere). Ricostruzione che non sta né in cielo né in terra: se i giacobini fecero quel che fecero non fu per fanatismo rousseauiano, ma perché costretti a inventarsi soluzioni in fretta e furia nella brutale emergenza in cui versavano. Chi voglia comunque farsene un’idea può ricorrere al libro di un vecchio arnese da Guerra Fredda come lo storico israeliano Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria (Il Mulino, 1952) screditatissimo tra gli studiosi, ma incredibilmente citato ancora oggi come autorità in molti articoli di giornale: i luoghi comuni non muoiono mai.
Ma il buffo è quanto il falso Rousseau dei reazionari somigli, nella pratica se non negli intenti, almeno espliciti, al Rousseau cui il Movimento 5 Stelle ha intitolato la sua nuova piattaforma informatica in omaggio al cofondatore Casaleggio recentemente scomparso, il quale considerava Jean-Jacques «il padre della democrazia diretta». Ora, a un movimento che si pretende rivoluzionario e però chiama «direttorio» il suo organismo dirigente (laddove il Direttorio non segnò l’inizio, ma la fine della Rivoluzione francese), non si ha cuore di chiedere troppe pezze d’appoggio filologiche. E poi la politica cerca il suo bene dove lo trova e ha tutto il diritto di non andare troppo per il sottile.
Ciò che sorprende non è dunque questo, ma lo scarto tra le dichiarazioni (Rousseau profeta di una democrazia «più democratica» di quella rappresentativa) e la prassi: decisioni inappellabili dall’alto, trasparenza pretesa solo in basso, autorità carismatica dei fondatori, ossessione per una corruzione che alberga non tanto nel sistema, ma nel cuore stesso degli esseri umani, tutti criminali in potenza da sorvegliare in ogni singolo aspetto della vita, quando Rousseau diceva invece che l’uomo nasce buono ed è la società che lo perverte. Più che Rousseau questo è De Maistre, un reazionario della più bell’acqua; o al massimo, appunto, il Rousseau sfigurato (forse perché segretamente desiderato?) dalla propaganda reazionaria. Da cui la domanda: cosa accomuna le due interpretazioni?
Non certo il piatto adagio che gli estremi si toccano. Piuttosto il rifiuto, il rigetto, l’orrore per la contraddizione. Il pensiero di Rousseau è contraddittorio. Lui stesso lo sapeva. Non ha mai preteso di spacciare formule pronte per l’uso. Le soluzioni che avanzava servivano più a criticare lo stato di cose che a proporne in concreto uno diverso (è questa, da sempre, la funzione dell’utopia: additare le crepe del presente, non indicare un ordine perfetto che, se realizzato, diverrebbe un incubo incriticabile).
Il problema attorno a cui si è sempre arrovellato è il seguente: come rendere gli uomini liberi se sono loro i primi a non volerlo? A questo rispondono le finzioni teoriche e narrative del pedagogo nell’Emilio, del legislatore nel Contratto sociale, di Wolmar in un romanzo come La nuova Eloisa, che allestisce un microcosmo familiare dove la menzogna è bandita e tutti vivono all’insegna di una trasparenza che implica assoluta fiducia nella veridicità altrui.
Esperimenti di pensiero. Casi limite, così come un caso limite era per Rousseau quello «stato di natura» originario di cui lui stesso diceva che «probabilmente non è mai esistito e probabilmente non esisterà mai». E così come altrettanto un caso limite è la pretesa, nelle Confessioni, di essere stato l’unico a tentare l’«impresa senza esempi» di mostrarsi esattamente com’era, con tutto il suo bene e il suo male, episodi vergognosi compresi. Pretesa in cui era trasparente un ricatto: se vi racconto anche i miei lati più ripugnanti siete obbligati a credermi su tutto. E del resto già nelle opere politiche Rousseau insisteva su quanto il pedagogo e il legislatore debbano spesso ricorrere a suggestioni, mezzucci e perfino imposture per conseguire i loro scopi: il pedagogo che finge di smarrirsi con Emilio nella selva in modi che questi impari a sbrigarsela da solo; Numa Pompilio che consulta la Ninfa Egeria nella grotta o Mosè che chissà quanto a lungo si sarà girato i pollici sul Sinai prima di ridiscendere con le tavole della legge.
Ciò che Rousseau, in altre parole, ha pericolosamente messo a nudo, un secolo e mezzo prima di Nietzsche e di Max Weber, è l’origine infondata e irrazionale di ogni istituto razionale, l’abisso inscrutabile che presiede alla genesi di ogni soggettività individuale e collettiva. E tutto ciò in pieno Illuminismo, quando le migliori menti della sua generazione si beavano di credere che la ragione fosse un processo naturale, progressivo e irreversibile che avrebbe finito per imporsi da sé. Un ottimismo che Rousseau non ha mai condiviso: non a caso l’utopia di Wolmar nella Nuova Eloisa finisce male; lui stesso diceva che nessun popolo europeo avrebbe mai potuto mettere in pratica il Contratto sociale; in un abbozzo di continuazione dell’Emilio, cioè Emilia o I solitari, il suo pupillo viene tradito dalla sposa che il precettore gli aveva allevato come anima gemella; mentre nelle opere autobiografiche successive alle Confessioni (Rousseau giudice di Jean-Jacques, Le fantasticherie di un passeggiatore solitario) è costretto ad ammettere che la trasparenza promessa era impossibile e non aveva potuto fare a meno di abbellire, integrare, ritoccare. Contraddizioni penetrate nelle fibre più intime della sua psiche, negli anni sempre più minata dalla paranoia e dalla mania di persecuzione, fino all’ipotesi di un complotto universale ai suoi danni che vedeva coinvolti i suoi ex amici enciclopedisti e i gesuiti, i magistrati di Ginevra e le corti europee…
Che cosa fanno invece i maldestri esegeti di Rousseau? Laddove Jean-Jacques crea metafore geniali per mostrare quanto rischiosamente si articolino desiderio e pericolo, loro prendono le metafore alla lettera, scambiano le finzioni per verità, elevano a norma un esperimento. Alla contraddizione preferiscono la paranoia. Qualcosa di simile accadde a un altro sperimentatore abissale poi sprofondato nella demenza come Nietzsche: tra il cantore della bestia bionda celebrato dai nazisti e il conciliante fricchettone dei postmoderni (niente fatti, solo interpretazioni, tana libera tutti) ci sono più punti di contatto di quanto non si creda. La semplificazione è tanto necessaria in politica — dove bisogna scegliere: repubblica o monarchia, divorzio sì o no, nazionalizzare o privatizzare — quanto stupida nel pensiero. Ma più stupido ancora è confondere i due piani: chi lo fa si condanna all’impotenza o al disastro; nel migliore dei casi, al ridicolo.

La lettura / Corriere della sera 29/05/2018

24 marzo 2019

Ecco cosa scriveva nel 1966 Danilo Dolci





La recente scoperta della “loggia delle clientele” di Castelvetrano mi sembra che ridia attualità all’analisi condotta negli anni sessanta da Danilo Dolci sul sistema di potere clientelare mafioso .
Provo a riassumere di seguito quanto scrisse allora il sociologo. Per farlo occorre riprendere in mano un suo vecchio libro, uno dei pochi che non è stato più ristampato. Il libro s’ intitola Chi gioca solo  e viene pubblicato da Einaudi nel 1966. In esso si trova  la più ricca  documentazione, raccolta da Danilo e dai suoi più stretti collaboratori, sulle radici profonde della mafia nella Sicilia occidentale.
 Come Banditi a Partinico è un libro-inchiesta, frutto di anni  di autoanalisi popolare. Era questo il modo in cui Danilo amava denominare il suo metodo di lavoro che scaturiva, soprattutto, da quel singolare talento che possedeva di saper ascoltare e dare voce a tutte le persone che incontrava.
Il libro ebbe un successo straordinario. La stessa casa editrice  pubblicò  la II edizione nel 1967  e, nei mesi successivi venne tradotto nelle principali lingue del mondo (ad esempio l’edizione americana  uscì l’anno seguente con questo titolo: The man who plays alone. Trad. di Antonia Cowan. New York: Pantheon Books,1968). Ciononostante, dopo qualche anno, l'opera scomparve dalla circolazione ed  è stata quasi del tutto  dimenticata.
Per aver scritto questo libro, Danilo venne querelato da potenti uomini politici del tempo e condannato. Ma, come si sa, una cosa è la verità storica dei fatti, altra cosa la verità giudiziaria.

Per mostrare quanto chiare fossero le idee di Dolci al riguardo  voglio citare per esteso  un brano della Premessa, scritta dallo stesso Autore:
   I non pochi uomini politici compromessi con la mafia in Sicilia si potrebbero distinguere  in quattro categorie: Una prima, dei politici spregiudicati che, soprattutto in tempo di elezioni, hanno rapidi  incontri, riunioni in cui non badano tanto per il sottile come raccogliere voti e con chi hanno a che fare: "se tu mi aiuti, io ti aiuto". Una seconda, dei politici che sfruttano sistematicamente, freddamente, il gruppo chiuso mafioso, imbastendo eventualmente tutti i possibili doppi giochi a seconda dei tempi e dei luoghi:" sfruttati a loro volta sistematicamente dalla mafia. Una terza, di mafiosi veri e propri che riescono ad essere eletti, talvolta anche ad alte responsabilità: per fortuna non sono i più numerosi. Una quarta, di giovani che, partiti in polemica col sistema, hanno accettato di rimanere  condizionati, per poter riuscire. Quale locale contesto ha reso possibile per più di vent'anni lo sfruttamento della mafia (e, per un certo tempo, anche  del banditismo) a fini elettorali? La mafia ha così potuto nell'ultimo dopoguerra partecipare al governo dell'Italia dal livello comunale, provinciale,regionale ai più alti livelli.

       Poco più avanti Danilo  si domanda: 

A chi vede Palermo e la provincia circostante, non occorre molto per verificare che la grande maggioranza della popolazione è scontenta, molto spesso gravemente scontenta, amara, a lutto. "Perché, […], questa maggioranza di scontenti non riesce a diventare maggioranza di diversa azione, nuova spinta, nuova maggioranza politica?

 La risposta  a questa fondamentale domanda va ricercata, secondo Danilo, oltre che nella incoerenza ed inadeguatezza dei principali partiti di opposizione di allora, nell'omertà istituzionale che egli descrive con parole che riecheggiano quelle del secolo precedente di Napoleone Colajanni:

"finché i rappresentanti dello Stato cercano ad ogni costo di coprire […] ministri, sottosegretari più o meno inseriti nella struttura mafioso-clientelare; finché si vuol far risultare ad ogni costo che sono i mafiosi a circuire il loro politico e non si critica il reciproco appoggio (...), lo sfruttamento reciproco; finché non si fa chiaro fin dove arriva nel comportamento di certi 'politici' la loro responsabilità personale, e fin dove la corresponsabilità governativa; finché ci capita di incontrare persone ad altissimo livello di responsabilità -ministri, sottosegretari, magistrati - le quali in privato ammettono di sapere che certi loro colleghi sono uomini della mafia (cioè appartenenti ad essa o ad essa disponibili), ma non osano assumere posizioni aperte; finché funzionari e parlamentari continueranno a pretendere dalla povera gente indifesa quel coraggio che essi stessi, sebbene protetti dal proprio mandato, non hanno; (...)finché ogni gruppo, ogni partito che si dice democratico, non osa sciogliere i suoi vincoli mafioso-clientelari; finché la maggioranza delle persone si comporta come se questi problemi non li riguardassero affatto; finché, ad ogni livello di responsabilità, non si sarà disposti a rischiare per la verità, osando opporsi in modo organizzato all'ingiustizia e alla violenza organizzata ovunque essa sia - il corpo sociale non potrà che rimanere sostanzialmente fermo, infetto.". 

Mi aiutate a capire cosa non regge in questa analisi? Queste parole risalgono al 1966. A me sembrano  ancora attuali.  Ma posso naturalmente sbagliarmi.