30 ottobre 2021

IL GRAMSCI DI PIER PAOLO PASOLINI

 




Ho sottolineato fin dal 2011, nel saggio pubblicato sulla rivista dell'Università di Barcelona Quaderns d'Italia, lo stretto rapporto che esiste tra l'opera del grande sardo e quella del bolognese-friulano.

Adesso apprendo che nei prossimi giorni si terrà a Casarsa (UD) un Convegno di Studi per approfondire il profondo legame tra GRAMSCI ePASOLINI:


Sarà dedicato al rapporto fra l’opera di Pasolini e il pensiero di Antonio Gramsci, di cui nel 2021 ricorreranno i 130 anni dalla nascita, il CONVEGNO in programma venerdì 5 (dalle 15.30 alle 19) e sabato 6 novembre (dalle 9 alle 13) nella sala consiliare di Palazzo Burovich de Zmajevich, a Casarsa.
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Il convegno intitolato "Con te, contro di te, il Gramsci di Pasolini", è organizzato dal Centro Studi Pasolini e curato da Paolo Desogus (Sorbonne Université), e verterà sull’influenza, non ancora del tutto esplorata, che la figura di Gramsci ha avuto sulla produzione pasoliniana.

Centro Studi Pier Paolo Pasolini Casarsa della Delizia


29 ottobre 2021

IL SOGNO DI PIER PAOLO PASOLINI

 


foto di Dino Pedriali


Il 2 novembre 1975 è stato brutalmente assassinato Pier Paolo Pasolini. Tanti hanno cercato di metterci una pietra sopra. Qualcuno ha persino usato la sua orribile fine per farlo. Ma Pasolini oggi è più vivo che mai. La sua grande e complessa opera continua ad essere studiata e a turbare il sonno di tanti. 
Oggi noi vogliamo ricordarlo con una sua opera giovanile che pochi hanno letto. Ci serviamo per questo di un eccellente pezzo di Rosita Ingenito pubblicato qualche giorno fa dal gruppo facebook  “PIER PAOLO PASOLINI– Le pagine corsare”

Pier Paolo Pasolini, Il sogno di una cosa.

Tra passione e ideologia


Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non per mezzo di dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza non chiara a se stessa, o si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa...”.


La citazione si trova in esergo al romanzo "Il sogno di una cosa", tratta dall’ ultima lettera che da Kreuznach Marx scrive ad Arnold Ruge a Parigi, nel settembre del 1843 ed è fornita a Pasolini da Franco Fortini che ha preso la traduzione dalla vecchia edizione Avanti! di

Marx Engels Lassalle.

Lo stesso Pasolini ne aveva fatto richiesta a Fortini :

Sono stato folgorato da una tua citazione (in quella serata sul Menabò industriale):

IL SOGNO DI UNA COSA. Ti sarei molto grato

se tu mi tra scrivessi la frase di Marx – o l’intera pagina – da cui hai tratto la citazione, e me la

mandassi, da mettere come epigrafe al libro”. (in P.P.Pasolini, Lettere, vol.II).

È il 26 gennaio del 1962.

La “cosa”, ovviamente, è la completa trasformazione della società.

Il finale di questa famosa lettera-manifesto di Marx è la parte più nota: “La riforma della coscienza consiste soltanto nel fatto che l’uomo lascia che il mondo divenga la sua coscienza interna, che l’uomo si risvegli dal sogno su se stesso, che si renda chiare le proprie stesse azioni. Il nostro intero scopo non può consistere altro – come nel caso di Feuerbach riguardo alla religione – che ogni

domanda religiosa e politica venga tradotta in forma umana autocosciente.

Il nostro motto deve dunque essere: riforma della coscienza non attraverso dogmi, ma attraverso l’analisi della coscienza mistica, non chiara a se stessa, si presenti in forma religiosa o politica. Si vedrà allora che da tempo il mondo possiede [nel senso di custodisce, ha in sé] il sogno di una cosa,

del quale gli manca solo di possedere la coscienza, per possederla veramente”.


L’uomo ha pressante e indilazionabile

il sogno d’una cosa , il sogno del socialismo, della giustizia, della vera uguaglianza, del lavoro per tutti e di una ripartizione dei beni secondo meriti e bisogni, senza lo sfruttamento capitalistico del plusvalore.

Pasolini resta colpito dalla lettera di Marx : per la sua vocazione pedagogica il “sogno di una cosa” è la riforma della coscienza.

Di una coscienza che vuole e può farsi mondo. Che può e vuole cambiare la realtà secondo i propri piani politico-pedagogici, scelti e vissuti collettivamente, in competizione con le altre possibilità che il futuro può determinare.

Pasolini avverte che l’Italia del dopoguerra, per quanto diversa e segnata dalle esperienze, vive

ancora inconsapevolmente di miti, il più forte dei quali è proprio quello dello Sviluppo, del tempo vuoto dell’avanzare, del progredire che non si cura delle distruzioni e del saccheggio delle ricchezze del pianeta, senza nessun rispetto per le culture particolari, “minori’ che vivono un tempo altro da quello urbano, dal tempo lineare ideologizzato.

Oggetto di riflessione inizialmente è il mondo contadino friulano .

Giovani contadini che nei loro paesi sul Tagliamento debbono perennemente assistere alle prepotenze dei pochi che hanno tutto e alla miseria delle plebi che non hanno nulla, giovani che si vedono alla fine costretti all’alternativa tra il morire di fame e l’espatriare.

Coi loro fagotti ai piedi, i ragazzi guardavano zitti verso quell’orizzonte limpido, turchino e

imbevuto di luce che toglieva il respiro, lungo le curve delle Prealpi, tra boschi, borgate e radure.

Proprio sotto il castello, sul costone di una collina, si vedeva a non più di due o trecento metri una strada bianca, disegnata tra case e orticelli; degli uomini vi camminavano; una donna venne alla finestra a sbattere un panno. Là non c’era più l’Italia: pareva che non ci fosse più mondo o che avesse inizio un mondo del tutto nuovo, libero, luminoso”.

( P. Paolo Pasolini, Il sogno di una cosa, in

Romanzi e racconti , Mondadori).

Successivamente, negli anni Cinquanta, Pasolini si dedicò tutto alla rappresentazione di un giovane sottoproletariato romano, l’arroganza del giovane strafottente, il gusto d’esibire tale strafottenza, il piacere –irragionevole- di ostentarla come un atto di violenta e altrettanto irragionevole rivendicazione.

Nei romanzi delle borgate la coscienza sembra aver introiettato il conflitto: non solo per la forza degli eventi, ma si è calato dentro di lei, è divenuto interno alla coscienza personale : la

conseguenza drammatica dello “sviluppo”.

Lo "Sviluppo" non è il nostro destino, a meno che non lo si scelga. Ma se invece preferiamo il

progresso, si può anche decidere per un tratto di tornare indietro, per meglio poi andare avanti.

La possibilità della scelta, forse è quel che affascina Pasolini del testo di Marx. Presente e passato. Antico e nuovo. E Pasolini non accettò mai che il dopo coincidesse sempre con il meglio, rigettando “ l’idolatria della successione del tempo in sé “( E. Bloch).


[...]Piange ciò che ha

fine e ricomincia...

[...]

Piange ciò che muta, anche

per farsi migliore. La luce

del futuro non cessa un solo istante

di ferirci [...]

(Il pianto della scavatrice VI)


Qualunque sia la scelta, il dover essere e lo scopo finale, non può eludersi la componente “mistica”.

Secondo Freud “la vita non vuole il suo bene” . E Pasolini, che aveva letto molto Freud, ne ha

condiviso quel concetto di atavica pulsione di vita che riscontrava nell’ ”ultimo puro arcaismo” di molti dei suoi personaggi letterari e cinematografici.

Purezza primitiva, condizionata da quel

consumismo che aveva eliminato ogni forma di spontaneismo umano individuale e collettivo cui teneva molto.

Di Freud ha assimilato il mistero dell’inconscio umano, in particolar modo della sua forma più conosciuta di linguaggio, di rappresentazione: appunto il sogno.

Il sogno è motivo diegetico di una delle sue tragedie, “Affabulazione”; è presente nelle “Mille e Una notte”, onirico è l’episodio “La Terra vista dalla Luna”; ed il sogno è parte imponente sotto forma di allucinazioni nel suo ultimo ed incompiuto romanzo, “Petrolio” .

Ma il sogno è anche la parte più affascinante e al contempo inquietante del suo primo film, Accattone.

In estremo si potrebbe dire che lo stesso

"Edipo re" si presenta (nella seconda parte) come un grande sogno del mito che finisce al risveglio, col ritorno alla realtà .

Nondimeno lo stesso Pasolini dirà:

L’altra ragione per cui il film è girato con «estetismo e umorismo», è che l’oggetto della ricerca di Freud non mi interessa più tanto, proprio come non mi interessa più tanto l’oggetto della ricerca di Marx. Non sono più del tutto seriamente inviluppato nel magma che fa di Edipo un oggetto di analisi freudiana e marxista. È vero, alla fine del film Freud sembrerebbe battere Marx. E Edipo va a

perdersi nel covo verde di pioppi e acque dove è stato allattato”.

(Da Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia , a cura di Luciano De Giusti, Pordenone,

Edizioni cinemazero, 1979)


Ma Pasolini di Freud ha colto soprattutto la dimensione dell’inconscio umano in cui si muovono le dinamiche profonde che si manifestano nei sogni, per ricercare quale sia il nostro il desiderio, cosa muove la natura umana.

Ed è stata quella di Pier Paolo Pasolini la vita di chi non ha mai rinunciato a scoprire cos’è

l’uomo, non l’ “Io” rigoroso, blindato, formale che lo governa, ma nel tentativo costante di

penetrare la parte più nascosta e oscura della sua “coscienza”: quella più sincera.

[...]

Più è sacro dov’è più animale

il mondo: ma senza tradire

la poeticità, l’originaria

forza, a noi tocca esaurire

Il suo mistero in bene e in male

umano. [...]

( L' umile Italia II)


ROSITA INGENITO

Testo pubblicato il 22 ottobre 2021 dal gruppo fb Pier Paolo Pasolini – Le pagine corsare





UNA BALLATA DI FRANCESCA TUSCANO

 



Ballata


Cosa cerchi? Le chiesero.

Lei non rispose. Pensava che

era lunga la strada del faro,

dove sarebbe sparita.


Fermati! Le disse, gridando.

Lei non lo fece, perché andare,

andava da sola, come la notte,

quando c’è la luce diversa del vento.


Ti amo! Lui urlava nel niente.

Lei non lo vide. L’amore

non porta dove il sangue

è acqua perduta di mare.


Molti dissero di averla veduta

cadere dal faro, nel mare indolente,

ma lui, che l'aveva baciata,

sapeva che aveva un’ombra di terra.


Il mare ha il colore promesso,

il peso della cura non chiesta,

e l’acqua nel corpo è gentile

come gli occhi di chi non ci guarda.


Non chiedere il nulla a chi non esiste.

Non chiederlo mai.

Francesca Tuscano


G. MARCHETTI, Gramsci e la Spagna. Cent'anni dopo

 



Giovanni Marchetti è un caro amico che ha insegnato lingua e letteratura spagnola nei licei siciliani. In questo articolo ricostruisce sinteticamente l'immagine della Spagna che si trova negli scritti di Antonio Gramsci. (fv)

Gramsci e la Spagna. Cent'anni dopo

Giovanni Marchetti

Antonio Gramsci, giovane giornalista, scrive due articoli sulla Spagna nell' "Ordine nuovo", uno del primo maggio 1919 dal titolo "Spagna" e l'altro l'11 marzo 1921 "Italia e Spagna". Gli articoli sono una analisi molto lucida sulla situazione spagnola dopo la Prima Guerra Mondiale. Successivamente, Gramsci ritornerà ad interessarsi della Spagna e a scrivere su di essa alcune annotazioni nei " Quaderni dal carcere" proprio mentre era detenuto. Nelle difficoltà in cui si trovava riuscirà a leggere il volume "Spagna" dello storico liberale Salvador de Madariaga uscito per Laterza nel 1932, libro che sarà poi rivisto e ripubblicato sempre dalla stessa casa editrice nel 1957 e che rappresenta la prima vera e propria storia organica sulla Spagna.

Sull' " Ordine nuovo" del primo maggio 1919 Antonio Gramsci analizzava la situazione spagnola: " la crisi in cui si dibatte la vita politica spagnuola s'è iniziata il primo giugno 1917 col pronunciamento pretoriano dei comitati ( juntas) di difesa militare, che determinarono lo scoppio di uno sciopero generale rivoluzionario, soffocato con la strage nell'agosto successivo " ( A. Gramsci -" Spagna" ora in : Sul Fascismo ed. Riuniti, Roma, pag. 59).

Gramsci sottolineava come si erano ormai modificati in Spagna i rapporti di classe per effetto della Prima Guerra Mondiale.

Si erano creati nuovi ricchi, si era esasperata la tensione sociale, mentre si era andato via via organizzando un proletariato rivoluzionario.

A proposito dello sfascio in cui regnava lo stato spagnolo Gramsci afferma : " La Spagna è un paese senza stato " ( A. Gramsci - " Spagna" in : Sul fascismo ed. Riuniti, Roma, 1974 pag. 60).

Per Gramsci, sul proletariato spagnolo ricadevano le conseguenze economiche del disordine e questo andava organizzandosi sempre di più sotto la spinta crescente del movimento sindacale ( CNT e UGT).

A questo punto Gramsci notava che: " la plebe spagnuola, individualista come tutti gli aggregati umani che non hanno subito le esperienze dolorose dello sfruttamento intensivo dell'industrialismo, s'assoggetta nei sindacati operai a una disciplina che stupisce (...) il movimento operaio, sviluppatosi per contraccolpi sociali così repentini e anormali si è organizzato e ha preso forma " (op. cit. pag. 61). Il boom industriale in Spagna, era stato " repentino" e "anormale" proprio perchè per la neutralità spagnola nella Prima Guerra Mondiale era saltata la fase di " accumulazione capitalistica" caratteristica delle società industriali di quel tempo.

Inoltre, lo sviluppo industriale in Spagna fu certo limitato territorialmente. La situazione spagnola negli anni '14 - ' 18 era quindi diversa da quella italiana dopo l'unità , soprattutto per quanto riguarda i sistemi dei rapporti fra le classi ai vertici della società.

Scrive Mario Caronna: " In Italia era in atto quell'alleanza di lungo periodo - che Gramsci definì di" blocco storico " - fra il capitalismo industriale del nord e i grandi agrari (...) in Spagna non era in vigore nessun patto di alleanza di lungo periodo, nessun blocco storico fra le classi dominanti, anzi vi fu competizione, contraddizione e scontro" ( Mario Caronna - Le cause della guerra civile spagnola- Isedi, Milano 1977, pp. 34-35).

L'arretratezza del paese era la sola condizione che permettesse il perpetuarsi del loro dominio, infatti uno sviluppo del sistema industriale così rapido come si era dato in Spagna, attirava una notevole quantità di mano d'opera semi-schiava dalle campagne alle città industriali, provocando una diminuzione della popolazione contadina.

Da ciò si spiega il perchè il movimento anarchico fu forte anche a Barcellona, città in cui si erano stabiliti parecchi lavoratori del sud.

Dunque la Prima Guerra Mondiale aveva fatto cadere la Spagna in crisi prima degli altri paesi europei.

In un altro scritto dell'11 marzo 1921, Gramsci dirà: " In Spagna l'organizzazione della piccola e media borghesia in gruppi armati si è verificata prima che in Italia, è stata iniziata già negli anni 1918 e '19. La Prima Guerra Mondiale ha piombato in una crisi terribile la Spagna prima che gli altri paesi: i capitalisti spagnoli avevano infatti saccheggiato il paese e venduto il vendibile già nei primi anni della conflagrazione( A. Gramsci- " Italia e Spagna" in op. cit. pag. 105) Questa crisi si trascinerà per ben cinque anni in una confusione crescente. Nel 1921 anche in Spagna il partito socialista si divise ma il Partito comunista spagnolo nato dalla scissione rimarrà un piccolissimo partito fino allo scoppio della Guerra civile spagnola. Inesistente, era, nella Spagna del '36 il "pericolo rosso" che indusse Franco a scatenare il suo " golpe" militare contro la Repubblica Spagnola.

Agli inizi degli anni ' 20 l'attrazione per il movimento operaio era ancora il sindacalismo apolitico e anarchizzante. E l'anarchismo come movimento rivoluzionario era destinato a fallire. Come ha scritto Gerald Brenan, autore di una delle più interessanti opere sulla Spagna moderna, " un solo sciopero di minatori nelle asturie ha scosso il governo spagnolo più di quanto non abbiano fatto settant'anni di massiccia attività rivoluzionaria degli anarchici ( Gerald Brenan- Storia della Spagna, 1874-1936, Einaudi, Torino, 1970)

La situazione degli inizi degli anni '20 in Spagna a causa della precarietà degli equilibri politici aprì la strada alla dittatura del generale Miguel Primo de Rivera( 1923-1930).

Giovanni Marchetti, 26 ottobre 2021


Un recente commento a "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" di CESARE PAVESE

 


In questi giorni, è stato ripubblicato dalla casa editrice “La vita felice” un classico del Novecento: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese. Riprendiamo dal sito http://www.leparoleelecose.it/?p=42677 un estratto della nuova prefazione di Tommaso Di Dio, seguito da alcune poesie di Pavese


Con la notte, il gesto

di Tommaso Di Dio


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: questo il verso con cui si apre una delle opere più celebri del Novecento, un’opera senza eredi, di cui – come per tutti i veri capolavori – è possibile solo la parodia. Con la prepotenza di un doppio futuro, questo titolo sembra nondimeno l’affermazione di una certezza indubitabile. Qualcosa si dà, apodittico, senza possibilità di replica, e fonda la propria evidenza su di una logica non conseguenziale, ma metonimica, di prossimità in prossimità animata da una forza altra, oscura, che presiede alle cose prime e alle cose ultime: lo sguardo, la morte. Le poesie di cui si compone questo libro sono state scritte alla metà del Novecento: vengono dal centro di un secolo i cui spettri non riusciamo ancora a dimenticare e che qui, in questo esilissimo libro di soli ventuno testi, si mostrano in un’epitome astratta, assoluta. Ancora, a distanza di più settant’anni dalla loro prima, postuma edizione, queste poesie, calibrate rigorosamente sulla misura breve di un verso ipnotico, litanico, ci costringono al confronto con qualcosa che ancora oggi ci pare ineludibile. A guardarle per un momento, così stagliate sulla pagina bianca, così esili, sembrano un monito; come se chi le scrisse non abbia mai potuto staccarsi dall’idea che dall’essere, dall’essere pienamente se stessi, non potrà mai essere disgiunta un’esperienza terribile, abbacinante: «Sarai tu – ferma e chiara.»

 

A chi incontrasse per la prima volta questi versi, vorrei dire: siate cauti; e leggeteli come se riceveste in dono un segreto. E il segreto non è il nome proprio che si dischiude, di volta in volta, dietro il pronome di seconda persona. Queste poesie – lo sappiamo – nascono dall’incontro con alcune donne (La terra e la morte del 1947 raccoglie i testi per la scrittrice e analista Bianca Garufi, le restanti del 1950 sono per l’attrice americana Constance Dowling), ma tutte sembrano la stessa poesia, un infinito reiterato tentativo di scrivere la sola poesia che valga la pena di scrivere. Dietro a ciascuna e a tutte, si avverte la medesima insistenza: come se al di là del paravento, dell’occasione apparentemente struggente e patetica – poesie d’amore per amori infelici –, premesse una dimensione vibrante, ctonia, che solo l’energia di un amore sbagliato ha avuto la capacità di risvegliare e di condurre alla superficie della parola. E così dietro a questo «tu» che torna e ritorna, che batte e ribatte ossessivamente in quasi ogni poesia, si nasconde qualcosa che non ha e non può avere un nome proprio, che può soltanto essere invocato da quella parte del discorso che, per eccellenza, ‘sta al posto di’ e che rimanda al di là del linguaggio, nel mondo delle cose e dei fatti, dei gesti. Se c’è un segreto in queste poesie, sta tutto qui: nell’uso di questo pronome di seconda persona.

 

Il «tu» è un pronome strano: è il segno di un’alterità che però, a differenza della terza persona, porta con sé anche il presentimento e il desiderio di una massima intimità. Ci si rivolge con questa parola a chi ci è prossimo, così prossimo da essere oggetto di rabbia, di affetto o dell’amore più carnale; eppure, per la medesima ragione, è un pronome allucinatorio, spettro dell’assente e di chi è invocato. «Tu» è un pronome paradossale: sta alla logica della metafisica quanto sta a quella dell’incarnazione. È il pronome di un’attesa e di una speranza che non abita le distanze astratte delle speculazioni teologiche, ma le viscere e il sangue, perché nel «tu» è sempre in causa il volto di un’appartenenza, la tremenda speranza che chi manca possa comparire davanti a noi, sia già accanto a noi, sia già spazio dentro di noi. Pavese – che ironicamente scriveva di sé «Tu sei celibe – non credi in Dio»[1] – sapeva bene che, per lui, l’uso di questo pronome poteva solo aprire le porte di un abisso senza fine. Lo sapeva ed è stata la scoperta della sua vita, deposta in questi testi durante i suoi anni estremi. Il segreto della poesia, aveva scritto, sta tutto in questa capacità di rievocare la vita «una seconda volta»[2]: conoscere è ricordare; e favole, miti, profezie e preghiere si intrecciano alla poesia, che infine non vuole altro che far accadere nuovamente ciò che si nomina. Scrive ne Il mestiere di vivere: «Ecco la poesia, che è magia e rito – religione»[3]. Si scrive la poesia come componendo un’azione nello spazio sacrificale della pagina; e si scrive «tu» perché il «tu» arrivi, perché il «tu» avvenga e ricompaia, certo non in una presupposta realtà, là fuori da qualche parte, ma perché diventi invece presenza ripetuta nel linguaggio e così, assente, prenda vita in noi, sia sangue nel nostro sangue: «tu dura e dolcissima/ parola, antica per sangue/ raccolto negli occhi». Pavese era convinto che fra rito, mito e dogma intercorresse la stessa tensione che c’è fra vita, poesia e filosofia[4]. La vita muta dei gesti sta allora al rito come il mito alle parole della poesia e il momento di «commozione estatica», di cui la poesia è testimonianza bruciante, non è mai contatto alogico e primigenio con l’aorgico, ma ricordo di un segno che si trovò «trasfigurato», terribile «favola». Per Pavese l’infanzia non è solo il nome che diamo all’area immemore della nostra vita senza linguaggio, ma quel terribile «vivaio» di «gesti e parole irreparabili» in cui specchiare «l’orrore adulto»[5]; lì abbiamo imparato «a conoscere il mondo non – come parrebbe – con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni delle cose»; e se «si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commuoviamo perché ci siamo già commossi»[6]. E allora dietro questo «tu» non c’è niente? Il nulla di un rinvio cieco, vuoto? Un dio assente? Solo linguaggio che rumoreggia, ricordando se stesso?

 

No, certo che no. Per Pavese la poesia era un’altra cosa: slancio rischioso, rapporto, profonda ricerca formale, «dolore operoso»[7]. Una volta, anni prima, nel 1936, il giovane autore di Lavorare stanca[8], rispondendo ad una recensione negativa di un erudito piemontese[9], dopo aver dichiarato di essere completamente concorde sul fallimento del suo tribolato primo libro, aveva sostenuto che l’obiettivo estetico di quelle poesie fosse «rappresentare un mondo», «un mondo di giovani che vivono contenti e meravigliati delle cose reali»; Pavese precisa, fra parentesi, che l’autore in quel mondo dovesse entrare «come un semplice personaggio e non con la prepotente sicumera del lirico che si canta». Cosa ne è di quella pretesa, dieci anni dopo? Per descrivere «un mondo», è bastato fare di sé un personaggio fra i tanti? In Verrà la morte e avrà i tuoi occhi la pretesa giovanile di ‘realismo’ sarà perseguita con altrettanta forza, ma ben oltre l’ingenua equivalenza fra mondo e «cose reali». Pavese, da questo punto di vista, va decisamente al di là dell’assunto neorealista, a tal punto che il suo – come per i Dialoghi con Leucò[10], vero testo a fronte di queste poesie – è stato un tentativo quasi incomprensibile per l’epoca e finanche sospetto di essere reazionario. Il realismo di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi è, infatti, tutto risolto nella rappresentazione di un sentimento e, per paradosso, non c’è niente di meno soggettivo del sentimento. Il sentimento, che una vulgata pseudoromantica vorrebbe legato indissolubilmente all’espressione di una claustrale soggettività, è invece sempre effetto di ciò che si impone dall’esterno, è il segno del ‘fuori’ dentro di noi; il sentimento è ciò che apre e spazia il mostro monologico dell’io e lo dischiude alla verità del dialogo di cui è costituito, abitato com’è dal «noi» sociale e dal «tu» di un’appartenenza. In questa opera estrema, il tradizionale soggetto della poesia lirica, l’io, cessa di essere un personaggio fra gli altri, come era accaduto in Lavorare stanca, e scompare quasi del tutto; ciò che lascia sulla pagina è una scena: di poesia in poesia, assistiamo alla composizione strutturale di un paesaggio oggettivo di simboli. Lo ritroviamo ad ogni verso: «Anche tu sei collina e sentiero di sassi/ e gioco nei canneti,/ e conosci la vigna/ che di notte tace». Pavese già anni prima lo aveva scritto, avvicinando il termine ‘descrizione’ a quello di ‘sentimento’: «mi pare comunque esatto che sentimento sia il descrivere propriamente»; e aggiunge che «adoperare le commozioni per scoprirvi rapporti è infatti già elaborare razionalmente queste esperienze»[11]. Se dunque il sentimento è una dimensione oggettiva come quella propria di una descrizione accurata, altrettanto lo è il simbolo, che per Pavese non è altro che «l’attimo estatico», momento di fuoriuscita dal sé, in una dimensione che è sì «supertemporale», ma che si arricchisce della trafila storica dei nostri gesti, accumulatasi nella memoria[12]. Di ciò parlano queste poesie, che sono interamente costruite sul rapporto reciprocamente evocativo fra sentimento e paesaggio. Quello che Pavese chiama «il puro pezzo mimetico», il sentimento, non è che l’accordo fra un «tu» che, perdendo definitivamente il nome proprio, diviene simbolo, che si dà nel linguaggio mediante metafora e metonimia; l’io è ciò che resta, ovvero lo spazio di questo avvenimento. Ecco perché tanta parte di queste poesie sono costruite sulla reiterazione di una medesima struttura che vede il pronome di seconda persona, implicito o esplicito, affiancarsi ossessivamente ad un verbo copulativo a cui si lega, nella posizione predicativa, un elemento simbolico del paesaggio. È la reiterazione perfetta di questa macchina retorica che fa di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi un libro così suggestivo, così potente, così inquietante. Da un lato, è capace di dare voce al senso di spossessamento che provoca il sentimento amoroso; dall’altro, a questa espropriazione dà un nome preciso: e il suo nome è morte

[…]

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[1] Si veda Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 21 novembre 1947: «Sapere che qualcuno ti attende, qualcuno ti può chiedere conto dei tuoi gesti e pensieri, qualcuno ti può seguire con gli occhi e aspettarsi una parola – tutto questo ti pesa, t’impaccia, t’offende. Ecco perché il credente è sano, anche carnalmente – sa che qualcuno lo attende, il suo Dio. Tu sei celibe – non credi in Dio.»

[2] Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 26 settembre 1942: «Non esiste un ‘veder le cose la prima volta’. Quella che ricordiamo, che notiamo, è sempre una seconda volta».

[3] Si veda Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, cit., 11 dicembre 1947: «… the hunting, fighting, or what not, the thing done, is never religious; the thing re-done with heightened emotion is on the way to become so. The element of action re-done, imitated, the element of μίμησις is, I think, essential… Not the attempt to deceive, but a desire to re-live, to re-present» (HARRISON. Themis. 26 p. 43). Non corrisponde al tuo vedere mitico, alla tua «seconda volta»? E in questa mimesi c’è il segreto della poesia. Ripresentare una cosa fatta, una caccia, una battaglia, non è raccontarla? Ripresentarla prima che avvenga, per farla accadere (magìa), non è profetarla? Ecco la poesia, che è magìa e rito – religione.» L’autore sta commentando una frase tratta dall’opera di Jane E. Harrison, Themis. A study of the Social Origins of Greek Religion, Cambridge University Press, Cambridge 1912.

[4] Si veda Il mestiere di vivere, cit., 20 dicembre 1947: «Che il rito preceda sempre il mito e il dogma è la grande legge delle cose spirituali. Se per rito dici vita e per mito e dogma poesia e filosofia, la cosa è chiara.»

[5] Ivi, 27 Novembre 1937: «Tutti gli uomini hanno un cancro che li rode, un escremento giornaliero, un male a scadenza: la loro insoddisfazione; il punto di scontro tra il loro essere reale, scheletrico, e l’infinita complessità della vita. E tutti prima o poi se ne accorgono. Di ciascuno bisognerà indagare, immaginare il lento accorgersi o il fulmineo intuire. Quasi tutti – pare – rintracciano nell’infanzia i segni dell’orrore adulto. Indagare questo vivaio di retrospettive scoperte, di sbigottimenti, questo loro angoscioso ritrovarsi prefigurati in gesti e parole irreparabili dell’infanzia. I Fioretti del Diavolo. Contemplare senza posa quest’orrore: ciò ch’è stato, sarà.»

[6] Si veda Il mestiere di vivere, cit., 31 agosto 1942: «Da bambino s’impara a conoscere il mondo non – come parrebbe – con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni delle cose: parole, vignette, racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commuoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi, perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva. Naturalmente a quel tempo la fantasia ci giunse come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione. (Giacché che l’infanzia sia poetica è soltanto una fantasia dell’età matura.)»

[7] Così in risposta ad una lettera Torino, in risposta ad una lettera timbrata 23 novembre 1925, all’amico di studi giovanili Mario Sturani.

[8] Cesare Pavese, Lavorare stanca, Firenze, Solaria, 1936; la pubblicazione del libro – che fu per lo più ignorato – avvenne mentre Pavese stava scontando una pena triennale al confino a Brancaleone Calabro, che si concluse con il rientro a Torino nel marzo del 1936, essendo stata infine accettata la richiesta di grazia proposta dalla sorella.

[9] Si veda Cesare Pavese, Vita attraverso le lettere, a cura di L. Mondo, Einaudi, Torino, 2014; la lettera del giugno del 1936 è rivolta a Giuseppe Cassano: «In poche parole, l’idea delle mie poesie, astratta di volta in volta per decantazione, non anticipata in tesi, era questa: rappresentare un mondo (in cui l’autore entrasse come un semplice personaggio e non con la prepotente sicumera del lirico che si canta), un mondo di giovani che vivono contenti e meravigliati delle cose reali, che si muovono con mattutina spensieratezza tra gli uomini, che non rifiutano di fare una risata o una nuotata o una bevuta o anche, perché no?, una chiavata, ma che soprattutto amano i gesti semplici e netti, le situazioni chiare, il riposo dopo la fatica, la fatica dopo il riposo.»

[10] I Dialoghi con Leucò furono scritti dal 1945 al 1947, anno della loro pubblicazione per Einaudi. Il libro, carissimo al loro autore, quasi ignorato alla sua uscita, è dedicato a Bianca Garufi. Pavese ne aveva una copia con sé, quando fu trovato in una camera dell’albergo Roma di Torino. Sulla prima pagina fu trovata la sua ultima nota di diario: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».

[11] Si veda Il mestiere di vivere, cit., 1 novembre 1935: «È interessante l’idea che il sentimento in arte sia il puro pezzo mimetico, l’esatta descrizione della bonaccia. Una descrizione cioè, fatta con termini propri, senza scoperte di rapporti immaginosi e senza intrusioni logiche. Ma se è concepibile una descrizione che non conti immagini (che forse la natura stessa del linguaggio nega), può darsi una descrizione al di qua del pensiero logico? Non è già espressione di giudizio osservare che l’albero è verde? O se pare ridicolo trovare un pensiero in simile banalità, dove finisce la banalità e comincia il vero giudizio logico? Rimando a miglior filosofo il secondo capoverso. Mi pare comunque esatto che sentimento sia il descrivere propriamente. Adoperare le commozioni per scoprirvi rapporti è infatti già elaborare razionalmente queste esperienze.»

[12] Si veda Il mestiere di vivere, cit., 17 settembre 1942: «La novità di quest’oggi è che l’attimo estatico corrisponda al simbolo, che sarebbe quindi la pura libertà. Viviamo nel mondo delle cose, dei fatti, dei gesti, che è il mondo del tempo. Il nostro sforzo incessante e inconsapevole è un tendere fuori del tempo, all’attimo estatico che realizza la nostra libertà. Accade che le cose i fatti i gesti – il passare del tempo – ci promettono di questi attimi, li rivestono, li incarnano. Essi divengono simboli della nostra libertà. Ognuno di noi ha una ricchezza di cose fatti e gesti che sono i simboli della sua felicità – essi non valgono per sé, per la loro naturalità, ma c’invitano ci chiamano, sono simboli. Il tempo arricchisce meravigliosamente questo mondo di segni, in quanto crea un gioco di prospettive che moltiplica il significato supertemporale di questi simboli. Che è quanto dire che non esistono simboli negativi, pessimistici, o semplicemente banali: il simbolo è sempre attimo estatico, affermazione, centro».

 

*

da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

di Cesare Pavese

Tu sei come una terra

che nessuno ha mai detto.

Tu non attendi nulla

se non la parola

che sgorgherà dal fondo

come un frutto tra i rami.

C’è un vento che ti giunge.

Cose secche e rimorte

t’ingombrano e vanno nel vento.

Membra e parole antiche.

Tu tremi nell’estate.

 

[29 ottobre 1945]

 

*

 

Sei la terra e la morte.

La tua stagione è il buio

e il silenzio. Non vive

cosa che più di te

sia remota dall’alba.

Quando sembri destarti

sei soltanto dolore,

l’hai negli occhi e nel sangue

ma tu non senti. Vivi

come vive una pietra,

come la terra dura.

E ti vestono sogni

movimenti singulti

che tu ignori. Il dolore

come l’acqua di un lago

trepida e ti circonda.

Sono cerchi sull’acqua.

Tu li lasci svanire.

Sei la terra e la morte.

 

[3 dicembre 1945]

 

*

 

Verrà̀ la morte e avrà̀ i tuoi occhi –

questa morte che ci accompagna

dal mattino alla sera, insonne,

sorda, come un vecchio rimorso

o un vizio assurdo. I tuoi occhi

saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.

Così li vedi ogni mattina

quando su te sola ti pieghi

nello specchio. O cara speranza,

quel giorno sapremo anche noi

che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.

Verrà̀ la morte e avrà̀ i tuoi occhi.

Sarà come smettere un vizio,

come vedere nello specchio

riemergere un viso morto,

come ascoltare un labbro chiuso.

Scenderemo nel gorgo muti.

 

[22 marzo 1950]



  

*

 

The night you slept

 

Anche la notte ti somiglia,

la notte remota che piange

muta, dentro il cuore profondo,

e le stelle passano stanche.

Una guancia tocca una guancia –

è un brivido freddo, qualcuno

si dibatte e t’implora, solo,

sperduto in te, nella tua febbre.

La notte soffre e anela l’alba,

povero cuore che sussulti.

O viso chiuso, buia angoscia,

febbre che rattristi le stelle,

c’è chi come te attende l’alba

scrutando il tuo viso in silenzio.

Sei distesa sotto la notte

come un chiuso orizzonte morto.

Povero cuore che sussulti,

un giorno lontano eri l’alba. 

[4 aprile 1950]