31 luglio 2012

Chris Marker, genio sperimentatore.









Con l’aiuto di Alberto Crespi diamo l’addio  a Chris Marker, il regista di «Le Jetée»(1962), il corto più famoso del mondo che oggi si può rivedere in rete. Il cineasta è morto il giorno del suo 91° compleanno.


Chris Marker, genio sperimentatore
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Non più tardi di una settimana fa, all’Est Film Festival di Montefiascone, abbiamo avuto il piacere di incontrare Terry Gilliam e di rivedere L’esercito delle 12 scimmie. Davanti a quel film, che pure non è affatto male, non abbiamo potuto fare a meno di pensare per l’ennesima volta quanto è più bello, più geniale, più importante il cortometraggio La jetée al quale è ispirato. E siamo sicuri che Gilliam sarebbe d’accordo con noi. È doppiamente sconcertante, quindi, apprendere oggi che l’autore di quel micro-capolavoro, Chris Marker, è morto. Alla coincidenza si aggiunge la sorpresa: avevamo il sospetto che Marker fosse scomparso già da tempo, ma che nessuno ce l’avrebbe mai detto, perché una delle caratteristiche di questo artista era la ritrosia. Esistono pochissime sue foto, da molti anni non si faceva vedere e rilasciava poche (ma densissime) interviste: al confronto Terry Malick e Stanley Kubrick erano/sono dei compagnoni. Chris Marker era quel che si definisce un cineasta «appartato», e un grande sperimentatore del linguaggio. Nonostante questa sua invisibilità, la sua influenza è fortissima su tutto il cinema che si fa oggi, al di là di Terry Gilliam. E non sarà facile spiegare il perché.
Bisogna comunque partire da lì, da La jetée. Realizzato nel 1962, questo misterioso oggetto dura 28 minuti e la sua visione dovrebbe essere obbligatoria per chiunque ami il cinema. Di più: La jetée dovrebbe essere, per tutti, il primo film da vedere nella vita. È come se tutto cominciasse lì, anche se nel ’62 la settima arte aveva già 70 anni. Il film ha una trama apparentemente esile, in realtà fortissima: un bambino si trova con i genitori all’aeroporto parigino di Orly e assiste a un omicidio.
Trent’anni dopo il bimbo, divenuto uomo, si ritrova in un futuro post-atomico dove alcuni scienziati gli fanno sperimentare il viaggio nel tempo, rimandandolo a Orly nel momento dell’omicidio. Qui si compie un paradosso temporale che è il «grado zero» di tutti i viaggi nel tempo che il cinema e la letteratura possano aver immaginato. L’originalità di La jetée (parola che in francese indica i moli d’imbarco degli aerei) consiste nel fatto che, in 28 minuti, ci sono solo immagini fisse: fotografie in uno smagliante bianco e nero, con una voce fuori campo quasi ininterrotta che racconta la storia e i suoi addentellati scientifico-filosofici. Al sito internet http://www.intercom.publinet.it/2001/jeteel.htm potete trovarne la trascrizione integrale, in francese e in traduzione italiana. Il film è visibile in rete (su youtube e su altri siti) in tutte le salse, integrale e a frammenti: vederlo così -cosa che vi consigliamo caldamente di fare, saranno i 28 minuti meglio spesi della vostra vita -è un gesto quasi dadaista, se si pensa al riserbo con cui Marker ha vissuto la propria arte e la propria vita. Ma un teorico del cinema polimorfo, quale lui era, forse apprezzerebbe.
Perché parliamo di cinema polimorfo? Perché La jetée, e in generale tutta l’opera di Marker, sono una smentita del luogo comune per cui un film è una «cosa» che può durare due ore, o poco meno, e deve «raccontare una storia». Come si diceva, La jetée ne dura 28 ed è forse la più grande storia che il cinema abbia raccontato. Le fond del’air est rouge, film di montaggio sulla storia del comunismo che parte dalle immagini della Corazzata Potemkin per arrivare alla sua contemporaneità (è del 1977), dura 4 ore. Nella sua sterminata filmografia ha frequentato tutti gli stili e tutti i formati. Uno dei suoi film più belli è sicuramente A.K. del 1985, un ritratto di Akira Kurosawa realizzato sul set di Ran: si può dire che, nell’occasione, abbia inventato gli extra dei dvd! Un’altra coincidenza abbastanza clamorosa, in questi giorni, è che il suo primo lungometraggio risulti essere Olympia 52, film ufficiale sui Giochi di Helsinki del 1952. Tra i molti progetti collettivi ai quali Marker ha collaborato il più celebre è sicuramente Loin du Vietnam (1967), il celebre manifesto contro la guerra co-firmato con Joris Ivens, Claude Lelouch, Alain Resnais, Agnès Varda, Jean-Luc Godard e William Klein.
Forse l’elusività di Marker e il suo gusto per il lavoro collettivo vengono tutti da quel suo cognome, che era solo il primo dei suoi tanti pseudonimi: era il suo nome di battaglia durante la Resistenza, alla quale partecipò attivamente. Il suo vero nome era Christian-Francois Bouche-Villeneuve ed era nato il 29 luglio 1921 a Neuilly-sur-Seine. Che sia morto il 29 luglio del 2012, giorno del suo 91esimo compleanno – studiatevi bene tutte queste date, nascondono una perfida numerologia – è forse l’ultimo dei suoi calembour. Se volete cominciare a scalfire il pianeta-Marker leggete la voce francese di wikipedia o andate nel suo sito www.chrismarker.ch (in francese) o www.chrismarker.org (in inglese). Ma fatelo solo se avete una settimana di ferie, l’argomento è immenso. Buona caccia.
Alberto Crespi, su  L’Unità del 31 luglio 2012






CRISI E BANCHE



Luciano Gallino, sul giornale La Repubblica, smonta la gigantesca menzogna costruita per spiegare la crisi finanziaria che ha investito l'Europa.

Sulla crisi pesano i debiti delle banche

Il 20 luglio la Camera ha approvato il “Patto fiscale”, trattato Ue che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Comporterà per l’Italia una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032.Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà.

Approvando senza un minimo di discussione il testo la maggioranza parlamentare ha però fatto anche di peggio. Ha impresso il sigillo della massima istituzione della democrazia a una interpretazione del tutto errata della crisi iniziata nel 2007. Quella della vulgata che vede le sue cause nell’eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale. In realtà le cause della crisi sono da ricercarsi nel sistema finanziario, cosa di cui nessuno dubitava sino agli inizi del 2010. Da quel momento in poi ha avuto inizio l’operazione che un analista tedesco ha definito il più grande successo di relazioni pubbliche di tutti i tempi: la crisi nata dalle banche è stata mascherata da crisi del debito pubblico.

In sintesi la crisi è nata dal fatto che le banche Ue (come si continuano a chiamare, benché molte siano conglomerati finanziari formati da centinaia di società, tra le quali vi sono anche delle banche) sono gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza. Ciò avviene perché al pari delle consorelle Usa esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore.

La finanza ombra è formata da varie entità che operano come banche senza esserlo. Molti sono fondi: monetari, speculativi, di investimento, immobiliari. Il maggior pilastro di essa sono però le società di scopo create dalle banche stesse, chiamate Veicoli di investimento strutturato (acronimo Siv) o Veicoli per scopi speciali (Spv) e simili. Il nome di veicoli è quanto mai appropriato, perché essi servono anzitutto a trasportare fuori bilancio i crediti concessi da una banca, in modo che essa possa immediatamente concederne altri per ricavarne un utile. Infatti, quando una banca concede un prestito, deve versare una quota a titolo di riserva alla banca centrale (la Bce per i paesi Ue). Accade però che se continua a concedere prestiti, ad un certo punto le mancano i capitali da versare come riserva. Ecco allora la grande trovata: i crediti vengono trasformati in un titolo commerciale, venduti in tale forma a un Siv creato dalla stessa banca, e tolti dal bilancio. Con ciò la banca può ricominciare a concedere prestiti, oltre a incassare subito l’ammontare dei prestiti concessi, invece di aspettare anni come avviene ad esempio con un mutuo. Mediante tale dispositivo, riprodotto in centinaia di esemplari dalle maggiori banche Usa e Ue, spesso collocati in paradisi fiscali, esse hanno concesso a famiglie, imprese ed enti finanziari trilioni di dollari e di euro che le loro riserve, o il loro capitale proprio, non avrebbero mai permesso loro di concedere. Creando così rischi gravi per l’intero sistema finanziario.

I Siv o Spv presentano infatti vari inconvenienti. Anzitutto, mentre gestiscono decine di miliardi, comprando crediti dalle banche e rivendendoli in forma strutturata a investitori istituzionali, hanno una consistenza economica ed organizzativa irrisoria.

Come notavano già nel 2006 due economisti americani, G. B. Gorton e N. S. Souleles, «i Spv sono essenzialmente società robot che non hanno dipendenti, non prendono decisioni economiche di rilievo, né hanno una collocazione fisica». Uno dei casi esemplari citati nella letteratura sulla finanza ombra è il Rhineland Funding, un Spv creato dalla banca tedesca IKB, che nel 2007 aveva un capitale proprio di 500 (cinquecento) dollari e gestiva un portafoglio di crediti cartolarizzati di 13 miliardi di euro. L’esilità strutturale dei Siv o Spv comporta che la separazione categorica tra responsabilità della banca sponsor, che dovrebbe essere totale, sia in realtà insostenibile. A ciò si aggiunge il problema della disparità dei periodi di scadenza dei titoli comprati dalla banca sponsor e di quelli emessi dal veicolo per finanziare l’acquisto. Se i primi, per dire, hanno una scadenza media di 5 anni, ed i secondi una di 60 giorni, il veicolo interessato deve infallibilmente rinnovare i prestiti contratti, cioè i titoli emessi, per trenta volte di seguito. In gran numero di casi, dal 2007 in poi, tale acrobazia non è riuscita, ed i debiti di miliardi dei Siv sono risaliti con estrema rapidità alle banche sponsor.

La finanza ombra è stata una delle cause determinanti della crisi finanziaria esplosa nel 2007. In Usa essa è discussa e studiata fin dall’estate di quell’anno. Nella Ue sembrano essersi svegliati pochi mesi fa. Un rapporto del Financial Stability Board dell’ottobre 2011 stimava la sua consistenza nel 2010 in 60 trilioni di dollari, di cui circa 25 in Usa e altrettanti in cinque paesi europei: Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna. La cifra si suppone corrisponda alla metà di tutti gli attivi dell’eurozona. Il rapporto, arditamente, raccomandava di mappare i differenti tipi di intermediari finanziari che non sono banche. Un green paper della Commissione europea del marzo 2012 precisa che si stanno esaminando regole di consolidamento delle entità della finanza ombra in modo da assoggettarle alle regole dell’accordo interbancario Basilea 3 (portare in bilancio i capitali delle banche che ora non vi figurano). A metà giugno il ministro italiano dell’Economia – cioè Mario Monti - commentava il green paper: «È importante condurre una riflessione sugli effetti generali dei vari tipi di regolazione attraverso settori e mercati e delle loro potenziali conseguenze inattese».

Sono passati cinque anni dallo scoppio della crisi. Nella sua genesi le banche europee hanno avuto un ruolo di primissimo piano a causa delle acrobazie finanziarie in cui si sono impegnate, emulando e in certi casi superando quelle americane. Ogni tanto qualche acrobata cade rovinosamente a terra; tra gli ultimi, come noto, vi sono state grandi banche spagnole. Frattanto in pochi mesi i governi europei hanno tagliato pensioni, salari, fondi per l’istruzione e la sanità, personale della PA, adducendo a motivo l’inaridimento dei bilanci pubblici. Che è reale, ma è dovuto principalmente ai 4 trilioni di euro spesi o impegnati nella Ue al fine di salvare gli enti finanziari: parola di José Manuel Barroso. Per contro, in tema di riforma del sistema finanziario essi si limitano a raccomandare, esaminare e riflettere. Tra l’errore della diagnosi, i rimedi peggiori del male e l’inanità della politica, l’uscita dalla crisi rimane lontana. 
  Luciano Gallino

Fonte: La Repubblica, 30 luglio 2012


VINCENZO CONSOLO A MARSALA


Sabato  prossimo, alle ore 21.00,  nell’ex Convento del Carmine di  Marsala si presenta il libro postumo di Vincenzo Consolo, La mia isola è Las Vegas, Mondadori. A presentarlo saranno Nicolò Messina, curatore dell’opera, e  Nuccia Clarkson. Noi abbiamo già parlato del libro; ma, dal momento che l’Autore ci è particolarmente caro, torniamo a farlo utilizzando la recensione che ne ha fatto Cesare Segre sul  Corriere della Sera.

Cesare Segre, La Sicilia che sognava Consolo

Sono cinque mesi che Vincenzo Consolo ci ha lasciati, e il dolore incomincia a sfumarsi di rimpianto. Al dolore della perdita si mescola ora la consapevolezza, anche, dei mutamenti che questa perdita ha implicato per il quadro attuale della narrativa italiana. Si sa che Consolo era tra le figure di maggiore spicco del romanzo di fine Novecento, ma si vorrebbe precisare in che misura, e per quali aspetti in particolare.
Ci aiuta ora il volume La mia isola è Las Vegas (Mondadori, pagine 252, 19), costituito da suoi racconti pubblicati fra il 1957 e il 2011. All'inizio e alla fine s'incontrano alcuni inediti. In complesso i racconti sono più di cinquanta, solitamente brevi, ma con qualche eccezione, sino a una decina di pagine. Per il resto possiamo dire che i testi provengono da quotidiani (più spesso, nell'ordine, «La Stampa», «Il Messaggero», «Corriere della Sera», «l'Unità», «La Sicilia», «Il Manifesto»), riviste e pubblicazioni varie, anche d'occasione. Una nota finale del curatore, Nicolò Messina, dà le notizie necessarie su eventuali cambi di titolo dei pezzi, ristampe successive, ritocchi d'autore.
L'ordine cronologico con cui si susseguono i racconti, preferibile a un qualsiasi ordinamento tematico, fa iniziare il volume con lo stupendo «Un sacco di magnolie». E così ci propone subito alcune linee di storicizzazione. La prima è quella autobiografica, perché diversi flash sparsi qua e là nei testi ci fanno ripercorrere le fasi principali della vita di Consolo, dall'infanzia siciliana agli studi universitari, in giurisprudenza, a Milano. Poi, i primi incontri con scrittori, tra cui quelli cui fu più vicino (Sciascia, ma anche Lucio Piccolo), l'attività alla Rai, e le prime prese di posizione politiche, frutto di una riflessione sulle vicende recenti della Sicilia e sulla situazione complessiva dell'Italia. Lo schema del viaggio, dalla Sicilia a Milano e viceversa, come in Vittorini, è una falsariga comune a molti racconti. E si constata subito che, quando il paesaggio o la vita paesana concentrano l'attenzione dello scrittore, con efficaci risultati artistici, è perché ci si trova in Sicilia.
Altra linea storica è quella dello stile, perché i racconti rivelano le sperimentazioni che portarono Consolo dall'oggettività de La ferita dell'aprile a una forma di espressionismo barocco, nel Sorriso dell'ignoto marinaio e nei romanzi successivi; da un'intensa concisione quasi neorealista a una ritmicità coinvolgente. Si tratta di un'esperienza con forti implicazioni personali, perché Consolo si è sempre mosso tra un impegno immediato nel giudizio storico o nella denuncia (come si riscontra in quasi tutte le sue raccolte di saggi), e uno scavo dal presente al passato, dal «qui ed ora» alla visione sul tempo e sui secoli. Tanto che il suo «barocco» diventa un procedimento per evocare momenti significativi di vita della sua isola. Insomma, la varietà degli stili riflette il gioco e l'alternanza dei punti di vista.
Di qui la grande varietà tematica, da ricordi e fantasie ad abbozzi di storia (per situazioni siciliane, specie di carattere sociale, ma anche milanesi), da incontri a racconti di viaggio, dal tragico al comico, frequentato abbastanza spesso in questo volume. Ci sono vere pagine di storia, come «E poi arrivò Bixio, l'angelo della morte», sul noto eccidio di Bronte, mentre il profumo di un aranceto può dare l'avvio a una breve storia della Sicilia araba («Arancio, sogno e nostalgia»). Un po' spaesato appare solo «Madre Coraggio», di ambiente israeliano-palestinese. Tra i testi che possono sorprendere il lettore c'è persino un racconto (scritto per «il Travaso») su Strehler e sul Piccolo teatro, in italo-milanese, o un morboso-boccaccesco «Miracolo», che richiama alla lontana la scena di frate Nunzio invasato nel Sorriso dell'ignoto marinaio . Si può segnalare infine un racconto su un Mussolini trasposto ai nostri giorni; il racconto fa il verso a Gadda, uno dei principali modelli di Consolo: per esempio il duce è deformato in «il kuce». Vien da domandarsi, con lo scrittore, «non è il narrare quell'incontro miracoloso, di ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e poesia?».

Cesare Segre, Corriere della Sera 20 giugno 2012


N.B. :  Il pezzo che ha dato il titolo al libro è questo: http://www.sciclinews.com/documenti/1508ie21.pdf.pdf




29 luglio 2012

IL MONDO DI ELSA MORANTE





Torniamo a parlare di Elsa Morante tramite l’introduzione di Goffredo  Fofi ad una  celebre opera della scrittrice che torna in libreria in occasione del centenario della sua nascita.
In coda al pezzo di Fofi indichiamo dei link che riproducono  alcune memorabili  recensioni della I edizione del libro della Morante. 



Goffredo Fofi, In quei ragazzini tutte le speranze della Morante

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Nelle poesie, nei poemetti di Il mondo salvato dai ragazzini c’è la Morante dei romanzi già scritti, in particolare L’isola di Arturo, e di quelli ancora da scrivere, La Storia e Aracoeli, anche se a una prima lettura questi tre titoli sembrano così distanti e diversi tra loro. Il mondo salvato dai ragazzini è una sintesi sorprendente, comprensibile solo a distanza. Quando il libro uscì, nei primi mesi del ’68, non se ne comprese appieno l’ampiezza, la novità.
Si era nel vivo di un movimento che in qualche modo era stato annunciato e invocato molti mesi prima dalla pubblicazione su «Nuovi Argomenti» della Canzone degli F.P. e degli I.M., letta con la dovuta attenzione da pochi, e tra questi dai collaboratori dei «Quaderni piacentini» su sollecitazione dello psicoanalista libertario Elvio Fachinelli. La causa? La distanza, che non è mai stata colmata e che anzi continua a crescere, tra chi agisce e chi pensa, o meglio: tra chi agisce e chi evoca e canta. E d’altronde il ’68 trovò molte simpatie in molti degnissimi rappresentanti delle generazioni precedenti, ma non fu tra loro che andò cercando i suoi maggiori.
Non era prevedibile, il nostro ’68, quando Elsa scrisse la Canzone, nonostante le anticipazioni statunitensi. Ma era come se la Canzone lo prevedesse, fosse stata scritta con quella convinzione, e avesse eletto i suoi lettori tra coloro che, nelle università ma non solo, si sperava giungessero a ribellarsi. E Il mondo salvato dai ragazzini diventò dunque, volendolo essere, una voce nel deserto ma che si rivolgeva a lettori specifici, ai «ragazzini» delle ultime grandi rivolte possibili, ben oltre quelle della classe operaia dei gruppi e partiti marxisti passati e futuri.
Alle definizioni del libro che Elsa Morante volle elencare nella quarta di copertina – «È un manifesto. È un memoriale. È un saggio filosofico. È un romanzo. È un’autobiografia. È un dialogo. È una tragedia. È una commedia. È un documentario a colori. È un fumetto. È una chiave magica. È un testamento. È una poesia» -, e che ci sembrano oggi tutte adeguate, ne mancavano forse due più prosaiche e banali: È un comizio, È una predica. Sembrano insulti e non lo sono, se appena si rende alle parole il loro significato più profondo: di invito (orazione) e di monito (spiegazione).
Non si può comprendere appieno il valore di questo libro nella sua complessità e varietà e nel compendio che propone, se non si tiene conto della sua aspirazione a incidere nella realtà con i mezzi della poesia attraverso i lettori potenzialmente più ricettivi di tutti, i giovani, i nuovi. Ed è infine questo il risultato più ardito a cui la poesia abbia mai potuto aspirare. Veggente come l’amato Rimbaud (si conosce una piccola incisione moderna del volto di Rimbaud su cui la Morante ha scritto una dedica paradossale: «A Elsa, Arthur») e in quanto tale anche profeta: annunciatrice, suscitatrice.

La funzione del poeta è, nella visione della Morante, la più alta possibile, è quella di chi deve mettere in guardia i lettori (il mondo) dai pericoli che covano al suo interno – il maggiore tra tutti quello dell’irrealtà -, ricordandogli la bellezza del vero, della realtà.
Veggente sì, ma veggente, se così si può dire, armata, poiché è suo compito anche quello, da rendere il più possibile concreto, di affrontare «il drago notturno, per liberare la città atterrita». Sono pochi i poeti che, nei turbamenti e nelle tempeste del Novecento, hanno osato chiedere così tanto alla poesia: un’ambizione smisurata, che La Storia reitera reinventando il grande romanzo dell’Ottocento, e che non poteva non andare incontro alla dichiarazione di sconfitta, già cento volte intuita, narrata più tardi in Aracoeli.
Poiché «fuori del Limbo non v’è Eliso». La Nota introduttiva alla prima edizione economica del libro, nel 1971, è assolutamente chiara nella definizione del progetto morantiano di poesia come politica e come religione. Pochi scrittori hanno osato assumersi un compito così arduo, scomodo e pesante, e pochi hanno chiesto così tanto alla poesia. Quando l’hanno fatto è stato in epoche di massima trasformazione, in epoche rivoluzionarie, quando lo scontro con il potere è stato più grave. E potremmo, di conseguenza e senza forzar troppo, considerare Il mondo salvato dai ragazzini come il documento più alto del ’68 e dei suoi dintorni – insieme a Lettera a una professoressa dei ragazzi di Barbiana e forse a Contro l’università di Guido Viale. Però con una profondità più radicale e in una luce assai più intensa, poiché la Morante sapeva vedere più indietro e più avanti; sapeva vedere oltre senza rinunciare a una leggibile precisione, a riferimenti comprensibili, senza mai dimenticare che bisogna parlare a tutti, ai ragazzini come alle professoresse, e soprattutto agli «analfabeti» della bellissima citazione da César Vallejo «por el analfabete a quien escribo», che apre La Storia e che chiude, annunciando quella fatica, la prefazione del ’71 al Mondo salvato dai ragazzini.
Questi due libri, che andrebbero letti insieme al saggio Pro o contro la bomba atomica, sono bensì libri di speranza e non di disperazione, di apertura e non di chiusura, ed è forse per questo, per il radicamento nel proprio tempo, per il dialogo forte col proprio tempo e per la scelta di lettori non abituali – gli studenti, «gli analfabeti» – che essi hanno faticato a venire accettati, non dai lettori – pochi per il primo, tanti per il secondo – ma dagli «alfabetizzati» per definizione: gli intellettuali letterati e critici e artisti suoi contemporanei (con le debite eccezioni in coloro che sapevano capire, e cioè nei grandi poeti dalle visioni più larghe: c ’è stato infatti un tempo, ancora molto vicino a noi ma che oggi ci appare lontanissimo, in cui c’era ancora chi sapeva ascoltare per tradurla nella nostra povera lingua la felliniana -leopardiana – «voce della luna»).

Forse il rapporto da indagare con più attenzione, se qualcuno vorrà mai farlo, è quello tra Elsa e Pasolini, amici-e-lontani perché al tempo della rivolta dei «ragazzini» fu assai diverso il loro modo di reagire alla novità che quei ragazzini portavano. E se ognuno deve qualcosa all’altro, è pur vero che tra il «pazzariello» ideale della Morante e il «pazzariello» ideale di Pasolini la distanza è assai grande. Dietro quello morantiano c’è pur sempre l’Arthur/Arturo/Artù dell’Isola e c’è la sconfitta del suo sogno di avventura liberatoria o semplicemente di un’età adulta da «eroe» in grado di controllare il proprio destino che, nel Mondo, è quella di Edipo, folgorato dalla conoscenza e dalla sofferenza che ne consegue e che sarà più tardi quella, ancor più cupa, di Aracoeli. Dietro il «pazzariello» pasoliniano (che nei film, e si pensa soprattutto all’episodio più ardito ed esemplare, quello del Fiore di carta, ha i tratti di Ninetto Davoli) c’è una materialità che contrappone alla Storia la Natura, la cui spontanea bellezza è uccisa dalla concretezza di una trasformazione economica e di un’evoluzione sociale piuttosto che dal metafisico cozzo dell’esperienza con la vita, dalla comprensione dell’inguaribile povertà della propria condizione-dell’umana condizione. (…)
C ’è un breve testo postumo di Elsa Morante che risale agli anni in cui il movimento dei «ragazzini» andava perdendosi in interne diatribe e nel ritorno a una visione della politica di stampo partitico e leninista, verticistico e autoritario, ancora una volta ragionando soltanto in funzione della «presa del potere». È il Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe né partito), che sembra una spiegazione o un’aggiunta didascalica ai temi più immediati del Mondo: la rivoluzione è una«assoluta necessità», ma il suo compito è «liberare tutti gli uomini dal Potere affinché il loro spirito sia libero». L’esercizio del potere è un vizio degradante, un vizio che rende ciechi alla realtà: questa la persuasione che avrebbe dovuto fare della rivolta dei ragazzini una svolta, mentre così non è stato. È per ricordarlo un’ultima volta, che Elsa ha scritto La Storia, un romanzo dal titolo così ambizioso, e tuttavia così leggibile, accessibile, il cui scopo è mettere in guardia da quanto la Storia da sempre riserva agli umani, poiché padroni ne diventano coloro che ambiscono al Potere e fanno di tutto per averlo. Se anche ¡giovani, se anche il ’68 rischiano di lasciarsi trascinare da questa abituale deriva, il romanzo La Storia sarà per Elsa l’ultimo appello, l’ultimo memento. (…)
Quando Elsa scrive Aracoeli, la sua speranza nell’anti-potere della poesia come religione e politica, come filosofia, è ormai morta: ciò che aveva temuto è accaduto, anche da quest’ultimo scontro con il drago dell’irrealtà ella è uscita sconfitta. Come i suoi amati Felici Pochi, nel cui elenco noi possiamo includerla senza paura di sbagliare. E il problema non è la sua sconfitta, ma quella, ancora una volta, del mondo.

Fonte:  La Repubblica 14 luglio 2012


Vedi pure: 


Lettera di Roberto Scarpinato a Paolo Borsellino



Pubblichiamo il testo del documento letto pubblicamente dal Procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato,  in occasione del  ventennale in via D'Amelio. Per queste parole il Csm ha aperto un'azione disciplinare contro il magistrato.


Caro Paolo,
oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.

E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.

Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza.

Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.

Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.

Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti.

Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.

Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti:

“Lo Stato non si presenta con la faccia pulita... Che cosa si è fatto per dare allo Stato... una immagine credibile?... La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.

E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti:

“No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle Forze dell’Ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”

E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.

Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato.

Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari.

Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso.

Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “Lo Stato siamo noi”.

Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri.

Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.

Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande.

Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori.

Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.

Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Parlando di Giovanni dicesti: “perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato...

Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.

Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.

Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “…la morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.

Missione doppiamente compiuta, Paolo.

Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso.

E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.

E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava - come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime - che tutto fosse ormai finito.

Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita.

Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.

Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.

Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.

E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.

Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.

Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi.

Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suo rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.

Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico.

Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.

Si racconta che la mafia è costituta solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano.

Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni.

Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.

E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti.

E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.

Per questo dicesti a tua moglie Agnese:

“Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”.

Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza.

E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.

Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.

Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura.

Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati.

Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne.

Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.

Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo.

Sanno che riusciremo a scoprire la verità.

Sanno che uno di questi giorni alla porta dei loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte.

E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.

Roberto Scarpinato

Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/scarpinato-caro-borsellino-hanno-paura-perche-la-verita-e-vicina/

28 luglio 2012

Giorgio Piovano: poema di noi.



Sottopongo alla vostra attenzione  alcuni versi di Giorgio Piovano (1920-2008) . Mi sembra  straordinaria   la capacità mostrata dall’autore di trasformare in poesia la vita  di milioni di uomini  cancellati e dimenticati dalla storia.

Proemio

Questo è il poema degli uomini senza storia
Che alle cerimonie fanno sempre  la parte del pubblico
E vengono a galla solo quando si compilano
Le statistiche dei cataclismi :
il poema degli uomini che non hanno mai
avuto una bandiera
e si sono sempre trovati
accodati a quelle degli altri.
Questo è un poema anonimo e materiale
Fatto solo di cose usuali
E di facce senza niente di speciale;
poema cosi povero e rozzo
che per spiegarsi non ha
se non parole di tutti i giorni
e di tutto il campionario
delle gioie e dei dolori
che la Vita mette in vetrina
sa commuoversi solo di quelli
che si possono chiamare
con nome e cognome.

E questo è il suo proemio
messo avanti per avvertire
le schive Anime Nobili
che qui non è aria per loro.
[...]
 

Ultimo  canto
[...]
Io non sono che uno
della mia generazione, uno dei tanti che si credevano i soli
ad avere una storia.
Ma ora so

che un po’ tutti possiamo parlare
della casa della nostra infanzia
dei terrori davanti la porta socchiusa
del corridoio deserto,
del gioco dei pellerosse nei prati
vicino al gasometro, dopo scuola,
delle principesse rapite dai corsari,
di nostro padre che rantolava
nel letto su una montagna di cuscini,
e del vento notturno alle finestre della nostra stanza,
il vento nato sugli altipiani
tremila miglia lontano...

Fummo in molti che lungo le mura
solitarie delle antiche città
erravano viandanti inquieti
tormentandosi per la gloria.
Fummo in molti che accanto a una donna
ci affacciammo alle balaustre
dove splende la curva
del pianeta e s’inseguono
per stellari praterie
eternamente giovani
le comete scintillanti.

E fummo in molti a conoscere
la sapienza dei libri
i cieli d’ardesia sulle città
e il sapore acre del cloroformio,
gli andirivieni dei parenti
davanti alle sale d’operazione
e la guerra, il sangue rappreso nei fossi,
il rombo dei quadrimotori
i lampi dell’artiglieria nella notte
e il vecchio abbattuto sotto i ciliegi
che incarogniva nero
nella gramigna tra milioni di mosche  
[...].
La mia storia è la storia di tutti
e la vostra è la mia.
Ascoltate come nel mondo 
più incalzanti che nel filo
 del telegrafo le linee e i punti
brusiscono i pensieri
di miliardi d'uomini.
[...]
Quanto ancora dovrà salire
l'amaro nella gola degli uomini
che contemplano nel riquadro
dell'inferriata le stelle
della loro ultima notte?
[...]
Io non ho che la mia vita
e la sapienza dei libri.
Io non sono che un cieco
sulla riva del mare
investito dall'uragano
che gli mulina intorno, lontane e vicine
le voci dei naufraghi che chiedono aiuto.

Giorgio Piovano, Poema di noi, Effigie edizioni,Milano 2007.


Sulla storia delle Olimpiadi



Oggi  sottopongo alla vostra attenzione un bel pezzo di Antonio Sparzani
Pubblicato in  http://www.nazioneindiana.com/
Olimpiadi, vecchia storia
A Olimpia sorgeva uno straordinario tempio di Zeus, contenente una statua in oro e avorio del padre degli dèi, opera di Fidia, una delle sette meraviglie del mondo antico.
A Olimpia per la prima volta si svolsero delle gare – forse potremmo dire tranquillamente delle feste – in quello che noi ora indichiamo come l’anno 776 prima di Cristo. Da allora le gare e i festeggiamenti crebbero sempre più, fino a diventare l’avvenimento periodico più importante di tutta l’Ellade, tanto da essere detti semplicemente Olimpiadi e da costituire da allora in poi il metodo di datazione degli avvenimenti del mondo antico sotto influenza greco-romana.
Lo stabilirsi del rito delle Olimpiadi fu un processo lungo, dapprima con valore solo locale; poi, un po’ alla volta, perfino i Greci, litigiosi com’erano, riuscirono a trovare un accordo: le Olimpiadi divennero un patrimonio di vita e di cultura comuni; in quei giorni si conveniva di sospendere qualsiasi eventuale attività bellica, soprattutto per salvaguardare e proteggere quegli atleti che dovevano recarsi a Olimpia, attraversando eventualmente regioni nemiche, per altri dettagli, ed “eccezioni alla regola”, guardate qui.
E così, a partire circa dalla metà del VI secolo a.C., si instaurarono scadenze abbastanza stabili: ogni quattro anni – al plenilunio di agosto – si svolgevano a Olimpia i giochi più importanti, in onore di Zeus. A partire da quella prima volta si conservò traccia scritta degli elenchi dei vincitori nelle varie gare, e gli anni si designarono indicando il numero dell’Olimpiade immediatamente precedente e indicando poi “in che anno si era di quell’Olimpiade”, intendendo così, dato che nell’aritmetica greca il numero zero non trovava posto, che, ad esempio, “l’anno 1 dell’Olimpiade II” era il 772, cioè l’anno stesso in cui si era svolta appunto l’Olimpiade seconda e invece “l’anno 4 dell’Olimpiade II” era il 769 – che noi indicheremmo con “tre anni dopo”: ci potrà anche sembrare strano, ma è del tutto coerente con il loro modo di contare come 1, e non come 0, l’anno stesso dell’Olimpiade. Per questo motivo i Greci dicevano che ogni Olimpiade si svolgeva nell’anno 5 della precedente e alludevano a questa periodicità con la parola pentaetērikói che vale il latino quinquennales.
Le altre feste si svolgevano con questo schema (per notizie più dettagliate si veda qui): ogni quattro anni, ma spostati di due anni rispetto ai giochi di Olimpia (ovvero nell’anno 3 di ogni Olimpiade) si svolgevano a Delfi, in onore di Apollo i giochi Pitici; ogni due anni, nell’anno 2 e nell’anno 4 di ogni Olimpiade, si tenevano poi, in mesi diversi, a Corinto in onore di Poseidone i giochi Istmici, e a Nemea, in Argolide, in onore di Zeus i giochi Nemei. In qualche modo, ogni anno c’erano gare e feste.
I Giochi persero gradualmente importanza con l’aumentare del potere romano in Grecia: all’inizio furono mantenuti e aperti anche a Romani, Fenici, Galli e altri popoli sottomessi (Nerone, ad esempio, aprì un’enorme edizione dei giochi a Roma in cui tutti gli atleti dell’Impero Romano poterono partecipare, lui compreso). Ma ecco il colpo di grazia: il Cristianesimo divenne religione di stato, con l’immediata conseguenza che i Giochi olimpici vennero visti come una festa “pagana”, così che nel 393 d.C., l’imperatore Teodosio I, assieme al Vescovo di Milano Ambrogio, li vietò, ponendo fine a una storia durata oltre mille anni. Per gli appassionati di calcoli storici, dirò che, visto che il numero 776 è divisibile per 4 (e dà 194) la 194-esima olimpiade si svolse nell’anno 4 a.C. e la successiva ― siccome l’anno zero non è mai esistito nei conteggi degli storici, ma solo in quelli degli astronomi ― si è svolta nell’anno 1 d.C., così che l’anno 393 era un anno olimpico dato che 393-1=392 che, diviso per 4 fornisce 98. Così che nel 393 si sarebbe dovuta celebrare la 293-esima olimpiade (195+98=293).
Le Olimpiadi moderne sono ricominciate nel 1896 ad Atene, per iniziativa di Pierre De Coubertin.
Pindaro (518 – 438 a.C.) visse nel grande periodo di ascesa dello splendore di Atene, vide e cantò le vittorie sui Persiani, assistette alle più gloriose Olimpiadi e morì dieci anni prima dell’infausta morte di Pericle, che segnò l’inizio dei guai per la democrazia ateniese. Della sua immensa produzione ci rimangono quasi soltanto gli epinici, cioè appunto i canti per celebrare la vittoria di un atleta. I suoi epinici si dividono quindi in Olimpiche, Pitiche, Istmiche e Nemee. Vi incollo qui la prima pagina col testo a fronte della I Olimpica, scritta per celebrare la vittoria, nell’Olimpiade LXXVI (dunque nel 476 a.C.), di Hieron di Siracusa con il corsiero.
Allora le Olimpiadi andavano così. Onore e gloria grandi ai vincitori, Pindaro cantava per loro, tutta la Grecia era in festa e, quasi sempre, si smetteva di combattere. Allora.



[edizione Garzanti, Milano 1981, traduzione e lettura critica di Luigi Lehnus; una traduzione italiana del testo di tutte le odi olimpiche è disponibile in rete qui.]

Antonio Sparzani  27 luglio 2012  in http://www.nazioneindiana.com/