28 febbraio 2019

GRAMSCI NEL TEMPO DELLA FRATTURA TRA ELITE E POPOLO



       Sulla rivista DIALOGHI MEDITERRANEI  oggi è stato pubblicato un mio articolo: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/gramsci-nel-tempo-della-frattura-tra-elites-e-popolo/#more-23086
       Di seguito potete leggerne un brano:




Gramsci nel tempo della frattura tra élites e popolo
di Francesco Virga
                                                                     

  «In Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo
e sono legati a una tradizione di casta» (Gramsci)


[...]


      Elites e popolo, Intellettuali e semplici, dirigenti e diretti

In un articolo dell’agosto 1918, pubblicato su Il Grido del Popolo, Gramsci anticipa concetti che riprenderà negli anni successivi:

« L’educazione, la cultura, l’organizzazione diffusa del sapere e dell’esperienza, è l’indipendenza delle masse dagli intellettuali. La fase più intelligente della lotta contro il dispotismo degli intellettuali di carriera e delle competenze per diritto divino, è costituita dall’opera per intensificare la cultura, per approfondire la consapevolezza. E quest’opera non si può rimandare a domani, a quando saremo liberi politicamente. E’ essa stessa libertà , è essa stessa stimolo all’azione e condizione dell’azione. [1]
La rivista creata l’anno successivo a Torino, L’ ORDINE NUOVO. Rassegna settimanale di cultura socialista [2], doveva servire proprio a questo: educare, fornire agli operai torinesi un mezzo per liberarsi dal «dispotismo degli intellettuali di carriera». Ecco perché nel gennaio del 1920 si difende con passione dall’accusa di avere pubblicato articoli ‘difficili’:
«Purtroppo gli operai e i contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere guidati dappertutto, in fabbrica e sul campo, dal pugno di ferro del padrone che li stringe alla nuca, nella vita politica dalla parola roboante e melliflua dei demagoghi incantatori. Nel campo della cultura poi, operai e contadini sono stati e sono ancora considerati dai più come una massa di negri che si può facilmente accontentare con della paccottiglia, con delle perle false e con dei fondi di bicchiere, riserbando agli eletti i diamanti e le altre merci di valore. Non v’è nulla di più inumano e antisocialista di questa concezione. Se vi è nel mondo qualcosa che ha un valore per sé, tutti sono degni e capaci di goderne. Non vi sono né due verità, né due diversi modi di discutere. Non vi è nessun motivo per cui un lavoratore debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi più di una chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro poeta “popolare”, una sinfonia di Beethoven più di una canzone di Piedigrotta. E non vi è nessun motivo per cui, rivolgendosi a operai e contadini, trattando i problemi che li riguardano così da vicino come quelli dell’organizzazione della loro comunità, si debba usare un tono minore, diverso da quello che a siffatti problemi si conviene. Volete che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un uomo, e il più grande passo in avanti sarà già fatto». [3]
Nei brani sopra citati si trovano in nuce, insieme alla sua idea di partito come intellettuale collettivo, l’analisi critica compiuta in carcere, tra il 1929 e il 1935, sul ruolo svolto dagli intellettuali nella storia nazionale. Ad una società che ha fatto degli intellettuali una ‘casta’, Gramsci contrappone il progetto di una società, senza caste e senza classi, in cui tutti possano diventare intellettuali. In una pagina dei Quaderni Gramsci è particolarmente chiaro al riguardo:
«Bisogna proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose più elementari […] Primo elemento è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto […] Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti, oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? Cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico rispondente a certe condizioni? […] per certi partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando non esistono più, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente inutile. Così, poiché ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare le divisioni in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere più.” (Q. pp.1752-3)
 E’ un brano questo in cui Gramsci utilizza magistralmente la coppia dialettica realtà/possibilità per spiegare dove vuole arrivare: da un lato riconosce la realtà effettuale delle cose – il genere umano è diviso, esistono realmente dirigenti e diretti – ma insieme mostra la possibilità di cambiare questo stato di cose. Non a caso, in un’altra nota dei Quaderni scrive: ‘Occorre violentemente attirare l’attenzione sul presente così com’è, se si vuole trasformarlo’
Il realismo rivoluzionario di Gramsci è sostenuto anche da un altro principio della sua ‘filosofia della praxis’. Questo si trova chiaramente espresso in una famosa nota dei Quaderni in cui si afferma che tutti gli uomini sono potenzialmente filosofi:
 « Occorre distruggere il pregiudizio che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è una attività propria di una determinata categoria di scienziati, dei filosofi professionali o sistematici. Occorrerà pertanto dimostrare che tutti gli uomini sono filosofi, definendo i limiti e i caratteri di questa filosofia [«spontanea»] di «tutto il mondo», cioè il senso comune e la religione. Dimostrato che tutti sono filosofi, a loro modo, che non esiste uomo normale e sano intellettualmente, il quale non partecipi di una determinata concezione del mondo, sia pure inconsapevolmente, perché ogni «linguaggio» è una filosofia, si passa al secondo momento, al momento della critica e della consapevolezza. È preferibile «pensare» senza averne consapevolezza, in modo disgregato e occasionale, è preferibile «partecipare» a una concezione del mondo «imposta» dal di fuori, da un gruppo sociale (che può andare dal proprio villaggio alla propria provincia, che può avere l’origine nel proprio curato o nel vecchione patriarcale la cui «saggezza» detta legge, nella donnetta che costruisce delle stregonerie o nel piccolo intellettuale inacidito dalla propria stupidaggine e impotenza a operare) o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e in connessione con tale lavorio del proprio intelletto scegliere il proprio mondo di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia universale? »[4]
Ma torniamo a parlare della casta degli intellettuali. Gramsci è stato spietato con loro.[5] La storia nazionale mostra che sono stati sempre lontani dal popolo, «più legati ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano» (Q, p.2116). Questo perché la cultura in Italia, come aveva già notato Francesco De Sanctis, ha avuto una tradizione libresca ed astratta:
«E’ da notare come in Italia il concetto di cultura sia prettamente libresco: i giornali letterari si occupano di libri e di chi scrive libri. Articoli di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di pensare, sui segni del tempo, sulle modificazioni che avvengono nei costumi, ecc. non se ne leggono mai. […]. Manca l’interesse per l’uomo vivente e per la vita vissuta. […] . E’ un altro segno del distacco degli intellettuali  italiani dalla realtà popolare-nazionale»  [6]
La casta degli intellettuali, naturalmente, non ha gradito il trattamento ricevuto ed ha reagito di conseguenza. Le accuse contraddittorie di “idealismo”, di “populismo”, di “utopismo” e di “totalitarismo”, rivolte a Gramsci, prive di qualsiasi fondamento, sono in gran parte frutto del risentimento della casta. Come ha ben visto Eric Hobsbawm nell’opera del sardo non c’è posto per alcun “ismo”. Per Gramsci la cultura, se vuole essere autentica e vitale, deve “rimanere a contatto coi ‘semplici’ e anzi in questo contatto trova la sorgente dei problemi da studiare e risolvere” (Q, p.1382). Credo che abbia visto giusto Tullio De Mauro quando ha scritto che nell’usare la parola cultura Gramsci si distacca consapevolmente dall’uso dominante in Italia. [7]
Conclusione
                     Nei suoi Quaderni Gramsci, oltre a prendere nettamente le distanze dal materialismo volgare e dall’interpretazione economicistica e deterministica del pensiero di Marx, afferma decisamente la necessità di liberarsi dalla «prigione delle ideologie» nel senso deteriore di «cieco fanatismo ideologico» ricordando un principio elementare del metodo scientifico che tanti hanno dimenticato:
                « Non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c’è un imputato e un procuratore che, per obbligo d’ufficio deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia la ricerca della verità[…], si dimostra più avanzato chi si pone dal punto di vista che l’avversario può esprimere un’esigenza che deve essere incorporata nella propria costruzione. Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversari significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie ( nel senso deteriore di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista critico».[8]
Giorgio Baratta è stato uno dei primi a cogliere il  carattere socratico e dialogico del pensiero di Gramsci. In uno dei suoi ultimi libri ha utilizzato una metafora musicale per riassumere quello che ha appreso dal suo attento studio: «“Tutti gli uomini sono filosofi” è la linea di base, il basso continuo nella polifonia dei Quaderni. Ma allora , tutti gli umani sono in contrappunto con gli altri, le altre, perché la filosofia è un abito logico-dialogico, relazionale, uno strumento di unificazione attraverso le differenze di lingue e linguaggi in cui gli uomini parlano, anche quando si ignorano, o sono ignoranti, com’era Socrate, che la città ha messo a morte».[9]
Una delle ragioni che spiega la straordinaria capacità mostrata da Gramsci di resistere al logorio del tempo e di riuscire ancora a illuminare il presente è dovuto alla sua grande apertura mentale e al suo approccio storico e non dogmatico ai problemi. Quando nei suoi Quaderni  scrive della necessità di liberarsi dalla ‘prigione delle ideologie’ , Gramsci sa di cosa parla. Infatti mostra di avere ben compreso il senso della critica marxiana ad ogni forma di sapere ideologico, inteso esattamente come forma di falsa coscienza, malgrado ai suoi tempi non fosse ancora nota L’ideologia tedesca di K. Marx .
Il nostro presente rischia di passare alla storia come l’epoca del tramonto delle “ideologie”. Eppure, secondo me, nel corso della storia non c’è stato un tempo più “ideologico” di questo. Dopo il 1989, a seguito del crollo del muro di Berlino e della successiva implosione dell’URSS, la casta odierna degli intellettuali ha trasformato il presente nel tempo più ideologico che il genere umano abbia mai conosciuto. Le favole, tra le altre cose, insegnano che una cosa tanto più invisibile è, tanto più reale può apparire. Ma il gioco funziona fino ad un certo punto. Che l’imperatore ed ogni forma di potere siano nudi, oggi possono vederlo tutti. E la storia che si dava per finita – una delle peggiori ideologie del nostro tempo – non è finita affatto. La storia continua.
Francesco Virga                                                                                              Gennaio 2019




[1]  SG, p. 301. Concetti simili li aveva già espressi negli anni precedenti; basta ricordare l’articolo del dicembre 1916 in cui criticava la politica culturale delle Università Popolari. Ivi pp 61-64
[2]  La rivista si trasformerà in Quotidiano il 1 gennaio del 1921, anticipando di qualche settimana la nascita del PcdI. Da quel momento diventerà uno degli organi del nuovo partito e perderà gran parte del suo carattere culturale.
[3] A. Gramsci, L’ Ordine Nuovo.1919 – 1920, Einaudi 1955, pp.469-470. E qualche mese prima,  nella stessa rivista, aveva scritto: « No, il comunismo non oscurerà la bellezza e la grazia: bisogna comprendere lo slancio con cui gli operai si sentono portati alla contemplazione dell'arte, alla creazione dell'arte, come profondamente si sentono offesi nella loro umanità per il fatto che la schiavitú del salario e del lavoro li taglia fuori da un mondo che integra la vita dell'uomo, che la rende degna di essere vissuta. Lo sforzo che i comunisti russi hanno fatto per moltiplicare le scuole e i teatri di prosa e di musica, per rendere accessibili alle folle le gallerie; il fatto che i villaggi e le fabbriche che si distinguono nella produzione vengono premiati con l'assegnazione di godimenti culturali ed estetici, dimostrano come il proletariato arrivato al potere tende a instaurare il regno della bellezza e della grazia, tende a elevare la dignità e la libertà dei creatori di bellezza» (Ivi, p. 444)
[4] Q, pp.1375-1376.
[5] Per ragioni di spazio non posso qui ricordare le pagine sferzanti che Gramsci nei Quaderni dedica al lorianismo, ai nipotini di Padre Bresciani e alle tante mosche cocchiere di cui è ancora pieno il mondo d’oggi.
[6]  Ivi, pp. 706-708. In questa pagina dei Quaderni sento risuonare le parole del De Sanctis: Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci è vita nostra e lavoro nostro.
[7] Tullio De Mauro, Una certa concezione della cultura, in AA.VV, Tornare a Gramsci, op. cit. p. 117.
[8] Q, p. 1263.
[9] G. Baratta, Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Carocci 2007, p. 11. Dello stesso autore si raccomanda la lettura del suo studio precedente: Le rose e i quaderni. Il pensiero dialogico di Antonio Gramsci, Carocci 2003. 


Questo è il link del sito dove potete leggere integralmente l'articolo: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/gramsci-nel-tempo-della-frattura-tra-elites-e-popolo/#more-23086

LIBRI CHE NON INVECCHIANO MAI





I poemi omerici restano alla base dell'immaginario dell'Occidente. Lo dimostra l'ininterrotto apparire di studi, filologici, storici e scientifici. Un articolo del Corriere ne passa in rassegna alcuni fra i più interessanti.
Sandro Modeo
Darwin combatteva a Troia


Il mondo tardo-miceneo dell’Iliade torna ora con diverse proposte editoriali italiane, tra cui spicca una nuova traduzione di Franco Ferrari (Mondadori): un nuovo corpo a corpo con l’esametro dattilico in cui si è depositato, alla metà dell’VIII secolo avanti Cristo, un plurisecolare flusso di narrazioni orali.

Può essere l’occasione per accostarsi a quel mondo — nello stesso tempo a noi alieno come il frammento storico di una Terra extrasolare e prossimo, anzi intimo, come pochi altri per le tante domande che continua a insinuare — in una prospettiva meno battuta: quella delle scienze naturali, cioè di discipline — dalla biologia evoluzionistica alla neuropsicologia — che negli ultimi anni e decenni hanno letto i poemi omerici (in particolare proprio l’Iliade) per integrare, non per contrastare, le acquisizioni in campo umanistico. Il tutto cercando di far confluire, senza confonderle, filologia e fisiologia, critica letteraria e bio-antropologia.

Un buon avvio, in quest’ottica, può essere la lettura della nuova, densa sintesi dell’archeologo Eric H. Cline (La guerra di Troia, Hoepli). Ricordando il lungo apogeo (1700-1200 a.C.) delle due forze in campo (Micenei e Ittiti, dei quali i Troiani erano vassalli nella stessa area anatolica, oggi turca), Cline ne individua il simultaneo declino-collasso — tra XIII e XII secolo — in un incrocio di cause geologiche (i sismi, entro una crisi climatica globale), conseguente tracollo socio-economico e spostamenti migratori (la data-spartiacque simbolica è il 1177 a.C., anno dell’invasione dei cosiddetti Popoli del Mare). Contesto in cui si conterebbero almeno tre-quattro conflitti tra Micenei e Ittiti/Troiani (un tempo partner commerciali): al punto che il poema, più che riferirsi a una guerra specifica (magari all’assedio della Troia cosiddetta VIIa, successiva alla VIh, distrutta dal terremoto), sembrerebbe «condensarne» diverse. Così come condensa tratti e riferimenti dell’Età del Bronzo (guerrieri con una lunga lancia singola, lo scudo «a torre» di un Aiace) con quelli dell’Età del Ferro, epoca delle prime redazioni (guerrieri con due lance, lo scudo di Achille con la Gorgone).
È un’ottica che muta la guerra omerica da «evento» a «processo», a conferma di una trasmissione orale (dimostrata a partire dagli studi di Milman Parry sui cantori jugoslavi) stratificata almeno quanto le Ilio archeologiche e culminata nelle versioni dei rapsodi di Chio, probabile luogo nativo di «Omero»; e quindi del fatto che il poema sia una concentrazione-trasfigurazione (a lungo strutturata e aperta, tra il canone dei formulari e le infinite variazioni) di un paesaggio storico-sociale in divenire.

Tutt’altro che secondario è l’inciso di Cline sul «versante ittita» della guerra, con la simmetria lessicale (Wilusa/Wilusiya per Troia/Ilio; Alaksandu per Alessandro/Paride; gli Ahhiyawa per gli Achei/Micenei) che può diventare ancora più avvincente col profilarsi di una possibile Wilusiade. Tra le tavolette ritrovate dagli archeologi tedeschi a Hattusha (capitale ittita a 200 chilometri dall’odierna Ankara) ce ne sono infatti alcune in luvio, antico dialetto anatolico, contenenti due «versi» di un ipotetico contro-poema, in cui il riferimento alla «ripida Wilusa» richiama la «ripida Ilio». È una specularità minima, molecolare; ma lo studio delle tavolette è solo agli inizi.
La risalita all’inizio della dark age greca — al declino-collasso del mondo miceneo — è la base da cui parte The Rape of Troy, testo originale e provocatorio di Jonathan Gottschall (studioso di letteratura in chiave darwiniana), in cui l’attenzione all’incidenza del contesto storico-sociale si allarga a quella per le invarianze bio-antropologiche (ai tratti stabili della «natura umana»).
L’opprimente aura di «competizione ossessiva» (il «conflitto permanente») del poema viene infatti ricondotta a una società in decadenza (villaggi spopolati, assenza di legalità, crisi produttiva e commerciale) in cui la guerra intesa come conquista di risorse è una necessità quotidiana. Ma tutto questo è acuito — è uno dei passaggi più innovativi del libro — dalla carenza di giovani donne, dovuta alla diffusa poliginia (vedi le 28 schiave offerte da Agamennone ad Achille come compenso per la sottrazione di Briseide) e alla morte precoce, per abbandono o denutrizione, della prole femminile, non funzionale a una società così militarizzata.
Non a caso, i poemi omerici sono incentrati affettivamente quasi solo su rapporti padri-figli: nell’Ade, l’ombra di Agamennone, parlando a Odisseo, rimpiange il figlio e dimentica le tre figlie. L’implicazione primaria è evidente: per quanto la guerra dipenda dalle citate ragioni socio-economiche (in particolare il controllo dell’Ellesponto come passaggio-chiave dal Mediterraneo al Mar Nero) e per quanto ogni guerriero combatta per molte altre ragioni (status, prestigio, fama, bottino, addiction paradossale dalla guerra stessa), nell’Iliade le donne sono un obiettivo «in sé», come ratifica Achille (che passa «giornate sanguinose» «a lottare coi nemici per catturarne le compagne», IX, 326-7); e Briseide ed Elena, in questo senso, diventano ben più che casus belli poetici.

Per dare un’idea del peso e della forza archetipica di questa componente adattativo-riproduttiva nel «muovere» il conflitto, Gottschall ne paragona l’epilogo (il sacco-ratto cui allude il titolo del libro, con uomini massacrati e donne schiavizzate) a quello di Nanchino del 1937-38, in Cina, quando l’esercito imperiale nipponico stermina migliaia di maschi e sequestra tra le 20 e le 80 mila donne. In coerenza con la prospettiva darwiniana della sua lettura, Gottschall non poteva non soffermarsi anche sul lessico dell’Iliade, specie sul mix di freddezza e vividezza anatomo-fisiologica che registra il supplizio dei corpi nelle tante sequenze splatter. Lessico cui era stato sensibile, prima di lui, un altro studioso, lo psicologo sperimentale Julian Jaynes, tanto da dedicarvi un capitolo del suo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (longseller Adelphi).
La teoria portante del libro è a dir poco eterodossa, dato che riconduce la genesi della coscienza nel cervello del Sapiens al dissolversi di quel diaframma tra i due emisferi (razional-linguistico e irrazional-trascendente) ancora presente nei personaggi dell’Iliade, tormentati dagli dèi come certi psicotici lo sono dalle «voci» o dalle «allucinazioni». Eppure — oltre a ricordare, in questo modo, la matrice onirico-visionaria del «realismo» omerico — Jaynes svolge due messe a fuoco interessanti.

Per mostrare nel poema l’assenza di una visione «dualistica» in chiave platonica (mente versus corpo), legge molti termini-chiave dell’Iliade in senso strettamente fisiologico: psyché, ad esempio, non è ancora l’«anima», ma indica solo sostanze vitali come il sangue o funzioni come il respiro (spesso esalato dal guerriero al momento della morte); e il thymós non è ancora l’«anima emotiva» ma solo il «movimento» o l’«agitazione» corporea. Non tutti concordano: lo storico della filosofia Anthony A. Long vede in quei termini, più compiutamente, versanti plastici di un’unità funzionale e nelle figure omeriche «identità psicosomatiche»: thymós — secondo i contesti — vale già anche come «carattere» o «animo». Ma anche accettando questa correzione, Jaynes, nella sostanza, ha ragione: nel senso che quelle identità — pur dotate di mente e coscienza nel modo più compiuto, senza che sia necessario alcuno «scarto» dualistico — sembrano muoversi in un mondo di gradazioni di materia, dalle più intense alle più tenui (o, al limite, di materia e astrazione insieme).

Basta rileggere, al riguardo, la discesa di Odisseo all’Ade, con la madre e le altre «anime» («ombre» o «sogni» i cui «nervi» non congiungono più ossa e carne) che prima di parlare all’eroe bevono il «sangue fumante» delle bestie sacrificate. In più, per negare ai personaggi il libero arbitrio, che solo una «coscienza» presuppone, Jaynes li presenta come semplici automi degli dèi-burattinai. Anche qui, legittimamente, non tutti concordano: la filosofa bulgaro-francese di origine ebrea Rachel Bespaloff (di cui sempre Adelphi ha riproposto i densi micro-saggi sull’Iliade) pensa che «un margine di libertà» resti, anche solo per garantire agli dèi capricciosi e annoiati uno spettacolo «non preordinato». Ma, anche qui, Jaynes centra il punto: il «piano di Zeus» annunciato nell’incipit del poema si realizza in pieno; e le «identità» omeriche — pur vivendo con angoscia la soggezione al Fato e al ferreo determinismo divino — non sono in grado di ribellarsi in maniera frontale: per quello, ci vorranno — oltre due secoli dopo — le figure dei Tragici, da Prometeo ad Antigone.

Alla fine, le «identità psicosomatiche» del poema (ma in fondo anche gli dèi, immortali ma a loro volta sopraffatti dal páthos: libidine e furia, astio e vendetta) sembrano più che altro in lotta con le loro radici bio-evolutive, «animali tra altri animali», come rimarca il vasto ventaglio di similitudini che li assimila a sparvieri e colombe, aquile e serpi. Intitolando il suo studio sul tema Tra uomini e leoni, il classicista Michael Clarke si riferisce alla natura «ferina» di Achille, dominato dalla mênis, (l’«ira»). Eppure anche Achille, nell’abbraccio finale con Priamo che reclama il cadavere di Ettore — chiusura circolare del poema, in rimando alla richiesta iniziale dell’anziano Crise per il riscatto della figlia — è un carattere mutato. Sembra ricordare a tutti noi la tensione tra i vincoli della nostra animalità e le aspirazioni della nostra umanità. Ed è proprio questo uno dei bagliori, forse il più intenso, che continuano a rilucere dal «mondo buio» (Nietzsche) della civiltà greca arcaica.
Il Corriere della sera/ La Lettura – 24 febbraio 2019

COME AGIRE OGGI?


ph fernando famiani





Franco Fortini, Sonetto dei sette cinesi

Una volta il poeta di Augsburg ebbe a dire
che alla parete della stanza aveva appeso
l’Uomo del Dubbio, una stampa cinese.
L’immagine chiedeva: come agire?

Ho una foto alla parete. Vent’anni fa
nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi.
Guardano diffidenti o ironici o sospesi.
Sanno che non scrivo per loro. Io

so che non sono vissuti per me.
Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha chiesto
più candide parole o atti più credibili.

A loro chiedo aiuto perché siano visibili
contraddizioni e identità fra noi.
Se un senso esiste, è questo.

Da L’ospite ingrato secondo (1985)