30 maggio 2015

W. SZYMBORSKA, Ti ringrazio, cuore mio


ANTONINO DI SCLAFANI: IL CONTADINO POETA-FILOSOFO DI MARINEO



      In questo blog avevamo già segnalato la saggezza e lo spirito creativo di Nino Di Sclafani (Cfr.http://cesim-marineo.blogspot.it/2011/12/lo-spirito-creativo-di-antonino-di.html).Torniamo con grande piacere a parlarne oggi riproponendo questo recente video che lo riprende mentre parla, con passione e competenza, di piante medicinali e di tant'altro.

PITTURA E FILOSOFIA IN GILLO DORFLES



Recensione di Luca Menichetti ripresa da http://www.lankelot.eu/letteratura/dorfles-gillo-pittura-e-filosofia.html



Probabilmente il titolo "Pittura e filosofia" del piccolo libro edito dalla Campanotto poteva essere sostituito senza troppi problemi anche con "Pittura e poesia" o "Pittura e scienza". Difatti la lettura dei due articoli giovanili di Gillo Dorfles e le riflessioni contenute negli scritti di Luca Cesari e Luigi Sansone evidenziano una personalità multiforme che intendeva valorizzare la connessione tra forme artistiche e ricerca scientifica. Sappiamo che Gillo Dorfles, partendo da un'approfondita e precoce conoscenza dell'antroposofia steineriana, fu protagonista di un percorso culturale che lo portò anni dopo a fondare il MAC (Movimento Arte Concreta) e a mettere nero su bianco i principi della propria estetica nel "Discorso tecnico delle arti" (1952). Una corrispondenza tra le arti che, come in maniera diversa sottolineano Cesari e Sansone, parte appunto da lontano e trova conferma anche nelle opere pittoriche più recenti. Se l'attenzione dell'artista e intellettuale triestino era ed è volta a riconoscere la totalità dell'espressione artistica, allora diventa più chiaro il significato degli articoli pubblicati da Dorfles su "Le arti plastiche" del 1933, che anticipano le riflessioni teoriche compiute degli anni '50. Con "Raffello, un pittore fuori moda" Dorfles ha proposto un articolo in qualche modo controcorrente, almeno in un tempo in cui il grande Urbinate veniva sottovalutato dalla critica di Longhi e Venturi: la proposta di accostare Raffaello "con completa comprensione", e perciò i riferimenti alla "bellissima donna vista di spalle e al "ragazzo invasato" (pp.23), secondo Luca Cesari, mostrano una consonanza con quanto dichiarò Steiner sempre sulla "Trasfigurazione": "vi compare una straordinaria premonizione delle difficoltà che la natura artistica del Bello e la sua Idea, esaltati da Raffaello avrebbero incontrato nell'avvento di un'epoca misurata sul mito del Bello per il Bello e per l'Arte per l'Arte che, a discapito del concetto fattosene dal Venturi non è quella predominante in Raffaello" (pp.16). Così Steiner citato dalla sua "Storia dell'arte, specchio di impulsi spirituali": "Solo ora viene il tempo in cui si comincerà sempre più a non comprendere Raffaello, a comprenderlo di meno perché l'epoca stessa è diventata più vecchia di quanto Raffaello potesse dare al suo tempo" (pp.16).
L'orientamento di Dorfles nei confronti della corrispondenza delle arti lo possiamo cogliere ancora più esplicito nell'articolo "Goethe, grande disegnatore": una sorta di premessa a quanto poi l'artista triestino andrà definendo in futuro, ovvero l'espressione artistica come “globalità di attività gnoseologica” e quindi "inclusiva d’arte, filosofia, critica, chiamate a integrarsi". Coerentemente gli studi di Dorfles sull'arte contemporanea - ricordiamolo - si sono sempre caratterizzati per una rivendicata attenzione agli aspetti sociali, antropologici, linguistici dei fenomeni estetici e culturali. In questo senso possiamo comprendere l'importanza della figura di Goethe, genio della "totalità", nella formazione culturale del giovane Dorfles. L'articolo del 1933 merita quindi una citazione: "Nella sua Farbenlehre, la dottrina dei colori, Goethe parla per il primo di colori caldi e freddi: il richiamo a questa sensazione profonda del colore da parte di tutto l'organismo e non solo degli occhi, ricorre spesso nella sua opera [...] Questa intima percezione delle cose e della natura è uno dei caratteri fondamentali della mente goethiana [...] comprese come all'osservazione della cose fosse legata la loro essenza artistica [...] Questo nesso estetico e spirituale che lega fra di loro gli organi del corpo umano per farne un tutto armonico e non un semplice accumulo di cellule e di fibre, sfugge all'occhio miope del naturalista attuale che ha sepolto in sé ogni interesse estetico, e non interessa l'artista di oggi che vive in una completa ignoranza d'ogni fenomeno naturale" (pp.24).
Il libro della Campanotto contiene poi delle illustrazioni di alcune opere pittoriche recenti di Dorfles, efficacemente precedute dalle osservazioni di Luigi Sansone: "Mi trovavo al Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto [...] decine di occhi mi fissavano in ogni direzione, erano gli occhi delle creazioni di Dorfles: inedite creature, organismi indefinibili, nati da contaminazioni tra mondo umano, animale e vegetale, fluttuanti e dinamici in un perenne processo di evoluzione" (pp.29). Un percorso creativo lunghissimo e che lo stesso Dorfles, citato da un'intervista del 2001, ha inteso esprimere con parole ancora una volta molto esplicite e che si richiamano ad una visione dell'arte che già si poteva cogliere nei suoi scritti giovanili:  "Ciò che a me interessava nelle ricerche che ho fatto era sopratutto di identificare quello che è il nostro modo di esprimere la realtà del mondo interno e del mondo esterno [...] Comunque non è dal macro che dobbiamo partire bensì dal micro, dalle nostre percezioni, dal nostro modo di creare, dal nostro modo di porci di fronte all'opera d'arte e non solo di fronte alla stessa, ma anche di fronte a tutto quello che fa parte della nostra vita" (pp. 32)
 
 
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE:
 
Gillo Dorfles, (Trieste, 12 aprile 1910), è un critico d'arte, pittore e filosofo italiano. Laureato in medicina, con specializzazione in psichiatria, è stato professore universitario di estetica e a partire dall’immediato dopoguerra si è imposto in Europa e nelle Americhe come una delle personalità più attente agli sviluppi dell’arte e dell’estetica contemporanee. Tra le sue opere più note ricordiamo: Simbolo comunicazione consumo (1962), Nuovi riti, nuovi miti (1965), Artificio e natura (1968), Il Kitsch (1968), Le oscillazioni del gusto (1970), Introduzione al disegno industriale (1972), Dal significato alle scelte (1973), Mode & Modi (1979), Elogio della disarmonia (1986), L’intervallo perduto (1988), Il feticcio quotidiano (1990), Preferenze critiche (1993).
 
Gillo Dorfles, “Pittura e filosofia”, Campanotto Editore (collana “Zeta Rifili”), Pasian di Prato  2014, pp. 48. Testi di Luca Cesari e Luigi Sansone.
 
Luca Menichetti. Lankelot, maggio 2015

NULLA DUE VOLTE ACCADE, W. Szymborska







Nulla due volte

Nulla due volte accade
né accadrà. Per tal ragione
nasciamo senza esperienza,
moriamo senza assuefazione.


Anche agli alunni più ottusi
della scuola del pianeta
di ripeter non è dato
le stagioni del passato.

Non c’è giorno che ritorni,
non due notti uguali uguali,
né due baci somiglianti,
né due sguardi tali e quali.

Ieri, quando il tuo nome
qualcuno ha pronunciato,
mi è parso che una rosa
sbocciasse sul selciato.

Oggi che stiamo insieme,
ho rivolto gli occhi altrove.
Una rosa? Ma cos’è?
Forse pietra, o forse fiore?

Perché tu, ora malvagia,
dài paura e incertezza?
Ci sei – perciò devi passare.
Passerai – e in ciò sta la bellezza.

Cercheremo un’armonia,
sorridenti, fra le braccia,
anche se siamo diversi
come due gocce d’acqua.

Wislawa Szymborska, La gioia di scrivere, Adelphi



PS: Ringrazio l'amica Filomena Shedir Di Paola che mi fatto scoprire il bellissimo video con la traduzione inglese del testo.



29 maggio 2015

LA SICILIA DI LEONARDO SCIASCIA 2








"Il fallimento dell’autonomia regionale si può senz’altro attribuire al fatto che è stata intesa e maneggiata come un privilegio, una franchigia, che lo Stato italiano, sotto la pressione del movimento separatista, concedeva alla classe borghese-mafiosa."  (L. Sciascia, La corda pazza, Einaudi 1970)





“ L’uomo del sud – e cioè un tipo umano riconoscibile, catalogabile e giudicabile in quanto uomo del sud – non esiste. Esistono nel sud condizioni economiche, generate dal corso della storia, che possono anche dare l’illusione di essere state invece generate da una particolare umanità. E’ l’illusione di cui è suggestivamente intriso il “Gattopardo”; e funziona anche da alibi, alibi di classe.
La Sicilia del principe di Lampedusa è una astrazione geografico-climatica  e l’uomo siciliano che ne deriva è ugualmente un’astrazione. Il clima le lunghe estati, le siccità, gli scirocchi, non servono molto a spiegare le condizioni della Sicilia e il carattere dell’uomo siciliano; molto di più serve il considerare la storia delle dominazioni straniere, dagli arabi agli Spagnoli.

L’immagine che si ha nei Promessi Sposi della Lombardia nel Seicento somiglia moltissimo a quella che, fino ad oggi, possiamo avere della Sicilia. Ma nel Settecento la Lombardia è già diversa, non somiglia più alla Sicilia: non c’è più la Spagna, c’è l’Austria con le sue sagge riforme, la sua amministrazione efficiente e corretta.

Che cosa sarebbe stata la Lombardia se fosse passata dalla dominazione spagnola ai Borboni di Napoli e poi ai Savoia? Che cosa diremmo oggi dell’uomo lombardo?"

(Leonardo Sciascia, L' uomo del sud in MALGRADO TUTTO, luglio 1980)


* Per una migliore comprensione di questi testi rinvio al mio saggio La Sicilia di Leonardo Sciascia, pubblicato nel giugno 2012 sul 1° numero di NUOVA BUSAMBRA.

LE DONNE SONO OVUNQUE IL CUORE DI TUTTO



Pubblicata l'opera più significativa della tradizione popolare islandese. Storie di guerre e avventure per mare in cui spicca il ruolo centrale delle donne nella vita dei clan.

Cinzia Fiori
La saga medioevale d’Islanda dove le donne erano il cuore dei clan

«Sono stata la più crudele con chi ho più amato» dice Gudrún, personaggio chiave della Laxdaela saga , verso la fine del testo. La frase, tra le più celebri della letteratura nordica, è tuttora proverbiale in Islanda, dove la storia fu raccolta dalla tradizione orale e rielaborata artisticamente intorno alla metà del XIII secolo. La suggestione di un mondo arcaico e «altro», assieme al tragico triangolo amoroso tra Gúdrun e due uomini che si erano sempre considerati fratelli, accese la fantasia vittoriana, tanto che The lovers of Gudrún , il riadattamento in versi di William Morris (1903), fu un testo molto letto per i suoi risvolti romantici.

Eppure, come tutte le saghe dette «degli islandesi», la Laxdaela (pubblicata da Iperborea, pagine 320, e 17 ) è un racconto realistico; e, per quanto ricca di temi universali, non l’amore ma l’etica è centrale nella narrazione. Il testo, scritto in prosa, narra le gesta di cinque generazioni, dall’insediamento dei primi coloni in Islanda (fine IX secolo), che fuggivano dalle vessazioni feudali del re di Norvegia, fino al completamento della cristianizzazione imposta all’isola dalla fine dell’XI.

La centralità dell’etica spiega una delle singolarità della saga: il ruolo prominente che vi svolgono le donne. Un clima di parità in pieno Medioevo. La prima protagonista che incontriamo è una pioniera. Avvolta nella leggenda, Unnr la Sagace arma la nave verso l’isola, guida la schiera dei parenti, reclama terre vergini, organizza matrimoni, regala appezzamenti, tesse relazioni. Fonda, insomma, un vasto clan, in un Paese che resterà organizzato come un’oligarchia agraria fino dopo la guerra civile e la sottomissione ad Haakon IV di Norvegia nel 1262. È probabilmente il cambiamento politico sociale a suggerire una saga che glorifichi il clan e risulti esemplare, perché le lotte interne, prima, e la perdita dell’indipendenza, poi, non comportino anche una perdita di identità.

In un simile quadro, fondamentale è il ruolo delle donne, perché in Islanda erano le custodi riconosciute dell’onore del clan e del prestigio familiare. La Laxdaela , che narra le gesta di una trascorsa età dell’oro, le mitizza assieme alle sue protagoniste, riconoscendole come interpreti della tradizione. Inoltre, Alessandro Zironi, autore della postfazione, ricorda il frequente uso nordeuropeo di legittimare il potere riallacciandosi a una genealogia femminile. Lo stesso Haakon IV di Norvegia si provvide di natali suggestivi facendoli risalire alla figlia di Brunilde e Sigfrido.

La magnanimità, manifestata anche con doni preziosi e sfarzo nei banchetti, assieme all’agire corretto e onorevole, informa i capisaldi morali delle origini. Ma, col succedersi delle discendenze, qualcosa cambia. Alla quarta generazione, nelle mani della figlia e della moglie di un autorevole esponente del clan compare una celebre spada, accompagnata da una maledizione. Finché il marito, Ólárf, partorito da una schiava di regali origini irlandesi, resterà in vita, una magnanima saggezza eviterà il peggio. Poi, la sanguinosa faida divampa, alimentata sui due fronti dalla vedova e dalla giovane Gúdrun. La difesa dell’onore familiare diventa un paravento per la vendetta, che non si arresterà finché Kjartan e Bolli, rispettivamente figlio e nipote di Ólárf, rimarranno in vita.

Agli uomini tocca l’azione, spesso per eseguire volontà femminili, ma non soltanto: sono capi clan, illustri tenutari, membri dell’Assemblea in un Paese che la narrazione lascia immaginare punteggiato di fattorie. E da lì partono per altre terre. All’estero si spingono per procurarsi legname da costruzione o per commerciare, ma anche per acquisire onore presso le corti. Intanto, il cristianesimo, dapprima disdegnato come una religione debole, si diffonde nell’isola, ma la saga è ancora segnata dal fato. Vi hanno campo sogni premonitori e maledizioni che vanno a segno.

Diversi critici nordici hanno visto il passaggio di religione simbolizzato nelle figure di Gúdrun, emblema della cultura islandese, e di Kjartan, personificazione di quella cristiana. Di fatto, Gúdrun sarà la prima suora anacoreta del Paese, mentre il suo raffinatissimo figlio, Bolli Bollanson, rientrerà da Bisanzio coperto fama e abiti bellissimi. Il filologo Alessandro Zironi vi riconosce l’influenza dei poemi cavallereschi. Mentre la curatrice e traduttrice dall’islandese antico, Silvia Cosimini, avverte lettori di non aver fatto sconti sulle genealogie. A Iperborea va il merito di aver pubblicato l’opera vivida di un Medioevo ancora poco conosciuto nel sud Europa.


Il Corriere della sera – 29 maggio 2015

28 maggio 2015

MACBETH A MARSALA


A PALERMO SI TORNA A PARLARE DI FRANCO SCALDATI


UNA MOSTRA DA VEDERE A NAPOLI

Picasso, Deux femmes

Viaggio tra i capolavori ispirati dal fascino degli scavi.

Flavio Bufi
Pompei. Da Picasso a Le Corbusier La modernità di un mito

C’è un modo per raccontare Pompei attraverso gli storici e gli archeologi che narrano o riportano alla luce la città che fu, e c’è un modo per raccontarla attraverso i cronisti che di quella città che fu raccontano le vicissitudini odierne. Non c’era mai stato finora, e oggi c’è, un modo tanto autorevole quanto scientifico e meticoloso per rappresentare Pompei attraverso il racconto che ne hanno fatto nei secoli i grandi artisti. Pittori, scultori, ma anche musicisti, fotografi, urbanisti.

La mostra Pompei e l’Europa. 1748-1943 (da oggi al 2 novembre al Museo Archeologico di Napoli e all’Anfiteatro di Pompei, organizzata da Electa e con il patrocinio di Expo Milano 2015) offre al visitatore l’opportunità forse irripetibile di lasciarsi affascinare dal fascino che la città del scavi esercitò nel corso dei secoli sui più grandi artisti che la visitarono: Ingres, Picasso, Le Corbusier, Moreau, de Chirico e tantissimi altri ancora.
Una chiave di racconto inedita che ha richiesto innanzitutto uno sforzo organizzativo enorme. Il soprintendente Massimo Osanna e i curatori Luigi Gallo e Maria Teresa Caracciolo sono riusciti a portare all’Archeologico circa duecento tra reperti e opere provenienti in gran parte dagli allestimenti dei più prestigiosi musei d’Europa, dal Musée d’Orsay di Parigi al British Museum di Londra, ma l’elenco sarebbe lunghissimo.

Grazie anche agli allestimenti dell’architetto Francesco Venezia, il grande salone della Meridiana diventa un percorso attraverso continui dialoghi tra antico e moderno, tra reperti emersi dagli scavi (grande lo spazio riservato alle opere di recupero eseguite verso la metà dell’Ottocento sotto la direzione del soprintendente Giuseppe Fiorelli, cui va la paternità del metodo per ottenere i calchi dei corpi delle vittime dell’eruzione), e opere pittoriche che quei reperti riproducono.
E ancora: ecco la città come era ridotta dopo la grande eruzione del 79 d.c., le sue case, i suoi edifici di culto, e come sarebbe potuta essere nei progetti, o anche solo negli schizzi, di autorevoli architetti come gli allievi dell’École des beaux-arts di Parigi. Ecco gli edifici del Foro, il Tempio di Apollo, il Quartiere dei Teatri tornare al loro ipotetico aspetto originale.

È in questi concetti lo spirito della mostra: proporre, attraverso un percorso che è, nello stesso tempo, artistico e cronologico, una Pompei che vada oltre se stessa. Oltre gli scavi, oltre le emozionanti testimonianze della città sepolta e poi riemersa. È come se i curatori stavolta avessero voluto affidare ai grandi artisti degli ultimi tre secoli prima del nuovo millennio, il compito di raccontarci Pompei, di farcela vedere con i loro occhi, con le loro emozioni, con le loro suggestioni.
  Moulin, Une trouvaille à Pompéi
Sin dalla scultura in bronzo che apre la mostra, l’opera Une trouvaille à Pompéi del francese Ippolyte Moulin, raffigurante un giovane efebo, che mostra fiero la statuetta ritrovata durante un’operazione di scavo.

O ancora la Fanciulla nuda in un labrium pompeiano , di Paul Delaroche, una incompiuta da cui traspaiono tracce della tragedia familiare dell’artista (durante la realizzazione dell’opera perse la moglie) e che non solo per il labrium, ma anche per l’isola di Capri sullo sfondo, appare chiaramente ambientata a Pompei.
Delaroche, Fanciulla nuda in un labrium pompeiano

Scandito da enormi tele raffiguranti momenti dell’eruzione, il percorso della mostra è ricco anche di oggetti ispirati all’immagine e alla cultura pompeiana. Come vasi, acquarelli su marmo. Oppure foto. Da quelle che raccontano della visita di Picasso agli Scavi, in compagnia di Jean Cocteau e Léonide Massine, a quelle scattate nel corso delle operazioni di scavo e pure entrate a far parte della mostra.

«Siamo riusciti a ottenere opere che non erano mai uscite dai musei dove erano esposte», racconta con orgoglio il curatore Luigi Gallo. E il soprintendente Osanna, a proposito dei calchi esposti all’Anfiteatro, dice: «Siamo riusciti a ridare dignità a questi che non sono oggetti ma resti di vite umane».

Il Corriere della sera – 27 maggio 2015

IL PESO DELLA MAFIA NEI PAESI SICILIANI



      Ci siamo già occupati in questo blog dell’ultimo lavoro dell’amico Santo Lombino. Torniamo volentieri a farlo anche per invitare i nostri lettori a partecipare alla presentazione del libro che si terrà domani sera, alle 20.30,  al Castello Beccadelli di Marineo (PA). Ne parleremo,  insieme all' autore, con Antonino Di Sclafani, Nino Scarpulla e Nino Triolo.
        Oggi ci soffermiamo brevemente a parlare di uno dei temi centrali analizzati con acribia dal libro.

         Giovanna Fiume e Pasquale Marchese trent’anni fa, nell’introdurre un prezioso libretto che parlava di Marineo ( G. Cirillo Rampolla, Suicidio per mafia. Ricorso al Ministro dell’Interno (1887), La Luna, Palermo 1986) notavano giustamente come i mafiosi che hanno occupato la scena della Sicilia Occidentale ( dai piccoli centri a Palermo) nel XIX secolo non erano dei briganti emarginati dalla “società civile” ma esponenti delle stesse classi dirigenti del tempo, insediati “legalmente” nei Municipi con a capo, spesso,  gli stessi sindaci: “Qui, come altrove, la mafia rappresenta il modo degenerato di gestire le risorse locali, detenendo saldamente le leve del potere politico nei municipi” (pp.16-17). 
     D'altra parte già Leonardo Sciascia, molto tempo prima, aveva parlato delle collusioni, ormai universalmente riconosciute, tra mafia e classi dirigenti e denunciato i danni prodotti dalla "borghesia mafiosa" che ha governato la Sicilia nel 900.

       La storia di Bolognetta di Santo Lombino, tra i tanti altri suoi meriti, ha quello di fornire ulteriori documentate prove di quanto sopra affermato.

VOTI COMPRATI



       Si è perso ormai il conto degli "onorevoli" siciliani arrestati e/o indagati. Ma cosa si aspetta  per  chiudere l' Assemblea Regionale Siciliana?
     Il gioco i siciliani lo conoscono e l'hanno capito da tempo. E anche noi siamo stanchi di ripetere  le stesse cose. 
     Sta tutta quì l' immobilità della storia siciliana, denunciata tanto tempo fa  da  Danilo Dolci e Leonardo Sciascia 
     A futura memoria riproponiamo quanto al riguardo abbiamo scritto tre anni fa:

IL SISTEMA DI POTERE CLIENTELARE-MAFIOSO IERI E OGGI.



     Qualche settimana fa l’edizione palermitana del giornale La Repubblica  apriva con questo titolo: Regione, milioni per i clientes. Il sottotitolo precisava: “Assistenza, tirocini, microcredito: pioggia di soldi alle onlus di partito”. Seguiva nella pagina seguente un documentato articolo di Antonio Fraschilla che non mancava di notare come la notizia fosse trapelata solo perché qualche Associazione era rimasta esclusa  dal beneficio. Questo l’inizio dell’articolo:

“La campagna elettorale per le amministrative è già iniziata. Ad accorgersene per primi sono stati i deputati regionali che denunciano, con tanto d'interrogazioni al governo Lombardo, finanziamenti clientelari e poco trasparenti erogati dalla Regione «che rischiano d'inquinare la consultazione». In particolare, nel mirino degli inquilini di Sala d'Ercole è finita l'ultima pioggia di fondi erogati dall'assessorato alla Famiglia: 9 milioni di euro stanziati a favore di 18 raggruppamenti di onlus, la gran parte sponsorizzate dal politico di turno, per garantire a circa mille «disagiati e disoccupati» tirocini in aziende pagati a 700 euro al mese. Ma non solo. Nel mirino c'è anche il microcredito, altri 12 milioni di euro impegnati dalla Regione: il progetto in questione vede interessate sulla carta 100 mila famiglie siciliane che potranno provarea chiedere prestiti garantiti, ma a fare da intermediari tra le famiglie e le banche saranno delle onlus individuate sul territorio con criteri definiti «poco chiari», tanto che a Palermo e provincia risultano accreditati 23 enti, di cui ben 3 solo a Santa Flavia (guarda caso uno tra i Comuni al voto), mentre ci sono intere province come Ragusa, Caltanissetta e Siracusa che hanno solo una onlus”. (La Repubblica del 15 gennaio 2012, edizione Palermo, p.II)

          Nonostante il rilievo dato alla notizia  dal suddetto giornale, nessun altro ne ha parlato.Tanto meno la tv che, come si sa, è la principale fabbrica del consenso.  Ma, come tutti sanno, non c’è settore in Sicilia –  ma non solo in Sicilia! - che non sia condizionato   dal sistema di potere clientelare. Basti pensare alla Formazione Professionale. Sul sito http://www.sicilianews24.it oggi si legge:

Assunzioni pilotate da politici e burocrati soprattutto in concomitanza con le elezioni regionali, fondi pubblici assegnati a enti che in alcuni casi non hanno neppure una sede, assenza di controlli sull'efficacia dei corsi, una quantità di personale enorme, ben il 46% del totale dei dipendenti attivi nel resto del Paese e tre volte superiore alla sola Regione Lombardia. E' l'impietosa analisi del settore della Formazione professionale in Sicilia fatta dalla commissione d'inchiesta, guidata dal deputato del Pd Filippo Panarello, incaricata dall'Assemblea regionale siciliana di verificare cosa non va nel sistema dopo i rilievi della Corte dei conti e alcuni scandali. Dopo avere ascoltato per diverse settimane in audizione dirigenti regionali, operatori e sindacati, i commissari hanno appena concluso il lavoro, stilando la relazione conclusiva depositata a Palazzo dei Normanni e pronta per la discussione all'Assemblea regionale. Dal rapporto viene fuori un settore 'monstre', dove non ci sono regole certe e quelle esistenti vengono aggirate con facilità, controllato da lobbies di potere e senza una reale corrispondenza con le necessità di lavoro in una regione dove il tasso di disoccupazione giovanile supera il 50%. Tra i docenti c'é chi addirittura ha soltanto la licenza elementare, alcuni il diploma di scuola media inferiore, solo il 34% ha un diploma di laurea. 'E' stato costruito un sistema fondato sulla crescita esponenziale della spesa pubblica indirizzato a creare posti di lavoro, a prescindere dalle esigenze effettive dell'utenza e dalla qualità del servizio', scrivono i commissari nella relazione. La spesa per il comparto ammonta a 400 milioni di euro, oltre alle risorse finanziate negli anni con i fondi europei. La quantità del personale non ha eguali nel Paese, 8.612 dipendenti tra docenti e amministrativi, quasi il triplo dei dipendenti pubblici della Regione Lombardia. Gli enti che organizzano i corsi e ricevono i fondi pubblici sono 230, 'frutto di un sistema di accreditamento lacunoso, ancorché provvisorio e sostanzialmente funzionale all'allargamento della platea', accusano i commissari. 'Il reclutamento del personale', sostiene la commissione, 'fondato su regole e filtri facilmente aggirabili, ha consentito continue incursioni di settori della burocrazia e della politica' e sull'esito dei corsi 'c'é l'assoluta mancanza di verifiche'. La commissione d'inchiesta propone all'Ars 'di promuovere le iniziative legislative utili a riformare il sistema della formazione e di esercitare con attenzione i compiti di indirizzo e di controllo necessari per sollecitare una gestione rigorosa e trasparente di un settore importante dal punto di vista economico e sociale'.

          Ma viene da chiedersi: chi controllerà i controllori?   E tornano alla mente le parole di Giovanni Falcone: “In Sicilia, per quanto uno sia intelligente e lavoratore, non è detto che faccia carriera (…). La Sicilia ha fatto del clientelismo una regola di vita. Difficile, in questo quadro, far emergere pure e semplici capacità professionali. Quel che conta è l’amico o la conoscenza per ottenere una spintarella. E la mafia, che esprime sempre l’esasperazione dei valori siciliani, finisce per fare apparire come un favore quello che è il diritto di ogni cittadino."

          Qualche giorno fa,  in un Convegno di studio, il  Dr. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, ha detto: “Il Parlamento siciliano è lo specchio fedele di una società e di una classe dirigente profondamente inquinata, soprattutto ai piani alti, dalle collusioni con il sistema mafioso”.
          Queste parole hanno provocato  un  putiferio.  Il  Presidente dell’ARS, on. Francesco Cascio,  anche per coprire le reazioni scomposte di alcuni colleghi, nel difendere l’istituzione che rappresenta,  ha chiesto chiarimenti.
           In attesa che il dr. Ingroia risponda all’On. Cascio, riteniamo opportuno riproporre alcuni documenti, estrapolati dai loro contesti originari, che fanno riferimento a vicende simili a quelle sopra descritte, lasciando al lettore la valutazione della loro pertinenza e attualità.  
           Il primo testo da cui vogliamo partire risale al 1957 ed è tratto da un breve saggio di Leonardo Sciascia intitolato La mafia,  pubblicato lo stesso anno sulla rivista di Ignazio Silone Tempo Presente.  Di esso, in questo momento,  non ci interessa  fare un’analisi puntuale. Basti  ricordare il  riferimento polemico all’ intervista “di allarmante candore” rilasciata ad un giornale milanese dall’allora Presidente della Regione Siciliana, Giuseppe Alessi, secondo il quale la mafia del sud - opera di poveri uomini che si mettono al passo per derubare i viandanti -  è poca cosa rispetto alla mafia del nord, in cui regnano aggiotaggi e giochi di borsa. Sciascia osserva:

“ Come l’Alessi, sono molti i siciliani che in buona fede riducono la mafia a sporadici fatti delinquenziali e ritengono sia un’offesa alla Sicilia l’ammettere l’esistenza di un’associazione per delinquere con vasto raggio d’azione e con precisi addentellati nella vita pubblica. Sono sicuro che l’Alessi, vivendo tra Caltanissetta e Palermo e con la sua notevole esperienza di avvocato penalista, non ignora le vere proporzioni del fenomeno, né le collusioni ormai universalmente riconosciute tra mafia e classe dirigente  (c.m.): ma trovandosi di fronte un giornalista continentale non ha potuto fare a meno di minimizzare e di lanciarsi in una piccola requisitoria, peraltro non ingiustificata, contro la mafia del nord.”  

        Il  saggio contiene inoltre la fondamentale indicazione di metodo da tenere costantemente presente nello studio del fenomeno mafioso  - “non è partendo dalla razza che si può gettar luce sul fenomeno: bisogna, ancora e sempre, partire dalla storia e risolverlo in essa” cui rimarrà sempre fedele - insieme alla coraggiosa denuncia del comportamento cinico mostrato  dalle truppe alleate in Sicilia, subito dopo lo sbarco a Licata  del luglio 1943, quando, per assicurare l’ ordine pubblico, utilizzarono parecchi uomini d’onore.                        
         Sciascia tornerà  a parlare dell’aiuto decisivo dato dagli americani alla rinascita mafiosa in Sicilia, alla fine della seconda guerra mondiale, in una delle sue ultime interviste:  

“ la mafia, che era stata combattuta dal fascismo – due mafie non avrebbero potuto coesistere! – si è avvantaggiata dallo sbarco americano in Sicilia. Insediati dagli americani, i mafiosi, oltre al prestigio che    hanno tratto dalla liberazione della Sicilia, hanno esercitato un potere politico quotidiano: presiedevano alla distribuzione di pane e viveri, offrivano forniture e coperte, fornivano la penicillina, il ‘rimedio miracoloso’ di cui è difficile oggi immaginare cosa poteva significare in quel tempo. Il pane, la penicillina, le coperte… ecco il potere di cui i mafiosi si erano trovati investiti dagli americani!”.
 
         Leonardo Sciascia è stato tra i primi a considerare fallimentare l’esperienza dell’Autonomia concessa dal Governo centrale alla Sicilia all’indomani del crollo del Fascismo. Più precisamente lo scrittore di Racalmuto, fin dagli anni sessanta, ha sostenuto, con buone argomentazioni, che:

il fallimento dell’autonomia regionale si può senz’altro attribuire al fatto che è stata intesa e maneggiata come un privilegio, una franchigia, che lo Stato italiano, sotto la pressione del movimento separatista, concedeva alla classe borghese-mafiosa.

          Sciascia aveva le idee molto chiare; e quando parlava di  “classe borghese-mafiosa”  o di  “borghesia mafiosa”  sapeva quel che diceva:


“E’ una borghesia mafiosa, quella siciliana, anche là dove non sembra. Una borghesia che opera senza una visione del domani, a sfruttare determinate situazioni così come un tempo si diceva  delle zolfare : A RAPINA. Lo sfruttamento a rapina delle zolfare era quello degli esercenti che si preoccupavano di cavare quanto più materia possibile senza curari né dell’avvenire delle zolfare né della sicurezza di chi vi lavorava. Ora questa classe sembra inamovibile. Successe all’aristocrazia, si comporta , anche  e più grossolanamente, come l’aristocrazia. Per questo i siciliani non credono più alle idee “. (sottolineature mie)
           

       Eppure lo stesso Sciascia non si è mai stancato di avvertire:  

 La Sicilia non è la mafia, in Sicilia c'è la mafia ma la Sicilia non è la mafia(...).Quì la mafia non sarebbe durata tanto a lungo se non fosse stata aiutata da un patto con lo Stato, che naturalmente non è un patto steso a tavolino ma è un patto da vedere in quella che Machiavelli chiamava 'la realtà effettuale delle cose'.   

         E’ curioso osservare che a conclusioni simili  era arrivato negli stessi anni Danilo Dolci seguendo un percorso diverso. Basta riprendere in mano un suo vecchio libro, raramente citato, per convincersene. Il libro s’ intitola Chi gioca solo  e viene pubblicato da Einaudi nel 1966. In esso si trova  la più ricca  documentazione, raccolta da Danilo e dai suoi più stretti collaboratori, sulle radici profonde della mafia nella Sicilia occidentale. Come Banditi a Partinico è un libro-inchiesta, frutto di anni  di autoanalisi popolare. Era questo il modo in cui Danilo amava denominare il suo metodo di lavoro che scaturiva, soprattutto, da quel singolare talento che possedeva di saper ascoltare e dare voce a tutte le persone che incontrava.
           Il libro ebbe un successo straordinario. La stessa casa editrice  pubblicò  la II edizione nel 1967  e, nei mesi successivi venne tradotto nelle principali lingue del mondo (ad esempio l’edizione americana  uscì l’anno seguente con questo titolo: The man who plays alone. Trad. di Antonia Cowan. New York: Pantheon Books,1968). Ciononostante, dopo qualche anno, l'opera scomparve dalla circolazione ed  è stata quasi del tutto  dimenticata.
           La rilettura del libro per me è stata di grande utilità e mi ha aiutato a capire anche recenti fatti di cronaca. Particolarmente istruttiva la ricostruzione di un processo e di una sconfitta: il processo per diffamazione che Danilo subì, con relativa condanna, per avere denunciato potenti uomini politici di collusione con la mafia.
           Per mostrare quanto chiare fossero le idee di Dolci al riguardo  voglio citare per esteso  un brano della Premessa, scritta dallo stesso Autore:

   I non pochi uomini politici compromessi con la mafia in Sicilia si potrebbero distinguere  in quattro categorie: Una prima, dei politici spregiudicati che, soprattutto in tempo di elezioni, hanno rapidi  incontri, riunioni in cui non badano tanto per il sottile come raccogliere voti e con chi hanno a che fare: "se tu mi aiuti, io ti aiuto". Una seconda, dei politici che sfruttano sistematicamente, freddamente, il gruppo chiuso mafioso, imbastendo eventualmente tutti i possibili doppi giochi a seconda dei tempi e dei luoghi:" sfruttati a loro volta sistematicamente dalla mafia. Una terza, di mafiosi veri e propriche riescono ad essere eletti, talvolta anche anche ad alte responsabilità: per fortuna non sono i più numerosi. Una quarta, di giovani che, partiti in polemica col sistema, hanno accettato di rimanere  condizionati, per poter riuscire. Quale locale contesto ha reso possibile per più di vent'anni lo sfruttamento della mafia (e, per un certo tempo, anche  del banditismo) a fini elettorali? La mafia ha così potuto nell'ultimo dopoguerra partecipare al governo dell'Italia dal livello comunale, provinciale,regionale ai più alti livelli.

       Poco più avanti Danilo  si domanda: 

A chi vede Palermo e la provincia circostante, non occorre molto per verificare che la grande maggioranza della popolazione è scontenta, molto spesso gravemente scontenta, amara, a lutto. "Perchè, […], questa maggioranza di scontenti non riesce a diventare maggioranza di diversa azione, nuova spinta, nuova maggioranza politica?

       La risposta  a questa fondamentale domanda va ricercata, secondo Danilo, oltre che nella incoerenza ed inadeguatezza dei principali partiti di opposizione di allora, nell'omertà istituzionale che egli descrive con parole che riecheggiano quelle del secolo precedente di Napoleone Colajanni:

"finchè i rappresentanti dello Stato cercano ad ogni costo di coprire […] ministri, sottosegretari più o meno inseriti nella struttura mafioso-clientelare; finchè si vuol far risultare ad ogni costo che sono i mafiosi a circuire il loro politico e non si critica il reciproco appoggio (...), lo sfruttamento reciproco; finchè non si fa chiaro fin dove arriva nel comportamento di certi 'politici' la loro responsabilità personale, e fin dove la corresponsabilità governativa;finchè ci capita di incontrare persone ad altissimo livello di responsabilità -ministri, sottosegretari, magistrati - le quali in privato ammettono di sapere che certi loro colleghi sono uomini della mafia (cioè appartenenti ad essa o ad essa disponibili), ma non osano assumere posizioni aperte; finchè funzionari e parlamentari continueranno a pretendere dalla povera gente indifesa quel coraggio che essi stessi, sebbene protetti dal proprio mandato, non hanno; (...)finchè ogni gruppo, ogni partito che si dice democratico, non osa sciogliere i suoi vincoli mafioso-clientelari; finchè la maggioranza delle persone si comporta come se questi problemi non li riguardassero affatto; finchè, ad ogni livello di responsabilità, non si sarà disposti a rischiare per la verità, osando opporsi in modo organizzato all'ingiustizia e alla violenza organizzata ovunque essa sia - il corpo sociale non potrà che rimanere sostanzialmente fermo, infetto.".  
 
           Queste parole risalgono al 1966. A me sembrano  ancora attuali.  Ma posso naturalmente sbagliarmi. 
Postato da


A PALERMO OGGI SI PARLA DI SCIASCIA

" Prendeva tutto sul serio ma con tanta leggerezza da dare l' impressione che non si prendesse sul serio." 

Leonardo Sciascia su Diderot in Cruciverba.

27 maggio 2015

A MARINEO TORNA L'OPERA DEI PUPI


IL RACCONTO DEI RACCONTI DI M. GARRONE




Recensione di Giovanni Capizzi pubblicata da  http://www.lankelot.eu/cinema/


Una sottile foschia sfuma il paesaggio caldo, dalle forti tinte brune, che man mano si disvela. Degli artisti si preparano su un carrozzone, le porte di un castello si aprono e alla presenza del re comincia un farsesco duetto. La corte non trattiene le risate ma l’allegra atmosfera è rotta dalla indifferente presenza della regina. Il suo sguardo vitreo, imbambolato, riesce a spegnere un volto di una bellezza altrimenti abbacinante (che ha le aggraziate fattezze di Salma Hayek). Non avere un figlio è un dolore che la strappa alla vita e per arginarlo è pronta a qualsiasi sacrificio, persino mangiare il cuore di un drago. È questa una delle tre fiabesche storie regali che vengono narrate ne “Il Racconto dei Racconti”, ultimo film di Matteo Garrone tratto dal libro di Giambattista BasileLo cunto de li cunti”. Allo struggente dramma della Regina sterile si intrecciano i destini di altri due sovrani. Il più giovane ha il volto spigoloso e sciupadonzelle di Vincent Cassell, che interpreta difatti un vorace edonista che colleziona le più belle creature del suo reame. L’altro re, incarnato dai goffi e disarmonici tratti di Toby Jones, ha invece una sola donna al suo fianco, una devota e romantica figlia, che è costretta a fare i conti con le bizzarie di un padre distratto e lievemente disturbato. I tre protagonisti alternano le loro vicende per poi incontrarsi nel bellissimo finale. La “regina” delle tre storie è, a mio avviso proprio quella che apre il film, ovvero la sofferta esistenza di questa sovrana triste che, grazie ai consigli di un inquietante stregone, darà alla luce il tanto desiderato erede.


La magia però ostacolerà alcuni dei nostri protagonisti, e la promessa di essere “felici e contenti” non verrà sempre mantenuta. Insieme alla regina difatti rimarrà incinta anche la giovane vergine che, per la buona riuscita del sortilegio, doveva servirle l’organo pulsante del drago. I due ragazzi, Elias (il principe) e Jonah, cresceranno e condivideranno non solo le fattezze (sono infatti due gocce d’acqua) ma anche un autentico amore fraterno. La sovrana li separerà, spinta dalla morbosa gelosia che nutre per il figlio, ma il giovane principe seguirà l’amico da lontano, grazie ad un albero fatato e grondante, dalle cui acque, sporcatesi di sangue, Elias intuirà le ambasce del fratello. La Regina perderà le staffe e, ricorrendo nuovamente alla magia, si trasformerà in un mostro alato pronto a scagliarsi sull’odiato Jonah. Questi però si salverà per l’intervento di Elias che ucciderà l’orribile creatura e, inconsapevolmente, anche la madre. Nella seconda storia, che ha per protagonista il re mondano, si inseriscono due attempate signore, Dora e Imma, che trascorrono il poco tempo ancora rimasto, fra un battibecco e un panno da stendere. La loro squallida esistenza riceve uno scossone quando, un canto particolarmente ispirato di Dora, risveglia i testosteronici impulsi del re, che all’udire la voce (e non il volto per fortuna), decide di buttarsi alla conquista della presunta giovane dama. La vecchina sarà tanto astuta, da parlare a porte chiuse al Re e, messa alle strette, deciderà di concedersi soltanto a luci spente. La curiosità del sovrano purtroppo lo porterà a scoprire le tende del talamo e con esse le impietose rughe sul viso, e non solo su quello, della sgradevole nonnina. In tutta risposta verrà gettata dalla finestra, ma il viluppo delle lenzuola che l’avvalgono si impiglierà in un albero.



Le sorprese per Dora saranno ben più piacevoli, difatti non solo avrà salva la vita, ma verrà tirata giù da una simpatica strega che, allattandola al seno, la farà ringiovanire. Dora nella sua nuova, e liscia, pelle riuscirà davvero a conquistare il sovrano, fin anche a sposarlo ma l’incanto si spezzerà e soltanto la fuga la salverà dalla vergogna. L’ultima storia inizia col grottesco affetto di un altro Re per la sua pulce domestica. La cura di quest’animale comincerà per caso, quando il re, durante l’esibizione musicale della figlia Felizia, si lascerà distrarre dai ripetuti punzecchi di una tenace pulce, per l’appunto. Questi deciderà di allevarla e di nutrirla, facendole assumere delle proporzioni davvero spaventose. La piccola bestiola non vivrà a lungo e la sua pelle servirà per una nobile causa: la scelta di un marito per Felizia. Chi indovinerà a quale bestia appartiene quell’insolito manto, avrà la sua mano. Questa povera ragazza, fiduciosa dell’arrivo di uomo che la porti via da quel folle di suo padre, finirà per essere offerta ad un orrendo cavernicolo. Solo un raccapricciante orco risponderà all’assurdo indovinello, e porterà la donna a vivere su una grotta sperduta fra le montagne. Felizia scapperà grazie all’aiuto di una famiglia di circensi ma l’orco li raggiungerà trucidandoli. L’incontro fra la bestia e la giovane si conclude in modo sorprendente. La vittima si ribellerà al mostro e lo sgozzerà.



Si potrà ritornare a casa, perdonare il padre senza senno, e prendere possesso di una meritata corona. Con una cerimonia sontuosa, alla presenza degli altri Re, Felizia seppellirà il suo passato e alzando gli occhi al cielo godrà di un tramonto vermiglio con un funambolo che attraversa vittorioso quel filo sottile a cui la sua, e tutte le altre vite son magicamente legate. Questo film di Garrone è fuori dal comune per diverse ragioni. Siamo abituati ad una fantasia da fast food, a rapido assorbimento. Non è necessario il minimo sforzo per calarsi in una realtà fantasmagorica perché sarà il tripudio di effetti speciali a farci credere l’impossibile. E l’immagine è talmente possente e prepotente e spettacolare che non possiamo far altro che seguire la storia che viene rappresentata. Ma dov’è lo stupore? Perché ciò che vediamo non ci sorprende? Dopotutto sono queste le sensazioni che un racconto fantasy dovrebbe suscitare. Il tema fiabesco dovrebbe disattendere ciò che ci aspettiamo, per proporci qualcosa di diverso, di straordinario, di non canonico. E Garrone lo fa. Certamente l’aver fatto ricorso ad un libro “Lo cunto de li cunti”, con storie poco conosciute al grande pubblico, lo ha aiutato. Siamo tutti cresciuti con un bel bagaglio di storielle fatate; abbiamo letto di sirene che diventano umane, persino di streghe che avvelenano mele, ma a vedere una pulce grande quanto un ippopotamo non siamo proprio abituati. Garrone riesce a coinvolgerci perché, eccezion fatta per la storia un po’ banale delle due vecchiette, nelle altri due racconti siamo davvero curiosi di vedere che fine facciano i nostri protagonisti, quale conclusione abbia deciso per loro il fato. Niente è scontato, non ci aspettiamo l’happy ending edificante e ci troviamo di fronte ad esiti inaspettati, talvolta drammatici e trasposti senza clamori da kolossal di genere. Ogni storia sembra dissolversi, liberarsi dall’attenzione dello spettatore, proprio come un sogno, della cui esistenza, al risveglio perdiamo le tracce. L’apparato tecnico artistico di questa pellicola è davvero encomiabile. Le ambientazioni da favola sono splendide. Le gole dell’Alcantara ci accolgono nelle sue morbide e fulgide radure, e le sue gelate acque verranno scelte per accogliere il mitico drago. I castelli non hanno nulla da invidiare ai fittizi e un po’ pacchiani grattacieli torreggianti presenti in tante pellicole hollywoodiane: il Belpaese ci regala infatti delle location che farebbero impallidire persino i maghi della tecnologia digitale. Il castello di Donnafugata con il suo leggendario labirinto, il Castel Del Monte e quello di Roccascalegna, sembrano fatti apposta per accogliere un set cinematografico. La cura estetica di Garrone non può essere obiettata; è certosina, attenta alle inquadrature che sembrano quasi dipinte. Alcuni momenti del film sono per l’appunto di una forza scenica sbalorditiva. Svariate sono le sequenze che hanno rapito la mia attenzione. La corsa della Regina nel labirinto, con le vesti sontuose e sanguigne che ondeggiano fra le calde mura, che sentiamo quasi scottare sotto un sole che abbaglia con violenza. La trasformazione della vecchia, che viene accolta nelle sue increspate nudità, dall’abbraccio di una strega e la sua rinascita nelle discinte e bianchissime curve di una splendida donna dai lunghi capelli. Ed infine il finale funambolico, col circense che, durante l’incoronazione, danza in equilibro sotto gli occhi degli astanti con un tramonto da cartolina ad incorniciare il tutto.



Sono questi gli effetti “speciali” che Garrone riserva al pubblico, la malia di scene realizzate con la maestria di un sapiente pittore. L’uso dei colori, delle luci, dei costumi e degli attori è davvero perfetto. Meravigliosa Salma Hayek, con una recitazione incisiva e densa di mille sfumature. Gli altri attori sono pure in parte, nonostante delle vesti da cialtrone di Cassel ne abbiamo già fin sopra i capelli. Pochi dialoghi riserva Garrone ai suoi attori, quasi a non voler sovrastare l’eloquenza che le immagini hanno già in sé. Un lavoro davvero eccezionale per un film maestoso ed epico.

Regia: Garrone Matteo Sceneggiatura: Garrone Matteo, Albinati Edoardo, Chiti Ugo, Gaudioso Massimo Tratto da un romanzo di: Basile Giambattista Direttore della fotografia: Suschitzky Peter Montaggio: Spoletini Marco Interpreti principali: Musica originale: Desplat Alexandre Scenografia: Capuani Dimitri, Anfuso Alessia Costumi: Parrini Cantini Massimo Produzione: Rai Cinema, Archimede, Le Pacte, Recorded Picture Company Origine: Italia, Francia, Regno Unito Durata: 125 min.
APPROFONDIMENTI: Link esterno Link esterno
Giovanni Capizzi, maggio 2015

'NDRANGHETA E ANTROPOLOGIA DEI CALABRESI



Interessante la recensione  del  libro di Alessandro Tarsia, Perché la ‘ndrangheta?Antropologia dei calabresi, Pungitopo, 2015, pubblicata oggi su http://www.nazioneindiana.com/

Un giardino di resistenza

 Mariano Bàino


 “La Calabria è una regione povera, con un livello disastroso di occupazione, di evasione fiscale e di altri parametri. È la patria di una delle organizzazioni criminali più estese e pericolose al mondo, che registra la presenza di cosche armate ricche e violente in più continenti. Non c’è forse un rapporto tra la cultura popolare calabrese e questo tipo peculiare di mafia?”.

La domanda,  posta da subito, già nel  primo risvolto di copertina,  rinuncia a pur nobili  invarianti e universali antropologici per addentrarsi nell’oscuro dinamismo dello stereotipo calabrese, che è – come ogni pregiudizio –  processo cognitivo, di comprensione del mondo, oltre che semplicistico e precostituito convincimento. Il pamphlet, pertanto, muove le sue leve nel rapporto che instaura tra la specificità  mafiosa della ‘ndrangheta e la cultura popolare, percepita come il sostrato di quella.   Impietosamente, dice al cittadino comune, che si sente vittima,  di non potersi considerare affatto innocente, ché il male della sua regione  non è solo dei “mostri”, dei criminali, ma anche suo, per partecipazione a una vita mentale, a un’acqua comune. L’iperbanalità del male, se si vuole.
Non direi che l’autore, con questo approccio, voglia negare validità a teorie criminologiche accorsate, come ad esempio quella dell’auto-controllo,  che ribadisce come spiegazione del crimine i fattori individuali,  legati al grado di interiorizzazione delle norme e alla relazione dell’individuo con le regole convenzionali, con la famiglia, la scuola, con gruppi e attività operanti come rinforzo nei confronti di quelle regole. Epperò, il rapporto tra comportamento criminale e basso livello di self-control  sembra avere, per Tarsia – che considera fondamentali le tematiche culturali –   un altro livello di pertinenza, per il quale, nella particolare area geografica della Calabria, la cultura ‘ndranghetista è intensamente influente in  sistemi culturali  diversi e anche in conflitto tra di loro. Sicché non sembrerà strano che questo lavoro  non riporti dati di statistiche ufficiali, nomi di cosche, storie di indagini, programmi di mediazione e così via, ma parli  della casa calabrese, del rapporto con la natura, di  animali,  paesaggio, acqua, orto,  giardino… Quest’ultimo è per l’autore “il punctum dell’ideologia calabrese della natura”, con le palme, “importate dai baroni nel corso della storia”, a fare da status symbol. Ma “il fulcro concettuale e materiale del giardino è ‘l’essere naturale’ più amato in assoluto dai calabresi: il calcestruzzo”, parente stretto del cemento, “il più fedele amico del calabrese, ritenuto più noumeno cosmico che artefatto umano”. Questo amore per la roba solida, consistente,  duratura (almeno in teoria), Tarsia lo fa derivare dall’ “odio del calabrese per una natura che storicamente non solo non gli apparteneva, ma che lo condannava persino a morte tramite siccità e carestie”. Questo sentimento, “giunto intatto sino a noi”, nato dalla sofferenza e ben presente nella cultura popolare, è “la culla del pensiero ‘ndranghetista”. Ne consegue che il principio ispiratore dell’agricoltura, del giardinaggio, della silvicoltura calabrese è rigidamente legato all’economia alimentare, per cui “le calorie spese dal lavoro servito a piantare devono essere restituite dai frutti della pianta, con gli interessi”. Per uno ‘ndranghetista, arriva a dire l’autore, “è sempre imbarazzante regalare una rosa alla propria compagna, quando un mazzo di fiori di zucca sarebbe anche commestibile!”.
Colpisce, tra le righe di questo testo, la perentorietà tranchante unita a una diffusa delicacy of perception, qualità entrambe necessarie, direi, al  giardiniere e al pamphlettista. E non posso farci nulla  se, venendo in mente Foucault – per il quale un libro è una scatola di arnesi –  continuo a scegliere l’utensile che mi sembra più adatto a  fare corpo con l’esperimento antropologico di Perché la ‘ndrangheta?, quello appunto dell’immagine costituita dal giardino, che vuole anche dire laboratorio, territorio, piante (già da sempre  figure della  métis)  che possono  darsi anche come mezzi dell’osservazione, come rivelatori  del cambiamento, come materia per riflettere sul  nostro agire per preservare, con il meglio di fiori, frutti, ortaggi, la vita stessa e la sua fragilità. Epperò il giardino di Tarsia non  è limitato dal suo etimo, garten, non è luogo chiuso, enclos,  ma paesaggio aperto, bio-politico, insieme che somma i residui dell’ “urbano” e del “rurale”, e che ci invita a esplorare margini poco sorvegliati, il “lato oscuro del paesaggio” , per dirla con  John Barrell. Nel  landscape della propria regione, negli spazi grandi e piccoli, coltivati e non, nei parchi, nelle riserve naturali, nelle aree disabitate e dismesse, negli orti come nei piazzali abbandonati, l’autore vede un oggetto mentale, l’identità di una popolazione, il rapporto di una società con lo specifico territorio  abitato. Com’era per il Manifesto del Terzo paesaggio (2006) di Gilles Clément, ingegnere agronomo, botanico, progettista del famoso Parc Matisse di Lille (uno che ama definirsi semplicemente “un giardiniere”); com’era per il saggio Corrispondenze. Teorie e storie dal landscape (2005) di Roberto Zancan, anche qui  bisogna parlare di un giardino politico e di resistenza, di un particolare modo di fare  opposizione. E di una lettura del concetto di paesaggio come non neutrale, implicato nel contrasto tra evoluzione biologica e evoluzione economica, funzionale a un modello dominante e alla sua selezione sul territorio di forme antropiche e naturali, di gruppi sociali e di identità.
Ma il libro, va detto, è anche altro, offre altre chiavi di lettura della realtà calabrese. Dice dell’attuale reinvenzione del mito del brigante, “idealizzazione sovrastorica dello ‘ndranghetista nella cultura popolare contemporanea”, sicché pupazzi di briganti, in coccio o in plastica, riempiono gli autogrill e i negozi di souvenir. Dice di  politici postmoderni  e del loro volere “una Calabria tutta terziario”, mentre “sembra il terzo mondo”. Dice degli apparati del parastato, delle centrali elettriche a carbone, del “cancro a norma di legge”, della moda del campus universitario all’americana, ma privo di servizi essenziali, e di sera del tutto deserto. Dice, infine, che “il vaccino antindrangheta è il lavoro”, è in quattro inapplicati articoli  della Costituzione italiana, dal trentacinque al trentotto, “quattro gocce di civiltà” ovvero  la tutela del lavoro, il diritto a un’esistenza libera e dignitosa, le pari opportunità fra uomini e donne, il diritto degli inabili all’assistenza. L’autore, in chiusura,  cita gli articoli per intero, non prima di aver  esortato lo Stato ad allearsi “con la parte migliore della Calabria (che non si trova sul palco di un convegno sulla legalità)”.

26 maggio 2015

ORSON WELLES DAVANTI ALLA LEGGE






Orson Welles – Davanti alla legge


di Alberto Brodesco
i.
“Siamo ricondotti al paradosso cruciale del Reale il quale, lungi dall’essere semplicemente l’In-sé inaccessibile, è simultaneamente la Cosa-in- e l’ostacolo che impedisce l’accesso alla Cosa-in-” (Slavoj Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico).
ii.
Orson Welles apre il suo Processo (Le Procès, 1962) raccontando e mostrando il celebre apologo kafkiano Davanti alla legge. Il regista commissiona l’illustrazione del racconto all’inventore della tecnica dello schermo di spilli Alexandre Alexeieff. Una serie di diciotto quadri mette in scena quello stallo lungo quanto una vita.
iii.
Il racconto è narrato dalla voce di Orson Welles. Come ne L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942), essa appare prima di qualsiasi personaggio. Il regista anticipa il racconto all’inizio del film, per poi riprenderlo e rimodularlo anche nella scena ambientata all’interno della cattedrale dove appare nel libro.
iv.
Del confronto tra guardiano e viandante le illustrazioni con lo schermo di spilli restituiscono immagini grigiastre, a bassa definizione. Marshall McLuhan l’avrebbe definito un medium freddo. Anche in questo caso, come McLuhan insegna, l’attrazione per l’occhio esercitata dalla bassa definizione sta nel fatto che rimane allo spettatore il compito di completare l’immagine, in perfetta risonanza con l’enigma costituito dal racconto di Kafka.
v.
La tecnica dello schermo di spilli combina semplicità e sofisticazione: è primitiva, così come l’opera che genera, ma richiede pazienza, precisione, lavoro, uno sforzo che sembra perdersi o volatilizzarsi in un prodotto finale incerto. Una tecnica fondata sull’evanescenza dell’oggetto illustra un racconto il cui senso continua da un secolo a sfuggire a ogni tentativo di cattura.
vi.
Tutto si colloca sotto il segno della vanità e dello spreco: vanità, spreco di vita da parte del viandante; vanità, spreco di vita da parte del guardiano, custode di una porta ad personam che non sarà mai varcata da colui che ne è titolato; e poi, a livello rappresentativo, vanità del tentativo di Alexeieff e Welles: nonostante la tensione artistica li spinga a sfidare con il loro genio visivo quel racconto, entrambi sembrano in definitiva arrendersi all’impossibilità di rappresentarlo o semplicemente “vederlo”.
vii.
Anche il tempo di riflessione cui questo apologo costringe il lettore e lo spettatore sembra porsi sotto il segno dello spreco – Medusa letteraria che paralizza davanti alle porte dell’interpretazione.
viii.
Nella parte ambientata nella cattedrale il film ritorna davanti alla legge. Joseph K. si confronta con il suo avvocato, il quale gli narra la storia del viandante e del guardiano. K. la conosce già e lo dimostra all’avvocato, completando egli stesso il racconto. K. vorrebbe dare per risaputa la parabola, ma non è possibile, e lui lo sa, essendo una storia che cambia a ogni ascolto.
ix.
Mentre Davanti alla legge viene di nuovo evocato, un proiettore riproduce le immagini di Alexeieff mostrate in apertura, sovrapponendole agli spazi della cattedrale e al corpo stesso di Joseph K. La parabola viene applicata al protagonista del Processo sia a livello di enunciato (l’avvocato esplicita verbalmente la pertinenza del racconto rispetto alla vicenda di K.) che di enunciazione (la figura di K. è intrappolata in quelle immagini).
x.
Installazione, performance, compressione degli spazi tra le arti. Come nel labirinto di specchi de La signora di Shanghai (The Lady from Shanghai, 1947) il gioco di rifrazioni disorienta e affascina.
xi.
Il ritorno delle illustrazioni di Alexeieff ha di nuovo a che fare con la loro evanescenza. Ma qui cambia la chiave di lettura, non c’è più niente di vano e di inutile. Si tratta di un mistero che descrive con precisione la ragnatela fragile ma tenace che intrappola Joseph K. Il paradosso interno al racconto non appartiene solo alla forma del sogno – come sostiene Orson Welles nel commento che segue la sua prima lettura della parabola –, ma espone in modo razionale e incomprensibile la trama della realtà. Non per niente, nella citazione che apre queste note, Slavoj Žižek si sta riferendo alla meccanica quantistica.
xii.
Se Kafka riesce problematicamente ad accettare il dato di una realtà che concede cittadinanza al paradosso, Orson Welles non lo consente. Il suo finale anti-kafkiano mostra un’esplosione che fa saltare in aria non solo K. ma anche quel suo mondo da incubo.
xiii.
Agli occhi di Orson Welles il guardiano della porta della legge può certo assumere la familiare fisionomia del produttore cinematografico.
xiv.
La grande domanda di Quarto potere (Citizen Kane, 1941): questo è ciò che Kane (K.) ha fatto. Ma chi era? È una domanda solo apparentemente meno kafkiana di quella del Processo: questo è ciò che K. non ha fatto. Ma chi era?
xv.
1915-2015: centenario della nascita di Orson Welles e della prima pubblicazione di Vor dem Gesetz.

Fonte:  http://www.nazioneindiana.com/2015/05/26/davanti-alla-legge/